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Una disperata transcendentalità, su “Leggere Freud” di Sergio Benvenuto

19 Giu 18

Di
“…il testo si tronca, e quiete continuano a marcire le risposte.[i]

Con queste parole di Enzensberger, nel 1984, Sergio Benvenuto chiude il suo La strategia freudiana.
È un fatto non insolito che un intervento di Benvenuto, più che terminare, si interrompa.
A riguardo, non si può non citare Leggere Lacan, intervento tenuto al convegno “Leggere e tradurre Lacan”, in cui questa troncatura, da imprevisto effettivo, retrocede a gesto stilistico, imprimendo al commento di Lacan una forma per questo ancor più efficace: “Ma qui non c’è tempo. Per cui sarei tentato di dire: ‘Ve ne parlerò la prossima volta’. Ci sarà una prossima volta? È quel che spesso mi viene da dire agli studenti quando, dopo aver spiegato un po’ di Lacan, mi sento dire ‘ma questa cosa non l’ho proprio capita!’. Dico sempre loro: ‘ne parleremo la prossima volta’. La prossima volta, insomma après-coup, capiranno magari questa cosa, ma non del tutto, per cui dirò: ‘ne parleremo la prossima volta!’ Achille continua a rincorrere la tartaruga.[ii]
Ma come notiamo qui (l’intervento, come annunciato, si chiude effettivamente con un cortocircuito logico e, di seguito, Benvenuto aggiunge: “dubbio legittimo. Ma ne parleremo la prossima volta.[iii]”), non è che lo scritto venga meno, manchi, precipiti di colpo nel silenzio, cosa che invece, per mantenere il parallelismo, accadde a Lacan quando, al XVI congresso IPA, presentando per la prima volta lo stadio dello specchio, fu interrotto da Ernest Jones per aver sforato il tempo consentitogli d’ufficio.
A dire il vero, è come se esso fingesse il suo termine, si apprestasse ad acquietarsi verso un’apparente conclusione per poi, improvvisamente, compiere un ulteriore guizzo. Lo scritto, anziché attardarsi e sospendersi, piuttosto che eccedere la propria punteggiatura, termina in modo osceno (o-skenè), fuori inquadratura, al di là dello spazio scenico, in un altrove logico sempre da ricostruire. In un primo tempo, mi verrebbe da dire che tale scelta voglia scollare anzitutto le letture di Freud e Lacan da qualsiasi sedimentazione all’interno del discorso universitario: il nocciolo di questi interventi non può essere ridotto al valore di scambio dei simposi, alle tempistiche del tempus loquendi istituzionale. Ma non credo che l’escamotage di Benvenuto si esaurisca qui. Ma, per ora, procediamo.
Così ad esempio, continuando a seguire la stessa falsariga, il saggio su Al di là del principio di piacere (o, come meglio traduce l’autore, Al di là del principio di piacere-godimento) in Confini dell’interpretazione (1988) si chiude con un paradosso: “come fa il dialogo analitico a sfuggire alla regola di ogni dialogo, alla truffa in cui ogni dialogo consiste, al fatto cioè che in fin dei conti si dialoga sempre con se stessi, dato che l’altro si limita a rimandarci, come in uno specchio, in chiave sublime o buffa la nostra immagine? Dispiegata ulteriormente, la dialettica freudiana del principio di realtà e di piacere, e poi delle pulsioni di vita e di morte, sfocia in una dialettica (cioè in un paradosso) del principio del Medesimo e del principio dell’Altro.[iv]” E, allo stesso modo, nel più tardo La psicoanalisi e il reale (2015), la (non)conclusione ci lascia a tu per tu con una viscerale insufficienza, quella che si direbbe una “crisi epistemica”: “l’analisi funziona nella misura in cui ci risitua rispetto a un rumore insensato, impensabile, non simbolizzabile, attorno a cui però si fila la rete intricata, e talvolta elegante, della nostra realtà pulsionale.[v]
Un profano della psicoanalisi, di fronte a queste parole, potrebbe serbare una certa indignazione: come sarebbe a dire, si chiederebbe, anni di analisi per poi ritrovarsi più “de-situati” di prima? La prenderebbe per una ciarlataneria. Un partigiano del settore invece potrebbe replicare che la conclusione del profano è affrettata e superficiale, insomma scorretta, ma sbaglierebbe. Perché in fin dei conti è proprio di questa de-situazione che si tratta, è proprio di questo attraversamento che consiste la “terminabilità” interminabile dell’analisi. Ma non spetta a me indugiare in simili questioni. Ciò che voglio qui evidenziare invece è la prospettiva anti-messianica che queste parole, a ragione, esaltano: la verità è che il senso che ci siamo procacciati per una vita, il bisogno alimentare di significazione che ci ha imprigionato donchisciottescamente nelle biblioteche, si erge su di un vuoto costitutivo che nessuna di queste picaresche abbuffate di razionalismo sazierà mai. Il fine piuttosto – che non è mai una fine – è imparare a saziarci del niente, prenderci sulle spalle la negazione assoluta che ci abita al di là di ogni possibile significazione. La liberazione coincide con l’incontro con il vuoto, con il nostro riconoscerci in esso. Baltasar Graciàn, nel Criticòn, ha chiamato il rinvio ultimativo a questa verità desengano: la liberazione prodotta dal contatto con la verità che però, proprio in quanto tale, trascina con sé l’amaro della condizione umana, la condanna a poter decifrare tutto fuorché se stessi. Ma la differenza fondamentale tra il gesuita spagnolo e l’analisi freudiana è che mentre nel primo il desengano è ciò che sopraggiunge per ultimo, nel momento in cui l’uomo è in procinto di uscire dal mondo – come se, in una sorta di visione anamorfica, la chiazza incomprensibile dell’engano si facesse comprensibile solo nell’istante in cui ci si appresta a lasciare la vita -, l’analisi freudiana scinde il fine della vita dalla sua fine, mettendo il soggetto di fronte alla “roccia biologica” prima che questi possa trapassare: dandogli insomma la possibilità di scendere a patti con la propria amara verità. Essa inserisce il criterio induttivo della durata temporale là dove Gracian proclama l’inesorabile atemporalità della presa di coscienza.
