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Autoritratto in un interno viennese, Sigmund Freud si racconta INTERVISTA ALL’ AUTORE SERGIO VITALE

3 Ott 18

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Gianluca Garrapa: Autoritratto in un interno viennese è il racconto di una lettera di Sigmund Freud del 19 marzo del 1939 (Freud morirà il 23 settembre dello stesso anno), indirizzata all’amico Engelman per ringraziarlo del dono di un album di fotografie. Fotografie dell’interno viennese al n°19 della Berggasse, la casa in cui abitò Freud prima di lasciare l’Austria per sfuggire alla persecuzione nazista.
Perché hai scelto una lettera per raccontare la vita di Freud e cosa ha significato per te scrivere questo libro?
 
 
Sergio Vitale: Di biografie di Freud ne sono state scritte molte. Ho cercato di variare l’angolatura prospettica dalla quale osservare la vita del padre della psicoanalisi e ho immaginato di far scrivere a Freud una lettera, una delle ultime, che costituisce l’occasione per ripercorrere alcuni episodi salienti della propria esistenza, quelli che, in particolare, hanno influenzato lo sviluppo del pensiero, segnando delle svolte significative. Inoltre, ho voluto fare riferimento a quello straordinario documento fotografico rappresentato dalle immagini scattate da Edmund Engelman della casa di Freud, nel maggio del 1938, facendomi guidare dall’idea che è proprio la casa lo spazio che più di altri custodisce le tracce lasciate dal passaggio di un’esistenza. C’è poi un’intuizione di Walter Benjamin che ho tenuto presente: attraverso le immagini fotografiche è possibile svelare l’”inconscio ottico” della realtà che ci circonda, ovvero vedere per la prima volta, e pensare per la prima volta, quanto l’insufficienza sensoriale del nostro sguardo ha impedito di vedere e di pensare.
 
 
G.G.: Attraverso la serie di fotografie, Freud ricostruisce la sua vita, la sua opera, ripercorre gli anni della sua attività psicoanalitica. Questa è la trama. Il contenuto manifesto, per così dire. Ma questa è anche la storia delle relazioni d’amore e d’amicizia e professionali, i dissidi con Jung e i relativi svenimenti a seguito dei litigi, la nevrosi stessa di Freud, il suo cancro alla mascella, il suo amore per la letteratura: ho nutrito sempre un grande amore per la letteratura, e mi sono cimentato sin da giovanissimo nel­la scrittura di novelle e racconti; questo libro è la storia di un’epoca, di un tragitto della cultura europea verso il collasso…
Per quanto riguarda la bibliografia, come ti sei mosso nello sterminato mare magnum della letteratura dedicata a Freud?
 
S. V.: Dietro quanto ho scritto, c’è naturalmente l’opera di Freud, e pagine del tuo ricchissimo epistolario e del suo diario. Per il resto, ho dovuto ovviamente operare una drastica selezione, e tuttavia ho tenuto presente alcuni testi che non rientrano in senso stretto nella letteratura psicoanalitica, come pagine dello stesso Benjamin o di Ernst Bloch, di ispirazione più propriamente filosofica, e altre, di teoria della letteratura, come quelle di E. Auerbach e F. Kermode. Non potevano mancare, inoltre, alcuni riferimenti ad opere di autori molto cari a Freud, pur nella loro diversità, come Goethe e Conan Doyle. Questo sta a significare, se non altro, l’ampiezza e l’eterogeneità degli interessi del padre della psicoanalisi, e le molteplici implicazioni del suo pensiero.
 
