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Presentazione/Introduzione a IRIS, le favole di Francesco Bollorino

24 Mar 16

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NDR: Il volume è acquistabile on line presso il sito dell'Editore ALPES seguendo il LINK

Avessi avuto tra le mani questo libro qualche anno fa l’avrei appoggiato nella libreria dei miei figli accanto a quello che usavo leggere loro prima che si addormentassero. Lo avrei messo accanto ad un altro ligure dalla voce gentile e dal pensiero profondo e mai banale.  Sarebbe stato fianco a fianco ai tre volumi delle Fiabe italiane curati magistralmente da Italo Calvino. Ecco dove avrei collocato questo libro. E avrei avuto il piacere di leggerlo ai miei figli che sicuramente lo avrebbero apprezzato almeno quanto il loro padre. Perché un libro di fiabe non è mai solo un libro per bambini. Lo scaffale che lo ospita potrebbe essere indifferentemente quello della mitologia, dell’epica, dell’antropologia, della narrativa.
Se lo avessi messo accanto a Calvino è perché questo libro di fiabe è aria fresca, vento di primavera,  luce. Esso porta con se il mare tormentato e lirico  di Genova che Bollorino, ligure da generazioni, conosce assai bene e il quale, come fosse un oracolo, viene  interpellato da uno dei suoi personaggi più riusciti quale è il giovane Re smemorato che trova, proprio nel confronto solitario con le onde perenni del mare, lo stratagemma che gli consentirà finalmente di sposare la sua amata.
Nelle sue fiabe Bollorino racconta di deserti infiniti, paradisi, regni, orizzonti senza confini, galassie, spazi lontanissimi, ma io vi sento anche tanto Genova. Il porto, il mare, il viaggio, i colori, gli arcobaleni, il vecchio grifone, i carruggi stretti; io  sento in queste fiabe vibrare tutta la melanconia e la poesia di Genova.  E’ l’amore per la sua città che un giorno di primavera Francesco mi mostrò con orgoglio dall’alto di un belvedere come fosse uno dei suoi Re buoni con un viandante venuto da chissà dove. Non è forse questa Genova silenziosa e sottotraccia la stessa di un altro grande narratore di storie come fu Fabrizio de Andrè, a costituire la materia segreta con la quale l’autore impasta e dà forma alla sua narrazione? Non ce lo dice mai apertamente, non lo possiamo sapere. Resta solo una mia sensazione di lettore.    
Un’altra presenza biografica che non può passare inosservata in questa raccolta di favole è quella dello psichiatra impegnato per anni nella quotidianità aspra della clinica. Quale sia il segreto della passione di Francesco Bollorino per le fiabe, al quale egli stesso allude nel suo esergo, non ci è dato sapere. Ma è certo che la fiaba lo ha salvato, come ha salvato molti di noi. Solo così si può spiegare che uno psichiatra confrontato al reale più duro della clinica dell’emergenza, del pronto soccorso, dell’esposizione alla violenza del passaggio all’atto, all’allucinazione psicotica, all’assenza di pensiero, alla lacerazione  possa amare così profondamente  le fiabe. Si tratta di ricucire il velo, ricoprire l’orrore, il Terrificante, il senza senso che può ustionare la vita.
La fiaba, infatti, come sanno benissimo i bambini, ha il potere di schermare l’orrore del reale, di trasfigurarlo in una visione possibile rendendo sopportabile il buio della notte quando la notte è più fredda. E’ quello che fa anche Roberto Benigni nell’indimenticabile La vita è bella dove la tragedia del campo viene trasfigurata dalle parole del padre. Sono le parole, il racconto, la narrazione fantastica che possono salvare dall’orrore senza fondo dello sterminio.  In questo gesto di scrittura Francesco Bollorino è come il padre di Mc Carthy ne La strada: ci accompagna, non ci lascia soli al buio inumano di un mondo incenerito dalla violenza, porta il suo libro di fiabe sottobraccio, non rinuncia a leggerci le sue storie. Come il padre del figlio impaurito di Mc Carthy non cede all’orrore, ma porta il fuoco della pagina scritta e del suo racconto orale. La sua voce gentile e pacata recita le sue fiabe come fossero delle candele capaci di fare luce nel buio pesto della nostra notte.
Un uomo non è un animale anche perché può raccontare storie. Può giocare con la parola. Può giocarci sino a mentire, ferire, tradire, invidiare, colpire alle spalle, odiare a morte, uccidere. La psicoanalisi sa bene quanto potere abbiano le parole; sa bene come gli esseri umani non siano fatti d’altro. Ma le parole non sono solo armi che feriscono; esse possono anche far risorgere, rivivere, rinascere, battere la tentazione nefasta del nulla. Le parole non sono solo ustioni che non si rimarginano ma possibilità di trasformare queste ustioni in aria nuova: correre, volare, respirare, varcare i limiti, entrare in altri mondi…Come potremmo sopravvivere al reale senza l’ausilio della fiaba? Come riusciremmo a non precipitare nel cinismo o nel nichilismo? Lo si sente in ogni riga leggendo questa raccolta di racconti fiabeschi che è da questa interrogazione che viene gran parte dell’ispirazione di questo libro: fare esistere ancora la parola incantata della fiaba che resiste alla tentazione del nulla.