Anche Wittgenstein, sebbene con accenti diversi, si è pronunciato su questo destino al di là di ogni possibile significazione, chiamandolo necessaria solitudine dell’uomo: l’incapacità, oltre ogni sapere, di poter mai dire veramente la propria interiorità. Essa, dice il filosofo, potrebbe essere tutt’al più mostrata, ma sarebbe proprio questo mostrarsi a precluderne la conoscenza.
Potremmo allora rileggere la scelta di Benvenuto esposta in apertura così: l’interruzione del testo non è mero effetto di scena, un escamotage spettacolare che ricorre al vecchio trucco del finale aperto. È vero il contrario: credo che questa scelta serva a mostrare, più che a dire, che “la verità è là fuori” (come dice il motto di X-files). Che per quanto si voglia indugiare sul testo, per quanto ci si possa lasciar assorbire dai rompicapo della scienza e del sapere, alla fine è necessario uscire dalla biblioteca o, come si esprime lo stesso autore, “il volere etico degli uomini non ha niente a che vedere con i fatti del mondo e della scienza, è piuttosto qualcosa che altera i ‘limiti del mondo[vi]’”.
Da ciò consegue l’assurdità di ogni agire che pretenda di operare nell’assoluta razionalità, la sfacciata impossibilità di ogni sistema a chiudersi, di compiersi senza integrare nel suo vorace processo di territorializzazione (per usare un termine caro a Deleuze) l’elemento stesso che ne certifichi, après-coup, la costitutiva inconsistenza. Kuhn, ha nominato tale macchia in eccesso ad ogni paradigma “fede”: è un atto di fede quello che ci fa propendere per l’adozione di un paradigma rispetto ad un altro. Non dissimilmente, anche Agostino colloca al fondo del circolo ermeneutico “credo ut intelligam, intelligo ut credam” un fondamentale atto di fede: come specifica Giovanni Reale, la ragione umana non funziona senza una fede, e la fede a sua volta, deve avere un supporto razionale, una convivenza costruttiva, dinamica[vii].
Tornando a noi, questo oggetto a di cui Benvenuto ci invita a prendere atto è lo stesso resto inassimilabile che rimane dietro le parole di Wittgenstein: “Noi sentiamo che, anche una volta che tutte le possibili domande scientifiche hanno avuto risposta, i nostri problemi vitali non sono ancora neppur toccati. Certo allora non resta più domanda alcuna; e appunto questa è la risposta.[viii]
Ma in che modo approcciare tale resto indigeribile che nessuna domanda può pretendere di cogliere? Esiste un modo di relazionarsi ad esso? Io credo che qui torni utile ciò che Levi-Strauss chiamava significante di grado zero: così come il mana nella lingua polinesiana, questi significanti indicizzano ciò che non ha nome, coprono un innominabile esattamente là dove “la parola si rompe lasciando una specie di surplus carnale[ix]”.
Ritengo che questo significante zero possa essere indicizzato, nel glossario di Benvenuto, come etica: un pallore supplementare che, come la eliotiana nebbia gialla, si adagia sulle cose e persiste al di là di esse, un’ombra che sopravvive al corpo che abita e che mette il soggetto fuori di sé – l’ombra, se vogliamo, è l’ek-statico per eccellenza -, che lo trascina fuori dalla rappresentazione e lo spinge dove? Verso l’altro.
L’etica è quel significante di grado zero che, in qualche modo, cerca di tematizzare il mio essere sempre sfasato rispetto a me stesso, il mio essere sempre già intenzionato verso quell’inferno sartriano (l’enfer c’est l’autre) che è, al tempo stesso, anche la mia causa, la significatività che mi fa vivere – se gli altri mi ignorassero, non esisterei più. In questo caso, l’etica funge da supplemento, abbiamo detto, perché infondo nulla ci obbliga ad essere etici, “la legge etica non è legge naturale – ma il rifiuto di essere etici ci lega alla nostra vita come a un macigno naturale.[x]
È proprio a seguito di questo monito che, credo, si possa spiegare come, a differenza degli altri testi, le ultime righe di Perversioni siano formidabilmente angoscianti – nel senso lacaniano del termine, ovvero nella misura in cui il loro oggetto non ci dà scampo. Prima che il sipario si chiuda, lo scenario si ribalta e, come nel sogno dell’Uomo dei Lupi, lo spettatore (il lettore in questo caso) diventa lo spettacolo. Il lettore che fissa la pagina, si sente lo sguardo della pagina addosso: “la vera grande colpa, inestinguibile, è essere soli.[xi]
Più in là, noteremo come a mio avviso tale inquadratura si situi in una specifica logica benvenutiana, di cui fornisco nel frattempo solo un trailer, per così dire: tale significatività vitale è un’eccedenza che è fuor di noi, al di là della specificità di ogni singola struttura a cui ognuno è assimilato (nel senso dell’identificazione soggettiva, ma insufficiente, nei vari “ogni essere umano deve…”). Eppure, secondo la logica della prevaricazione, questo elemento che emerge solo secondariamente, come effetto, resto, anche scarto se vogliamo (poiché è l’avanzo di ogni tentativo di trasformare l’altro – e noi stessi – in una definizione puntuale ed esaustiva) del processo dialettico, si rivela prevalere logicamente sull’elemento che lo precede. Ma, come ho detto, analizzeremo questa fruttuosa logica – che Benvenuto chiama, in varie sedi, della prevaricazione – più oltre.
Tutto questo discorso ci porta, ahimé con un po’ di ritardo, a Leggere Freud (Orthotes, 2017, 198 pp.), in cui la logica di questo surplus che fonda i suoi antecedenti viene ulteriormente sviluppata, oltre che riproposta.