 
G.G.: … è anche un manuale che chiarisce alcuni punti fondamentali della teoria e pratica freudiana attraverso metafore e assonanze oggettuali: il processo che conduce dallo stadio inconscio a quello conscio, a esempio, è spiegato per analogia all’apparecchio fotografico: ho maturato nel tempo la convinzione che ogni processo psichico (al di fuori, naturalmente della percezione esterna) esista inizialmente in uno stadio inconscio e che da questo passi alla fase conscia, proprio come un’immagine fotografica dapprima è negativa e poi diventa una vera figura attraverso la riproduzione positiva; e come non tutte le negative devono necessariamente diventare positive, allo stesso modo non è necessario che ogni processo inconscio si trasformi in un pro­cesso conscio, e così, la Seconda Topica, quella che enuclea i luoghi psichici dell’Io, dell’Es e del Superio: sono inoltre propenso a pensare che i luoghi della nostra psiche – l’Io, l’Es e il Super-Io – lungi dall’essere determinati anatomicamente, al pari di un qualsiasi organo, corrispondano piuttosto a dei punti, situati all’interno di uno strumento quale quello fotografico.
In questo libro la fotografia è presente, metafora dell’inconscio. E nella scrittura della luce, la fotografia, non tutto si coglie. Qualcosa si perde: è questo l’inconscio ottico? Quanti tipi di inconscio esistono?
 
 
S.V.: Per Benjamin, come dicevo, la fotografia riesce a recuperare quello che il nostro occhio non sa, perché non lo vede. Così come ciò che la coscienza non coglie costituisce l’inconscio psichico, allo stesso modo ciò che l’occhio non coglie costituisce l’inconscio ottico. Analogamente, potrei dire che quanto il nostro orecchio non percepisce rappresenta quell’inconscio uditivo che determinati dispositivi consentono di rivelare. E via dicendo. Se dunque la fotografia è una protesi dell’occhio che ne aumenta la potenza, la psicoanalisi freudiana può essere considerata come una protesi della coscienza che mira ad ampliare il suo potere. Con le parole dello stesso Freud: “Dove era l’Es, ci sarà l’Io”.
 
 
G.G.: Ma la tecnologia ritorna, a metafora della traduzione dell’inconscio durante la seduta psicoanalitica: il funzionamento psichico dell’inconscio dell’analista è paragonato al funzionamento del ricevitore telefonico: allo stesso modo in cui il ricevitore ritrasforma in onde sonore le oscillazioni elettriche della linea telefonica che erano sta­te prodotte da onde sonore, così l’inconscio del medico è capace di ristabilire, a partire dai derivati dell’inconscio che gli sono comunicati, questo stesso inconscio che ha deter­minato le associazioni del paziente.
Un Freud attento alle novità tecnologiche dell’epoca, che ascolta e vede nelle cose esterne, negli oggetti, la dilatazione stessa dell’inconscio, una sorta di espansione dello stato psichico che plasma le cose. Per Freud l’ascolto è un elemento fondamentale dell’analisi, […]: l’orecchio si sostituisce all’occhio per sorprendere e captare la sonorità ancor prima del messaggio, dell’ostensione di senso intelligibile. […] ma il luogo dell’analisi è anche uno spazio di risonanza, all’interno del quale egli è come un’onda che viene, si espande e si ritira, e che non si richiude in sé, se non rilan­ciandosi immediatamente al di là di sé, in una sorta di messa in eco personale.
Che rapporto hai con la musica e in che modo pensi possa aver influenzato il tuo stile di scrittura? che rapporto esiste tra musica e psicoanalisi?
 