La fiaba non è la semplice costruzione di un mondo parallelo a quello reale. Non è il mondo immaginario che vuole nascondere il carattere insopportabile del mondo reale. Tutti i personaggi delle fiabe vengono dal reale; per questa ragione portano con sé una qualche ferita. Accade anche per quelli di Bollorino: gran parte di essi appaiono tristi, sconsolati, amareggiati, portano  “un buco in fondo al cuore” come il giovane e saggio re de Sul ripido crinale del chissà al quale un mago cattivo ha portato via “la buona opinione di  se stesso” o il bambino in espansione che si sente diverso da tutti gli altri bambini.   
Le radici della fiaba affondano nella materia più viva e incandescente dell’esistenza: la vita e la morte, il sesso, la solitudine, la difficoltà dello stare insieme, il coraggio e la paura, la giustizia e l’ingiustizia, la saggezza e l’imprudenza, l’anormalità diversa e la finzione della vita ordinaria. Con un protagonista assoluto però che è sempre quello dell’amore. Forza erotica che muove la vita, energia, slancio che sospinge la vita al di là della sua semplice presenza.  Anche l’arcobaleno, come racconta la fiaba che titola il libro, Iris, nasce dall’amore; quello di una fata per il sole. La sua fedeltà sa resistere alle prove più dure superando anche il narcisismo ottuso del suo amato. Per questo il Sole, alla fine, la potrà scegliere tra tutte portandola con sé e trasferendo i colori dei suoi occhi, dei suoi capelli, delle sue vesti sgargianti nei colori vivi e struggenti dell’arcobaleno. L’amore, infatti, non è mai un affare di lignaggio, non appartiene al Codice del sangue – come invece crede il ranocchio stolto in una delle prime fiabe del libro – ma è incontro, apertura all’inedito, disponibilità ad oltrepassare ogni Codice pre-stabilito. L’attimo contingente dell’incontro attraversa per intero tutte le fiabe di Bollorino: sia l’occasione tanto attesa dal cerino abbandonato in una vecchia e logora scatola di fiammiferi, sia quella del capostazione triste e disincantato che si ritrova abbracciato a Babbo Natale prima di vestire  i suoi celebri abiti rossi tornando a casa dai suoi figli per la prima volta felice nella sua vita.
Le favole che troviamo in Iris sono tutte favole d’amore perché tutte ruotano attorno al tempo irripetibile della tyche, della contingenza imprevista dell’incontro che sa rompere lo schema abitudinario dell’automaton, della ripetizione inesorabile del già stato rendendo possibile l’accesso ad un nuovo senso del mondo. Con l’aggiunta però che questa trasformazione non è mai una semplice cancellazione di quello che c’era prima, ma una sua torsione. Qui si può vedere la profonda continuità con la lezione della psicoanalisi: la vita che cerchi Altrove non è mai Altrove ma è già tutta qui, vicino, qui, adesso. La felicità che cerchi affannosamente non è chissà dove, ma è, può essere, già qui, ora, avvenire ora, adesso.
Non c’è favola più riuscita come quella di Aziza e del Re povero. Il vecchio saggio consiglia alla principessa di mettere alla prova i suoi pretendenti chiedendo loro di regalarle la cosa più inutile. I principi più ricchi e di grande lignaggio fanno sfoggio di scienza e vanagloria. Ma le loro risposte appaiono tutte alla giovane e saggia principessa poco convincenti perché mancano di cuore, mancano di verità. Quando è il turno del principe povero egli porta in dono come la cosa più inutile: il suo amore.
E’  questo ad eleggerlo rispetto a tutti gli altri: “Aziza, luce dei miei occhi, la cosa più inutile al mondo è il mio amore per te. Se tu mi ami, esso è una cosa inutile per me, in quanto, non mi appartiene più, essendo totalmente tuo e del pari è inutile per te, poiché se mi ami, non ti serve, essendo tu totalmente in me; se tu non mi ami, il mio amore ugualmente inutile per te, che non saprai che fartene e per me, che non so come conviverci”.
Ma la favola più bella, che da sola vale l’intero libro, è per me quella del Principe senza memoria. Straordinario qui Bollorino; egli ci racconta miticamente come nasce il linguaggio scritto. “Ci fu un’epoca in cui gli uomini non sapevano né leggere, né scrivere”. Essi bastavano a se stessi e tramandavano i loro saperi grazie alla memoria orale. Quando allora e come nacque il linguaggio scritto? Diversamente da Nietzsche,  Bollorino non pensa che esso nasca dalla violenza, dal sopruso della ragione sulla natura, dalla volontà di potenza dell’uomo. La sua favola ci riporta nuovamente al centro l’amore; il linguaggio nasce dalla necessità del Principe perdutamente innamorato, ma smemorato, di non dimenticare la sua bella e la promessa di matrimonio che egli le rivolge giorno dopo giorno. Come può tenere fede a questa promessa se la mattina del giorno dopo non se la ricorda già più? Se il giorno che viene cancella nella memoria inconsistente del giovane e gentile Principe il giorno che è stato? Grazie al suo colloquio silenzioso con il mare, il giovane Principe inventa uno stratagemma per sottrarre l’immagine della sua amata dall’erosione inesorabile della sua aleatoria memoria. Inizia a disegnare prima sulla sabbia e poi in ogni luogo il volto del suo amore per sottrarlo all’oblio. Ci vuole un’eccezione alla regola, uno scarto nei confronti dell’automaton de Codice, per fare sorgere l’invenzione.  In un mondo retto dalla Legge della memoria, è solo colui che è senza memoria – l’anormale, il diverso, l’irregolare, l’eccezione – a fare sorgere la possibilità del linguaggio scritto. Il linguaggio alfabetico e la sua scrittura nascono da qui; dallo sforzo del Principe smemorato di sottrarre l’amore al tempo.


 

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