Non intendo cimentarmi qui in un commento dei contenuti del testo, in una loro rassegna connotativa. Lo trovo del tutto superfluo nei confronti di un libro che, lo anticipo succintamente, è un’ennesima perla della bibliografia di Sergio Benvenuto.
Il modo in cui Benvenuto legge Freud è ineccepibile e ciò è avvalorato dall’intersezione pluralistica di molteplici piani di lettura che il testo offre, pur apparendo sempre compatto: in neanche duecento pagine, questo lavoro consegna al lettore una fine performance che si rivela capace tanto di approfondire pedagogicamente i principali tasselli del puzzle freudiano senza lasciare nessuno indietro (anche il lettore meno avvezzo ai testi psicoanalitici può consultarlo senza difficoltà), quanto di spingere antifilosoficamente i freudiani più convinti ad una vera e propria crisi di identità. Il modo in cui Benvenuto esaspera, stira e dilata le pietrificate glosse freudiane stacca la psicoanalisi da quell’inchiodatura ideologica (ideologico è quel discorso che, proclamandosi scientifico, facendo per lo più appello all’immagine comune e profana della scienza, afferma qualcosa che dipende in realtà da giudizi di valore”[xii]) che ha spesso ridotto un unicum metafisico ad una piatta e perniciosa litania manualistica, una tiritera a guisa di “Introduzione a”.
Nella sua inquisizione filosofica, il testo rimane fedele a un leitmotiv che Benvenuto adotta praticamente ovunque, così sintetizzabile: le teorie psicoanalitiche non vanno prese alla lettera, ma esse stesse analizzate. Dove, per “analizzate”, dobbiamo leggere “chiarificate”. Come meglio sviluppare tale principio?
Possiamo dire che nel suo Leggere Freud, Benvenuto rimanga fedele alle premesse precedentemente adottate ne La strategia freudiana, pur mantenendone un necessario effetto di parallasse. Questo per tre motivi in particolare[xiii]:
  1. Leggere Freud vuole dire astenersi dal compiere un’esegesi dello scritto, come se ci si trovasse al cospetto di un testo sacro: nessun distanziamento iconoclasta permette di penetrare l’opera. La consultazione pertanto deve essere certamente attinente alla weltanschauung dell’autore, ma non deve temere l’eresia o, riprendendo la famosa critica hegeliana a Kant, non deve temere di inciampare nella verità, non deve temere il vuoto al cuore della verità.
  2. D’altro canto, però, la chiarificazione del testo non deve degenerare in un’appropriazione riduttivista, sacrificata ad una reinterpretazione politico-sociale del contesto da cui proviene.
  3. In ultimo, e quale conseguenza dei punti precedenti, permane il presupposto di compiere una lettura di Freud disarticolata dalla pretesa di raggiungere una verità inoppugnabile: in antitesi al motto platonico secondo cui la filosofia non deve svelare il segreto se vuole mantenere la propria consistenza, la principale tesi di Benvenuto dice proprio che il sistema freudiano si regge su una contraddizione, ovvero svela da subito che il segreto della psicoanalisi è non avere segreti[xiv].
Contro ogni conservatorismo razionalista, la psicoanalisi ha trovato la sua raison d’etre proprio nel permettere un nuovo dialogo tra discorsi pubblici e privati (“Freud ha osato pubblicare, rendere pubblico, ciò che era fino ad allora comunicazione privata[xv]”). Di più, essa non ha semplicemente agito da ambasciatore tra le due parti, ma ha messo in dubbio la perentorietà di questo dualismo. Come Benvenuto riporta in apertura del saggio, le strane contraddizioni che la psicoanalisi porta alla luce, il suo essere inopportuna, hanno permesso di rimescolare l’opposizione polarizzata tra credenza superstiziosa e razionalismo (miscredente) illuminato.
Ripercorrendo surrettiziamente le orme di un suo breve scritto (Lo jettatore), l’autore esalta la scissione culturale che attraversa l’uomo delle scienze moderne, quella tra “un sapere ammesso, rispettabile, e un sistema di credenze arcaiche, superate, disdicevoli”, rimarcando come quest’ultima componente racchiuda in sé “un atto di dissidenza della maggioranza contro le élites, contro le cosiddette scienze forti”[xvi]. Contro ogni logica oppositiva, la psicoanalisi riattiva la tensione tra i due poli del sapere e ne porta a galla le intime implicazioni reciproche. Infatti, tale nitida scissione potrà certamente valere per le nostre opinioni razionali, ma è proprio l’inconscio freudiano a testimoniarci che una simile paralogia oppositiva non si incastra adeguatamente nella nostra vita. Anzi, attraverso una svolta che Benvenuto definisce genealogica, si viene a scoprire che, se da principio è il sapere tecno-scientifico a generare la credenza superstiziosa, alla fine è questo secondo termine a prevaricare sul primo, a farne un suo sottoinsieme. Le ragioni di tale inversione ci portano nel cuore dell’annunciato principio di prevaricazione.
Lo stesso razionalismo illuminato finisce per rivelarsi sorretto da “feticci cognitivi”, ovvero non da verità ultime e inviolabili, ma da saperi che ricevono la loro autorevolezza da un vacuo “si ritiene che…”. Inoltre, queste credenze superstiziose, più che innocui saperi popolari, si rivelano essere atti politici di ribellione che sconfessano e attentano al primato del pensiero razionale: la contestazione di quella politica-sapere che si dice essere “seria e corretta[xvii]” è un atto di dissidenza che produce una breccia critica nella razionalità dominante. Insomma, intromettendosi quale terzo incomodo tra le cosiddette scienze epistemiche e il sapere doxastico popolare, la psicoanalisi ha rimesso in subbuglio uno scenario altamente polarizzato, evidenziando la reale caducità di ogni episteme: non più gnoseologia eletta, ma bisogno di superamento ed elevazione della convergenza delle doxai. O, per meglio dire, la psicoanalisi ha mostrato che l’episteme (la psichiatria positivista rimasta imbambolata di fronte all’enigma isterico) è, mi si permetta l’espressione, una doxa “che ce l’ha fatta”.