S. V.: Da grande scrittore qual era, Freud ha fatto spesso ricorso alle metafore. Tuttavia, è bene distinguere quelle metafore che assolvono ad una funzione pedagogica o esegetica, volta ad agevolare la comprensione di quanto si ha intenzione di esporre, e tali sono la metafora dell’apparecchio fotografico e del telefono, da quelle altre metafore che rivestono un ruolo ben più importante e che potremmo definire costitutive di teoria. Una su tutte: la metafora archeologica, che, pur nelle sue variazioni, è la spina dorsale della dottrina psicoanalitica. Freud l’ha mantenuta per tutto l’arco del suo pensiero, e la sua eliminazione equivarrebbe a svuotare in ampia misura la teoria psicoanalitica.
Quanto al rapporto tra musica e psicoanalisi, Freud non è stato un gran cultore di questa arte. Questo però non vuol dire che non possedesse un orecchio molto attento ai suoni delle parole, al loro senso sensibile: rime involontarie, allitterazioni, assonanze ecc., così da cavarne indicazioni fondamentali per lo sviluppo dell’analisi. Il caso dell’Uomo dei lupi, sotto questo aspetto, è esemplare.
Venendo invece al mio rapporto con la musica, posso dire di considerarmi un buon ascoltatore. Non di rado, mi capita di lavorare ascoltando della musica, ma non si tratta affatto di un semplice tappeto sonoro. Un verso di Wallace Stevens dice: “Perhaps / The truth depends on a walk around a lake”. Potrei ugualmente dire che la verità, a volte, dipende da una sequenza di note.
 
 
G.G.: Anche la struttura architettonica della sua abitazione diventa metafora: ci sarebbe anche da riflettere sul fatto che il piano del­la mia abitazione fosse un ammezzato, ovvero uno spazio collocato nel mezzo, tra il piano terreno e il piano nobile dell’edificio, ancora una volta un luogo intermedio, limi­nale, che partecipa di ciò che sta in basso come di ciò che si trova in alto, del trafficato commercio nelle botteghe che si aprono sulla strada, come del tempo più composto (al­meno in apparenza) e segreto che avvolge la vita familiare. Spazio intermedio in un’architettura stratificata, proprio come la posizione occupata dall’Io nell’architettura strati­ficata della psiche, stretto tra il tumulto dell’Es e la severa vigilanza del Super-Io, e del trattamento analogico godono anche le finestre, i luoghi che dividono, unendo, interno e esterno, i punti di transizione e sutura, di godimento scopico: questo mi fa pensare che, dinanzi a questa finestra, sia come sostare sul margine della coscienza, luogo sospeso tra interno ed esterno, né dentro né fuori, in attesa che essa si possa finalmente aprire per sconfiggere l’opacità e consentire la comunicazione tra quanto altrimenti resterebbe separato per sempre, la realtà del mondo e la profondità della psiche.
 In che luogo hai scritto questo libro? E che rapporto hai con i tuoi luoghi abitativi?
 
S. V.: Credo che esista un rapporto molto stretto tra la casa in cui si abita e lo sviluppo di un pensiero, soprattutto nei casi in cui si sceglie dove abitare o addirittura si progetta e si costruisce dove abitare. Mi riferisco, ad esempio, alla baita di Martin Heidegger nella Selva Nera, o a quella di Wittgenstein su un fiordo norvegese, o anche alla dimora progettata dallo stesso Wittgenstein a Vienna, per la sorella Margarete. Qui lo spazio abitativo riflette alcune istanze profonde del proprio modo di fare filosofia e di pensare il mondo.
Per quello che mi riguarda, io vivo in campagna, tra Firenze e Siena, ed è lì che ho scritto il libro.
 
 
G.G.: Metafore, analogie, affinità, come tra il sogno e la risata, il meccanismo linguistico che censurando il contenuto latente, lo manifesta deformandolo in assurdi ghirigori da quadro fiammingo o nelle desuete immagini dei Fratelli Marx, o nei motti di spirito: la stretta affinità con i giochi di parole e i motti di spirito, da cui si ricava solitamente un certo piacere, e che costituiscono un modo per esprimere in maniera concisa quanto in altra forma risulterebbe vietato o sconveniente. Il lapsus e le dimenticanze, i gesti sbagliati, come la macchia d’inchiostro, sul foglio della lettera indirizzata alla sua futura moglie Martha, provocata da un gesto nervoso che gli fa scivolare di mano la penna quasi a sbarrare il corso dei pensieri, a censurare la gelosia: alla fine fui preso dal pensiero che Martha potesse nutrire una forte simpatia nei suoi confronti, o fosse addirittura sul punto di invaghirsi di lui. Come potevo competere io – povero medico dall’incerto futuro – con un uomo baciato dalle Muse?
In che modo la psicoanalisi può applicarsi all’arte e condividere le proprie traiettorie con quelle della letteratura?
 
