Nel 2016 Europol diffonde il risultato di uno studio secondo cui il 20% dei jihadisti soffre di disturbi mentali. Si può davvero parlare di un rapporto tra follia e terrorismo? Non si rischia invece di sottovalutare l'interpretazione di un fenomeno complesso che si è diffuso in questi anni con attentati suicidi ed esiti drammatici in Medio oriente come in molti Paesi occidentali ed asiatici?
Di fatto l'elemento psicologico è chiaro nella nuova strategia del terrore, dai video cruenti ai manifesti web dello Stato islamico e ai trucchi di manipolazione del pensiero usati dai reclutatori per attirare nuove leve nel jihad, dal computer di casa alla trincea. Il progetto dell'Isis è tutt'altro che nichilista come qualcuno afferma: la carta tuttora vincente del Califfo nel creare nuovi adepti in molte parti del mondo, al di là delle sconfitte sul terreno, è l'offerta di certezze – identità e gloria a basso costo – che tende a crescere ad ogni nuovo attentato che da Parigi a Orlando, da Dacca a Nizza tende a creare ansia sociale e paura del crimine.
Cosa accade allora nella mente dei superstiti delle stragi?
Le conseguenze psicosociali per le vittime indirette degli attentati sono un fenomeno da studiare con attenzione quanto i processi mentali dei kamikaze per comprendere quanto è successo e prepararsi ad affrontare possibili minacce future. Imparando a lenire i traumi e le ferite aperte dei tragici eventi che hanno segnato la storia di questi ultimi anni.
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