È questa ultima sfumatura a singolarizzare l’approccio di Benvenuto: leggere Freud non è un controllo dell’attendibilità delle sue tesi, quanto piuttosto scelta etica, un monito socratico. Si tratta di un desiderio che non trova soddisfazione nel sapere o nel raggiungimento di una presunta saggezza, ma che è invece la marca stessa del filosofare, un’etica che persevera nell’insoddisfazione in quanto, in questo caso, chi si soddisfa cessa di essere filosofo, “perché la filosofia è desiderio e non possesso. Ricerca infinita, senza scoperta finale della verità.[xviii]
A tal proposito, non sorprende che il libro soffra di una clamorosa asimmetria: il primo capitolo, dedicato all’isteria, si compone di quasi settanta pagine, finendo per essere tre volte più voluminoso di tutti gli altri. Credo che questa scelta rifletta la preferenza, in accordo con le premesse qui esposte, che Benvenuto serba per il Freud non solo non-sistematico, ma anche non-sistematizzato. Il Freud che non cerca la spiegazione, nel senso hobbesiano di scire per causas, di un sapere fondato sulle cause generatrici di una determinata realtà, ma punta dritto all’inspiegabile – ne La strategia freudiana, Benvenuto già manifestava questa sua passione per il Freud “antifilosofico”, definendo l’assetto umano come “ricostruibile non in termini deterministici ma di motivazioni[xix][xx]”.
Ma la non sistematicità del Freud scopritore dell’isteria, a mio avviso, non rivela solo ragioni di preferenza cronologica, quanto anche logica: il fascino freudiano che Benvenuto riesce a ricavare dalla lettura di Freud (e qui sta l’amore per il testo, come capacità di estrarre e celebrare la singolarità dell’eteros) produce una risonanza che avviluppa l’isteria alla parzialità di ogni discorso che voglia dire il vero. Una parzialità che è allo stesso tempo seducente quanto inquietante. In piena vena wittgensteiniana infatti, l’isteria è lo specchio di quegli usi diversi del termine verità che la psicoanalisi ha estratto dalla menzogna del sapere totalitario positivista: così come ciascun discorso si arrischi a far parlare la verità non può che rimanere parziale, così anche “la verità ultima dell’isteria sarebbe (…) il suo mancare di verità ultima[xxi]”.
Per Wittgenstein infatti ogni sapere poggia su di un imperscrutabile non saputo, ed ogni tentativo di colmare tale mancanza costitutiva non fa che replicare la mancanza stessa. Come il filosofo spiega con l’apologo dell’occhio, ciò che io so (ciò che vedo nel campo visivo) si fonda a partire da un fondamentale non sapere (l’occhio in quanto non visto). Come succintamente argomenta Leoni, così come “l’occhio porta alla visibilità in quanto precipita nell’invisibile”[xxii], allo stesso modo ogni darsi della verità è sempre limitato, contingente e singolare, condannato a patire il deficit di prospettiva che ingenera, parimenti, le stesse condizioni della sua parziale manifestazione. Allo stesso modo, le isteriche, identificandosi con tutte le dramatis personae della loro costellazione (“[l’]assunzione uno per uno di tutti i posti del corteo sessuale, di tutte le posizioni relative al desiderio”[xxiii]), producono un’oscillazione tale da sottrarre ogni pretesa di totalizzazione. La prospettiva dell’identificazione è sempre prospettiva dell’occhio e, in quanto tale, rimossa. Poiché non si dà sintesi prospettica, la verità rimane intrappolata nella sempre differita oscillazione tra le molteplici prospettive. È come se la frenetica oscillazione tra un occhio e l’altro (ovvero il forsennato susseguirsi di un’identificazione all’altra) segnalasse la rimozione del “grande occhio” che si vede vedersi: la verità unica, Urverdrangung che inaugura la possibilità di qualsiasi discorso su di essa, non può che manifestarsi attraverso il ritorno del rimosso in una miriade di verità parziali. Insomma, “il volto isterico [così come la verità] si riduce proprio al suo essere una, nessuna e centomila maschere.[xxiv]
L’elegante omaggio che Benvenuto dedica all’isteria, ritengo, restituendo a Freud una dignità filosofica svincolata dalle paralisi dogmatiche da manuale, getta nuova luce anche su ciò che definiremmo anti-freudiano: secondo questi nuovi criteri, sarebbe anti-freudiano non ciò che pretende di negare, confutare od opporsi a Freud (a riguardo, l’autore dà pieno credito al criterio popperiano di falsificabilità scientifica), ma chi tenta invece di ammansire quel conflitto originario che il freudismo propriamente è, tentandone una traduzione, un’astrazione sintetica e risolutrice: non ultimo è stato l’appiattimento della metafisica freudiana sul corpus neuroscientifico.
Questo ci porta dritti ad un altro tassello fondamentale del testo: la psicoanalisi non è scientifica. E questo nel senso che non pratica il ricorso incondizionato alla spiegazione. Essa funzionerebbe non tanto per la sua validità empirica (del resto, come sarebbe possibile ripetere un’irripetibilità? Ricominciare un irricominciabile?), ma per il fatto che “ci prende per la credenza[xxv]”: la sua efficacia starebbe nel far risuonare in noi, attraverso i suoi enunciati e teorie, ma anche miti, un certo sentimento di verità (“il fantasma del mentale, dello psichico, è una musica particolarmente seduttiva perché promette al soggetto la sua vera casa aldilà del pluralismo[xxvi]”).