 
S. V.: Come ha scritto a suo tempo Paul Ricoeur, Freud è un esponente della cosiddetta scuola del sospetto. Ciò vuol dire che lo sguardo psicoanalitico è portato sempre a dubitare di quanto si presenta a prima vista, e questo vale anche per l’opera d’arte. Se vogliamo comprenderla nel modo più profondo, dobbiamo indagare i motivi segreti che hanno spinto alla sua realizzazione, dobbiamo fare i conti non solo con la coscienza, ma anche con l’inconscio del suo creatore. Come il vaso di argilla rammentato nel Libro di Isaia, ogni artefatto dice: “Non mi hai fatto tu”, smarcandosi dal proprio artefice. Queste sono le parole che l’orecchio della psicoanalisi è pronta ad intercettare, nella convinzione che al processo creativo prenda immancabilmente parte non solo l’io dell’artista, ma anche, se non soprattutto, quell’altro che lui stesso è, e che alberga nel suo inconscio. 
 
 
G.G.: La confessione più segreta, l’amore inquinato dall’ossessione della gelosia, diventano un incidente, un incidente non casuale: non so dire in che misura quell’incidente sia stato intenzionale, magari perché mosso dalla voglia di provare quanto breve sia la distanza che di­vide la finzione di un grande romanzo dalla realtà; di sicuro posso ribadire che non fu dovuto al caso.
Ecco la grande lezione: imparare dagli errori e intraprendere il viaggio verso la comprensione di sé stessi. La macchia che resta separata dal corpo della scrittura, segnala un latente contenuto in un contenuto manifesto. La macchia: una sorta di aureola che le santi­ficava, per così dire, se sanctus è propriamente ciò che rimane separato.
L’inchiostro sul foglio, l’oggetto che disobbedisce al gesto, l’errore, da cui Freud capisce molto, che separa quel che è manifesto nella lettera e quel che si cela e infine, per sbaglio, viene alla luce. L’errore può generare una scoperta, a patto che l’errore, il perturbante, il sinistro, l’incidente, ci colgano nella loro estraneità epifanica.
Freud, nel corso della sua esperienza, non ha mai anteposto la teoria alla pratica, al contrario, ha adattato la teoria a partire dalla pratica, calibrando non l’individuo alla teoria ma la teoria all’individuo.
Sempre pronto a rimettersi in discussione, in questa lettera Freud ribadisce ancora una volta il fatto che la verità psicoa­nalitica non può affrancarsi dalla legge del ritardo, la quale prescrive un regime temporale della separazione, e cioè stabili­sce inderogabilmente una cattiva sincronizzazione tra l’acca­dere degli eventi e l’acquisizione del loro senso, il quale non potrà in ogni caso definirsi ultimo, ma assai più giustamente sempre e comunque penultimo. Un senso costante di aggiornamento, dunque, per cui la teoria viene, di momento in momento, misurata sulla pratica. E l’errore è sempre in agguato. Un evento può diventare scoperta, ma un evento che non ci ossessioni non contiene in sé alcuna spinta alla scoperta. E la scoperta accade su quel foglio, scrive Vitale, sul piccolo foglio ingiallito dal tempo, di nessuna eleganza, allora non poteva certo permettersi carta intestata e di pregio per i suoi scambi epistolari.
Ci sono stati, nella tua vita professionale, errori particolarmente importanti da farti scoprire verità inaspettate?
 
S. V.: Errori particolarmente importanti, come tu dici, non ce ne sono stati, e forse per questo non ho mai scoperto, ahimè, verità inaspettate. Naturalmente, qui non si tratta di dire che si impara sempre dagli errori, o teorizzare la bontà dell’apprendimento by trial and error. Posso però raccontare di un piccolo incidente, che può essere considerato un errore dettato da una rage de vouloir conclure, anche se non è in ambito professionale. Anni fa, attraversando velocemente la soglia di un supermercato, non mi accorsi – benché munito di occhiali – del vetro che ne sbarrava l’ingresso, impattando con una certa violenza. Da quell’episodio ho tratto la convinzione che la trasparenza non è un valore assoluto, soprattutto nel senso dell’epistemologia, dal momento incoraggia l’illusione dell’autoevidenza delle cose, le quali non avrebbero così alcun bisogno di un incremento di riflessione e di interpretazione. Niente di più contrario all’ottica della psicoanalisi e, più in generale, della ricerca conoscitiva.
 
 
 
G.G.: Freud non nasconde la sua fascinazione per la letteratura, specie poliziesca, scrive di essere stato per tutta la vita un lettore fedele di racconti e romanzi polizieschi, specialmente inglesi, da Agatha Christie a G.B. Chesterton, a Dorothy Sayer; appassionato d’arte: posso dire di avere una sconfinata considerazione dell’arte classi­ca, ma non di quella moderna, le tele degli impressionisti o dei surrealisti (che pure esplicitamente vogliono ispirarsi alla mia dottrina) mi lasciano alquanto indifferente, come pure i quadri di Klimt e di Kokoschka, e probabilmente questo vale per la musica di Mahler o di Schönberg, una passione che lo conduce a rileggere la tecnica psicoanalitica attraverso il linguaggio della critica pittorica: emblematico è il metodo del critico d’arte Giovanni Morelli secondo cui a partire dallo studio particolareggiato del dipinto, il modo di fare le mani, le orecchie, il panneggio caratteristico di ogni artista, si potrebbe risalire automaticamente all’identità del suo creatore: esiste una stretta parentela tra il metodo di Morelli e la tecnica psicoanalitica, in quanto anche questa è avvezza a penetrare cose segrete e nascoste in base a elementi poco apprezzati o inavvertiti; allo stesso modo l’esegesi biblica ha formato la mente di Freud a leggere oltre le righe: l’esegesi diventa così un metodo generale di concepire la realtà: sappiamo che le parole e i fatti devono significare qualcosa di più e di diverso da ciò che dicono. Fino al punto da utilizzare gli scenari prelevati dalle sue letture per ambientarvi i racconti scritti per illustrare le sue teorie: i racconti apparsi sullo Strand recavano delle belle illustrazioni per mano di Sidney Paget; in una di esse Holmes e il fido Watson comparivano nello scompartimen­to di una carrozza ferroviaria, mentre il primo era intento a sciorinare la serie delle sue brillanti deduzioni dinanzi allo sguardo esterrefatto del secondo. Ricordo che questa scena mi piacque a tal punto che, a distanza di anni, volli ambienta­re allo stesso modo, nel contesto di un viaggio in treno tra la Dalmazia e l’Herzegovina, la spiegazione della dimenticanza, da parte mia, del nome dell’artista che ha dipinto la scena del Giudizio universale nel Duomo di Orvieto: si tratta dell’atto mancato che apre emblematicamente il libro sulla Psicopato­logia della vita quotidiana.
Al punto di figurarsi un dialogo tra lui e Sherlock Holmes, dialogo durante il quale emerge non solo, come si è già scritto, l’affinità tra lo psicoanalista e il detective, tra l’arte dell’ascolto psicoanalitico e la letteratura, (per cui ai suoi allievi consigliava, quando sarebbero diventati analisti, di narrare quello che avrebbero elicitato i loro pazienti: lo stesso caso clinico, si badi bene, deve essere redatto con il medesimo criterio, poco importa se si corre il rischio che esso venga letto come una novella, priva dell’impronta rigorosa della scientificità, e non riportare meccanicamente le loro parole), ma anche le attinenze tra settori diversi del sapere, sicché l’analista è pure un archeologo: l’analista non solo è un detective, ma è anche un arche­ologo, e questo ruolo mi sembra ancora più appropriato. L’indagine psicoanalitica scava in profondità, alla ricerca di indizi e anche ricostruisce i fatti che hanno preceduto il trauma o il delitto, il passato che il paziente ha scordato, le tracce che invano l’assassino ha cancellato del tutto.
Quali sono i tuoi principali riferimenti letterari e artistici in rapporto alla teoria psicoanalitica?
 