Nel suo exploit, la psicoanalisi è stata certamente facilitata dalla caduta delle grandi tradizioni di pensiero e degli ideali occidentali. Si pensi ad esempio a marxismo e cattolicesimo, in primis; fenomeni che hanno indotto un “acuirsi della soggettività[xxvii]”. Ma la sua sopravvivenza, il persistere dell’effetto di verità che essa suscita, è consistita nel non aver mai preteso di sostituirsi – si accettano ovviamente eccezioni, ma qui mi riferisco al freudismo benvenutiano – alle rovine degli ideali caduti. Insomma, la sua forza è stata la sua prudenza, ma anche la fedeltà a se stessa, il non aver rimosso le proprie origini. Come nota acutamente Fachinelli, “non si può capire la scoperta della psicoanalisi se non attraverso il progressivo liberarsi di un uomo da un mondo di norme scientifiche e valori culturali che egli stesso ha assunto nel corso della sua lunga educazione.[xxviii]
Quella freudiana infatti è quanto di più lontano vi sia dalle scienze positivistiche appunto perché non pretende di cogliere la presunta essenza del suo oggetto. Essa piuttosto funziona come una regola per l’interpretazione, non come una legge descrittiva causale[xxix]. Non esiste alcuna sostanza concreta che giace al fondo dei fenomeni, non si dà né materializzazione né ragione ferrea dell’accadere psichico[xxx]. Anche il muro della sua significazione, così come le premesse su cui esso si regge, è fluidificato e inconsistente: “tutti i principali concetti freudiani sono fluttuanti e incoerenti.[xxxi]” Un chiaro segnale di tale ambiguità lo troviamo nel concetto di Ich che, a seconda del contesto, designa ora l’insieme delle tre istanze, ora una parte di esse. Ma la distanza che separa i lettori accademici dal modus operandi di Benvenuto sta nel fatto che i primi cercano di trarre soddisfazione dal testo risolvendo le ambiguità (e dunque forzandolo, se non addirittura invalidandolo: far quadrare i conti è un togliere i concetti dalla bocca di Freud), mentre il secondo, a riguardo, è molto più laconico: “io preferisco rispettare l’ambiguità.[xxxii]” Ritengo che questa espressione serbi una doppia implicazione:
  • Anzitutto designa un attenersi al testo, un non contraffarne la natura per i propri tornaconti e dunque fruirne una ricezione vergine da ogni altra interpretazione di sorta (il cui controcanto è, nel caso dell’Ich, la soluzione inglese, che non riesce ad astenersi dal suturare tale ambiguità con l’introduzione del Self)
  • In secondo luogo, evidenzia ancora una volta una prassi, un trovare posto nella contraddizione; il lavoro di Benvenuto sul testo freudiano è un convertire di volta in volta l’impasse, la deriva ermeneutica in occasione, in svolta incessante.
Altra menzione onorevole rispetto a quanto detto sinora è la questione del narcisismo, annoso concetto arpionato in una sempre rinnovata fluttuazione. La natura bifida del narcisismo consisterebbe nel fatto che esso, da un lato, è dappertutto – poiché è una figura strettamente adesa all’Io, ogni volta che raffiguriamo noi stessi finiamo per cadere in una posizione narcisistica -, ma dall’altro non è da nessuna parte – nel senso che non siamo in grado di circoscriverne adeguatamente la modalità in un posto determinato. Insomma, “questi significati diversi non coincidono”[xxxiii]. Ma non potremmo, del resto, dire lo stesso di un concetto chiave della psicoanalisi freudiana che, sinora, non abbiamo sorprendentemente ancora chiamato in causa? Mi riferisco alla sessualità.
Se la forza dissacrante nella psicoanalisi, al suo atto di fondazione, è risieduta nella capacità di mettere in evidenza la porosità e l’inconsistenza del suo oggetto, l’inconscio come “quella parte che sfugge al nostro controllo e si inserisce nelle nostre azioni e nelle nostre parole quasi come una blasfemia[xxxiv]”, ciò è cominciato perché Freud ha letteralmente portato la sessualità sulla scena. Ma questo spotlight sulla sessualità non aveva di mira una sua vivisezione, Freud non mette l’accento su di essa per scriverne le “istruzioni per l’uso”. Anzi, il suo sapere rimane non puntuale, sempre sfasato, eccedente. La sessualità stessa, nella sua relazione con l’inconscio, è questo scarto, bordo di eccedenza che separa il linguaggio dal puro grido. È la crepa che incide il “bastione di rispettabilità[xxxv]” del pensiero positivista. Ma sarebbe sbagliato ritenere che essa si sia limitata a scalzare il suo predecessore, ad usurparne il posto per declinare un nuovo vademecum nosografico. La sessualità (e la psicoanalisi con essa) ne è piuttosto la cavità interna, il sintomo di ogni presunta episteme che, conservando la dignità della contraddizione interna (anziché proporsi di risolverla o, peggio, di denegarla) ci chiama a tollerare il fatto che esistano usi diversi del termine “verità”.