S. V.: Due riferimenti soltanto. Il primo, in ambito letterario, al libro di Witold Gombrowicz, Cosmo, un romanzo, come scrive lo stesso autore, sulla formazione della realtà. Mi permetto una citazione: “È possibile che mai niente sia espresso realmente, che sia reso nel suo anonimo divenire, nessuno saprà mai esprimere il vaniloquio dell’istante nascente, perché noi, nati al caos, non sappiamo mai incontrarlo, basta infatti uno sguardo perché dal caos, immediatamente, nasca l’ordine… e la forma…”. Sono parole che valgono, nel migliore dei modi, ad illustrare la situazione che vide Freud alle prese con la sua macchia d’inchiostro nella lettera a Martha.
Il secondo riferimento, in ambito musicale, è a John Cage. Nell’universo dei suoni egli non ha stabilito alcuna differenza gerarchica: anche i rumori, di qualsiasi specie essi siano, fanno parte a pieno titolo della musica. Al pari di Freud, Cage era convinto che ci fosse molto da raccogliere tra i rifiuti, e come il primo ha tratto dalle macchie (lapsus, dimenticanze, immagini oniriche…) un talismano capace di cambiare il senso della vita, lo stesso ha fatto Cage con le macchie acustiche, ed entrambi sono stati, per molti, motivo di scandalo.
 
 
G.G.: Freud pare contemplare un insieme di nozioni, di esperienze, e percorrere una lunga catena costruita di rimandi, in cui il soggetto è anello in una struttura più ampia e articolata. Ologrammatico pare il discorso, nell’uno il tutto e il tutto rimpicciolito nell’uno: tutta la vita non è che una grande catena, la cui natura si rivela ogniqualvolta ne scorgiamo un singolo anello, per quanto minuscolo possa essere. Come Cuvier poteva descrivere esattamente un intero animale osservandone un solo osso, così un osservatore che ha afferrato un semplice nesso in una serie di eventi, dovreb­be essere in grado di indicare con precisione tutti gli altri, sia quelli precedenti che quelli successivi.
 Ci spieghi meglio questa idea della Grande Catena dell’Essere e come ha guidato la tua ricerca?
 
 
S. V.: L’idea che esista una universale concatenazione degli eventi ha da sempre esercitato un certo potere di seduzione. Non posso dire di esserne rimasto vittima, al punto da fare di questa idea una guida per la mia ricerca. La mia idea di un’interazione in un complesso di elementi, indipendentemente dalla loro natura specifica, non va oltre quanto suggerito dalla teoria dei sistemi viventi, di cui mi sono occupato in passato. In base a questa teoria, una volta stabiliti con chiarezza i confini di un determinato contesto comprendente un certo numero di elementi, e tenuto conto che tali confini sono permeabili, così da permettere – tra interno ed esterno – lo scambio continuo di lavoro, energia e informazione, il comportamento di un singolo elemento si ripercuote su tutti gli altri elementi, e, per altro verso, è da questi dipendente. Questa è una visione che privilegia senz’altro il concetto di relazione e impedisce di pensare ad una realtà in cui le diverse entità conducono la propria esistenza indipendentemente le une dalle altre. Quest’ultima visione, inutile dirlo, ha procurato danni enormi nel campo delle scienze dell’uomo, e in particolare della psichiatria.
 