Effettivamente, se essa è stata “l’uomo immagine” del pensiero freudiano (“l’uomo e la donna della strada direbbero che Freud è quello che spiega tutto con la sessualità[xxxvi]”), tale centralità è ascrivibile ad una sua caratteristica, per così dire, “strutturale”: il suo rimanere, in fin dei conti, qualcosa di impenetrabile. Sebbene costituisca quanto di più intimo vi è in noi, lo scrigno delle fantasie pubblicamente denegate, ciononostante il motivo del suo imperversare rimane imperscrutabile. Ogni suo tentativo di imbracamento in qualche coraggiosa spiegazione si rivela essere poroso, sempre difettante. Lungi dal rientrare in una concettualizzazione universale, la sessualità spicca proprio per la contraddizione interna che essa è. La tartaruga che Achille non raggiunge mai. Essa infatti non è riducibile ai fenomeni connessi alla genitalità, alle sue manifestazioni, per così dire. Ma d’altro canto neanche al Lust quale supplemento fisiologico e mentale della funzione riproduttiva animale. Se infatti da un lato le pulsioni sono sempre parziali (non c’è pulsione “totale”), dall’altro il tratto omogeneizzante di Eros non riesce ad isolarne il nocciolo essenziale. Come fa notare Zizek[xxxvii], il fatto che la sessualità possa traboccare e funzionare da contenuto metaforico di ogni altra attività umana non denota un segno del suo potere, ma della sua impotenza, della sua incapacità a compiersi, ad emergere quale fenomeno distinto e imprigionabile in una definizione esaustiva. È proprio questo essere allergica alla definizione che, secondo Benvenuto, ha portato i successori di Freud, nel tempo a scaricare questo ospite scomodo nel registro dell’affettivo (un destino simile si è avuto per l’altro concetto “difficile” della pulsione di morte, vittima di una vera e propria diaspora teorica). Insomma, davanti al suo blocco aporetico, i post-freudiani hanno finito per mollare l’osso della sessualità a favore di scappatoie più inclini alla sistematizzazione (ovvero, compiacenti alla mascherata pseudo-scientifica) o alla teolologizzazione (la barcollante oblatività genitale, tanto sostenuta da Fromm e Balint). Ma invece, prosegue l’autore, tale carenza di definizione non deve essere letta a mo’ di impasse, quanto piuttosto come il presupposto stesso ad ogni possibile dialettica, il prolegomeno ad ogni possibile rovescio del pensiero analitico. Come dice Wittgenstein infatti, la definizione non è che “un finto cornicione che non spiega nulla.[xxxviii]
Ricapitolando, la peculiarità della metafisica freudiana è posizionare, nel fondo del bacino epistemico, il conflitto come suo fondamento[xxxix]. Ciò a dispetto delle scienze moderne, che tendono invece a denegare, ignorare il conflitto. È in questo senso che Lacan intendeva la tendenza delle scienze a rimuovere la propria origine: rimosso il conflitto, viene meno anche la causa efficiente da cui quest’ultime emergono; in termini kuhninani, si potrebbe dire che ad essere rimosso è l’atto di fede che fa sì che un determinato paradigma venga adottato. Di conseguenza, ogni discorso scientifico sarà della scienza (genitivo soggettivo) e non sulla scienza.
Benvenuto, come ho dimostrato riportando alcuni esempi, promuove personalmente tale falla intestina all’intero sistema freudiano e la rilancia ogni volta, a discapito delle fragili ortodossie che chiudono questa Weltanschauung in una cattedrale di cristallo, in una gongoristica chimera architettonica che però, similmente al Castello dei Pirenei di Magritte, finisce per scoprirsi saldamente ancorata al vuoto.
Apprestandoci al termine di questo saggio, non resta che discutere quella che, secondo me, è la fatica più erculea e strabiliante in cui si cimenta Sergio Benvenuto: la formalizzazione della metafisica “bastarda” del Lust-prinzip e il concetto di trascendentalità, che Leggere Freud riporta impetuosamente a galla con rinnovata energia. Purtroppo, si tratta di argomenti tanto fondamentali quanto meritevoli di una trattazione estesa, che riesca a certificarne l’effettivo potenziale. In questa sede mi limiterò ad esporne una sintesi, rinviandone la dovuta esposizione ad un prossimo saggio (in lavorazione). Come a dire, “ne parleremo la prossima volta”.
La metafisica del Lust-prinzip si fonda su un assunto molto conciso: l’essenza dell’uomo è die Lust. Sarebbe a dire che tutto ciò che fa l’uomo, sit venia verbo, è teso al raggiungimento del piacere.
Lust è un termine di caratura ambigua, in quanto designa tanto ciò che è piacere, quanto ciò che è desiderio. Se la prima è aristotelicamente definibile la causa finale dell’organismo, la seconda è invece la causa efficiente di ogni vicissitudine psichica. Ritroviamo queste due cause allacciate nella stessa essenza nelle manifestazioni dell’inconscio, sintomi in primis. Il sintomo infatti “esprime l’insoddisfazione ma è a sua volta causa della insoddisfazione”, esso pertanto “non è lineare, ma reticolare[xl]”. La struttura di doppia causalità del sintomo, pur unificandosi in un’unica essenza, non può così non tradire la paradossale specificità del Lust. Non appena infatti Lust-piacere, la causa finale dell’individuo, si articola in vera e propria vicissitudine psichica (Lust-desiderio), ovvero in rappresentazione (Vorstellung), finisce per ribaltarsi in Unlust (dispiacere), tensione metonimica sempre differita e mai raggiunta. Il darsi della causa finale in causa efficiente rivela così che “la contraddizione inaugurale di tutto il sistema freudiano è che la manifestazione concreta del Lust lo rivela come Unlust[xli]”. Portando il piacere sulla scena, allo stesso tempo la rappresentazione lo rinnega, lo espone alla luce in forma negata di dispiacere. Siamo in un clima di vera e propria differenza ontologica: il passaggio dall’essenza all’esistenza del Lust deve passare per il capovolgimento in dispiacere (“il mondo degli enti rappresentativi è un ordine di desiderio e di Unlust.[xlii]”) In definitiva, il paradosso del Lustprinzip sta nel fatto che l’oggetto appare solo nell’ordine della rappresentazione ma, in essa, non appena la Vorstellung tocca il Lust, lo tramuta già da sempre in Unlust, lo negativizza in desiderio. Questa paradossale sovrimpressione per cui Lust = Unlust ci conduce in un labirinto di specchi.
Ad esempio, cosa, nella fenomenologia psichica sensibile bisogna effettivamente intendere per “piacere” a questo punto? Non è del godimento che si tratta, ma della curvatura fechneriana del termine, che Freud accoglie senza riserve: una tendenza puramente meccanica ad azzerare le tensioni. Ma se condotto alle sue estreme conseguenze, die Lust è allora la massima aspirazione dell’uomo come cessazione delle sue funzioni. Ovvero, se Lust è la verità dell’essere, se die Lust si pone come obiettivo l’azzeramento delle tensioni (Unlust), allora esso ha come meta finale l’azzeramento ultimativo di ogni accumulo, la morte. Ovvero, Eros, la tendenza a legare e all’accrescimento, pulsione di vita, si rivela essere il vestito della morte, una menzogna che mira alla distruzione dell’essente. Benvenuto definisce tale mascheramento astuzia della morte: “il modo in cui, negandosi [nella Vorstellung], Thanatos si afferma come verità estrema. Eros è la deviazione senza la quale non vi sarebbe meta.[xliii]” Lust e Unlust, in un reciproco e ininterrotto rimando, lungi dall’inscrivere una “incoerenza nella definizione dell’opposizione Vita versus Morte”, testimoniano di come vi sia “in tutto il pensiero freudiano, sin dall’inizio, una sorta di peccato originale, un chiasma inaugurale.[xliv]
Insomma, l’essenza dell’uomo ha come causa finale (e come sua stoffa) Lust, tendenza al piacere, ma poiché tale tendenza risulta in un azzeramento, questo “affrettarsi della vita verso la sua verità[xlv]” non sarebbe altro che pulsione di morte. Vi sarebbe una prevaricazione per cui Lust, che dovrebbe garantire la nostra conservazione, finirebbe per affrettarci verso l’azzeramento del dispiacere, dunque la morte e, parimenti, un’altra per cui Unlust, che sarebbe in origine un accumulo di dispiacere di cui disfarci, si rivelerebbe ciò che fa desistere il principio di piacere da questo azzeramento. Ne consegue che, poiché Lust = Unlust, sia, per così dire, il dispiacere a preservarci dall’acquietamento senza ritorno, dalla morte che entifica la destinazione ultima di Lust.
Che sia, ipersemplificando, il dispiacere a tenerci in vita, è una tesi – certo parziale e incompleta – temporaneamente consonante con quanto Benvenuto afferma in un passo di Perversioni: “la pulsione di morte è quella che ci spinge al piacere, solo al piacere.[xlvi]” La pulsione di morte sarebbe allora quel piacere assoluto, fuori da ogni argine, che riesce a ridurre a sé persino il dispiacere o, detto altrimenti, a privare l’uomo di quel “qualcosa che lo mette in cerca di guai”.
La mia tesi, che svilupperò altrove, è che alla fine, per Benvenuto, l’inspiegabilità di un fenomeno eclatante e contro ogni logica quale è il masochismo morale, risiede nell’invalidazione del paradosso per cui Lust = Unlust. Questo perché l’aspetto eclatante e sconcertante del masochismo morale non starebbe semplicemente nella bizzarra economia che sorregge un piacere spiacevole, ma nel fatto che il piacere ha trascinato con sé ogni terrapieno che ne impedisca il totale dilagamento. Parafrasando un passaggio de La strategia, è proprio perché la pulsione di morte sarebbe essenzialmente piacere che essa sarebbe in grado di rimuovere ogni dispiacere.
Il masochismo morale conseguirebbe insomma all’inceppamento di quel meccanismo paradossale per cui il Lust (essenziale), nel tramutarsi in rappresentazione (esistenziale), non dia più Unlust, ma irrompa nella Vorstellung sotto forma di piacere illimitato e senza freni. Ovvero, esso deriverebbe da Lust = Lust, in altre parole da un blocco della trascendentalità.
Ma cosa intende esattamente Benvenuto dicendo che “Freud postula la trascendentalità della pulsione[xlvii]”? Nonostante la prevaricazione di Lust su Unlust – come tendenza all’azzeramento, alla morte – Benvenuto non ritiene che l’uomo aspiri in ogni caso all’immediato Nirvana. Questo perché vi sarebbe una “tensione che non si placa mai definitivamente[xlviii]”, che capta l’uomo sotto forma di “piacere supplementare, non fechneriano, forse qualitativo[xlix]”. Questo supplemento di Eros che, anziché sottostare alla meccanica omeostatica del Lust ci spinge verso l’altro, è la pura trascendentalità della pulsione, il segreto freudiano dell’essere-con che ci spiega come la pulsione tenda a creare legame sociale: a dispetto del pulsionalismo solipsistico imputato a Freud, questa concezione afferma che c’è legame sociale proprio perché c’è pulsione.
Di conseguenza, sebbene Eros sia in fin dei conti mortifero, in quanto tende a trionfare e a compiersi, dunque ad estinguersi, a togliersi di mezzo da sé, la trascendentalità, pur avendo Eros quale causa materiale, efficiente e finale, è a sua volta – secondo il principio di prevaricazione – causa formale di Eros: produce spigoli, inserisce lembi e deviazioni. La trascendentalità rilancia Eros, lo prolunga, lo deprime esasperandolo e lo esaspera deprimendolo, tirandolo, come direbbe Céline, da un castello all’altro. Ma ciò solo nella misura in cui essa è imprevisto, scommessa, induzione ma anche, fondamentalmente, contraddizione. La trascendentalità, essendo Lust e, contemporaneamente, il suo supplemento (ovvero ciò che, in un certo senso, sospende e rinvia il compiersi di Lust) mantiene operativa la contraddizione Lust = Unlust e, così facendo, ci consegna all’altro, alla vita.
“C’è qualcosa nel soggetto che lo mette fuori di sé – nel godimento e/o nell’orrore[l]”, questo qualcosa, che con le dovute differenze Heidegger chiamava Sorge, è la trascendentalità.
 
Bibliografia
Benvenuto S.
  • Confini dell’interpretazione, Teda, Castrovillari (CS), 1988
  • Agostino: dal platonismo al cristianesimo, intervista a Giovanni Reale (https://www.youtube.com/watch?v=c981XCMaOBY)
  • La psicoanalisi e il reale, Orthotes, Napoli-Salerno 2015b
  • La strategia freudiana, Liguori, Napoli, 1984
  • Leggere Freud, Orthotes, Napoli-Salerno, 2017
  • Leggere Lacan, in www.psychiatryonline.it, 2015a
  • Lo jettatore, Mimesis, Milano, 2011
  • Perversioni, Bollati Boringhieri, Torino, 2005
  • “Sono uno spettro ma non lo so”, Mimesis, Milano, 2013
Fachinelli E., Su Freud, Adelphi, Milano, 2012
Leoni F., Jacques Lacan. L’economia del desiderio, Orthotes, Napoli-Salerno, 2016
Wittgenstein L., Tractatus logico-philosophicus, Einaudi, Torino, 2009
Zizek S., In difesa delle cause perse, Ponte alle


[i] S. Benvenuto (1984), p.193
[ii] S. Benvenuto (2015a)
[iii] Ibid.
[iv] S. Benvenuto (1984), p. 64. Ad essere precisi, il saggio cui qui mi riferisco (Dialettica della prevaricazione) è apparso per la prima volta in Giornale storico di psicologia dinamica, 9, 1981.
[v] S. Benvenuto (2015b), p.143
[vi] S. Benvenuto (1984), p.57
[vii] “Ad esempio, se chiedo a qualcuno “mi dica, per andare nella tale piazza, che strada debbo fare?” e questi mi dà una risposta, io non sottopongo la risposta ad una verifica puramente razionale, vado dove mi ha detto, e per quale motivo? Perché ci credo, fede.” Cfr. Giovanni Reale Agostino: dal platonismo al cristianesimo, https://www.youtube.com/watch?v=c981XCMaOBY.
[viii] L. Wittgenstein (2009), p.108
[ix] S. Benvenuto (2017), p.11
[x] S. Benvenuto (2005), p.176
[xi] Ibid. p.179
[xii] S. Benvenuto (1984), p.30
[xiii] Cfr. Ibid., p.15
[xiv] “Il pensiero geniale di Freud è un momento, certo alto, compreso nella tradizione metafisica che, dai greci in poi, si connette ad un progetto di dominio e di prevalenza, di prevaricazione nel tempo dello svelarsi del malinteso, in un tempo di conflitto acuto e di divergenza delle forme di vita. Se la teoria di Freud è l’interpretazione della rappresentazione come rappresentanza del conflitto, essa stessa, in quanto rappresentazione teorica, va interpretata, riconosciuta come rappresentanza di quel conflitto di cui pur essa si vuole l’episteme”. (Cfr. S. Bevenuto, 1984, p.47)
[xv] S. Benvenuto (2017), p.21
[xvi] S. Benvenuto (2011), p.47
[xvii] Ibid., p.44
[xviii] S. Benvenuto (2017), p.57
[xix] S. Benvenuto (1984), p.28
[xx] Infatti, già a partire dal caso Dora (che è successivo agli Studi sull’isteria) emerge un primo punto di vacillamento: vediamo in Freud un tentativo di “padroneggiarsi, far quadrare i conti; sbavatura che Benvenuto afferra sagacemente: “Freud è così innamorato del suo sistema esplicativo che, un po’ come Dora con il padre, ‘non riesce a pensare ad altro’” S. Benvenuto (2017), p. 68.
[xxi] S. Benvenuto (1984), p.80
[xxii] F. Leoni (2016), p.86
[xxiii] S. Benvenuto (2017), p.80
[xxiv] Ibid.
[xxv] S. Benvenuto (1984), p.32
[xxvi] Ibid. p.34
[xxvii] Ibid.
[xxviii] E. Fachinelli (2012), p.33
[xxix] In tal senso, la critica di Eysenck al desiderio sessuale inconscio che dovrebbe emergere dal fondo del sogno fallisce proprio in questo: cerca di cogliere quest’ultimo come essenza positiva e concreta (secondo una legge descrittiva causale che lo porta ad identificare tale ipotesi nel contenuto latente) piuttosto che come causa formale (il processo stesso di distorsione che cifra il contenuto latente in manifesto (come pura “regola interpretativa”).
[xxx] Vigerebbe piuttosto un pluralismo ben compendiato da Wittgenstein: non c’è un’unica ragione, ad esempio, per cui si punirebbero i criminali. Il senso profondo è dato da una convergenza di fenomeni/doxai.
[xxxi] S. Benvenuto (2017), p.98
[xxxii] Ibid., p.91
[xxxiii]  Ibid., p.98. Tale non coincidenza sintomatica del narcisismo con se stesso viene riportata da Benvenuto al nocciolo stesso della psicoanalisi: “il nocciolo della psicoanalisi consiste nell’idea che c’è un gap tra chi amiamo od odiamo e che cosa veramente amiamo od odiamo”, ed ancora “il nostro self è sempre alienato: abbiamo accesso attraverso amore e odio al nostre ‘sé’ perché questo ‘sé’ era già l’oggetto dell’Altro”. (Ibid., p.100)
[xxxiv] Ibid., p.15
[xxxv] S. Benvenuto (1984), p.16
[xxxvi] S. Benvenuto (2017), p.10
[xxxvii] Cfr. S. Zizek (2009), pp. 355-56
[xxxviii] S. Benvenuto (1984), p.16
[xxxix] “Questo conflitto è inerente all’essenza dell’esistenza come Lust” (Cfr. Benvenuto (1984), p.46)
[xl] S. Benvenuto (2018), p.43
[xli] Ibid. p.40
[xlii] Ibid.
[xliii] S. Benvenuto (1984), p.115
[xliv] S. Benvenuto (2017), p.116
[xlv] Ibid., p.120
[xlvi] S. Benvenuto (2005), p.173
[xlvii] S. Benvenuto (2017), p.137
[xlviii] S. Benvenuto (2013), p.47
[xlix] S. Benvenuto (1984), p.120
[l] S. Benvenuto (20059, p.147

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