 
G.G.: Una concatenazione di eventi: forse aveva visto bene Freud nel 1939, anticipando quella massima, non del tutto peregrina, in seno alla Teoria del Caos: “Può, il batter d’ali di una farfalla in Brasile, provocare un tornado in Texas?”.
Il Freud ologrammatico ingrandisce davvero i particolari, cinematograficamente, come nel passaggio in cui descrive la litografia appesa alla parete della rappresentazione di una lezione di Charcot: sulla parete, in alto, accanto alla porta di comunicazione con la sala d’attesa, è collocata una litografia di Eugéne Pi­rodon, ispirata dal dipinto di André Brouillet, raffigurante il grande Jean-Martin Charcot nel corso di una delle sue cele­bri lezioni del martedì all’ospedale parigino della Salpêtri­ère. Freud descrive l’immagine all’interno della più ampia immagine fotografica evocando una lontananza temporale in un’autoanalisi continua della profondità. Un vortice, quasi, che conduce Freud a descrivere l’immagine in un movimento regressivo e sempre prossimo a richiudersi sulla propria interiorità, sfiorandola, bordeggiando.
Freud ci insegna una postura, ci guida a capire la differenza tra la finzione narrativa e l’impostura. 
 Oggi spesso di parla di false notizie: Freud come spiegherebbe questo incremento di impostura?
 
 
S. V.: La menzogna, grazie a internet, agisce oggi su grande scala ed è in grado di condizionare fortemente l’opinione pubblica, in base agli interessi più disparati. Per altro verso, la comunicazione interpersonale che si stabilisce attraverso i vari social media, dà la possibilità di creare delle identità fittizie. Alfred Adler, che fu per un certo periodo seguace di Freud, parlerebbe a questo proposito di “menzogna di vita”, per indicare quell’inganno perpetrato nei confronti di sé stessi e degli altri, allo scopo di compensare il proprio complesso di inferiorità. Freud, dal canto suo, si è limitato alla bugia infantile, suggerendo agli educatori del suo tempo di adottare una particolare attenzione nei confronti di quelle menzogne che non sono dettate dal capriccio o dal bisogno di difendersi dai rimproveri dell’adulto, ma sono piuttosto dettate da impulsi d’amore straordinariamente forti e diventano fatali se sono fonte di malinteso tra il bambino e la persona che egli ama.
 
 
G.G.: Vitale incastona una ricostruzione romanzesca, colma quei vuoti tra una pausa e l’altra della scrittura, attraverso il racconto di quello che manca, una ricostruzione che opera in sintonia con quella dell’analista; il materiale dimenticato è di un altro tipo, è il campo periferico fuori dalla scrittura, completamente perso, che ci si può immaginare soltanto, eppure funzionale: con ciò si intende dire che ad essere costruito ex novo è il materiale che, aggiungendosi a quello preesistente, lo completa e lo restituisce alla sua integrità, ma questo non implica né garantisce che esso, proprio in quanto costruito, sia in tutto e per tutto della medesima natura e consistenza dell’originale. Freud poi continua, con la sua tipica capacità di concretizzare i concetti e gli abissi della psiche, paragonando l’operazione di ricostruzione che avviene in seduta, con quella, ahimè, tragica della sua mascella ricostruita in seguito al cancro: se posso permettermi l’esempio, la protesi che porto nella bocca è stata costruita al fine di ricostruire per intero la mia mascella, dopo l’asportazione chirurgica di una sua parte: essa vuole dunque restaurare una integrità perduta, ma il materiale di cui è composta è ben di­verso da quello presente nel restante cavo orale; nonostante questo permette alla mia mascella di continuare a funzionare come funzionava in precedenza.
In questo modo, mi sembra, si sveli proprio quell’idea della scrittura generata nell’intorno al vuoto della Cosa, e la narrazione diventa un vortice intorno all’impossibile della Cosa che pure esiste tra la necessità della scrittura e la contingenza dell’atto totale del vivere, fuori dalla scrittura, dallo studio analitico.
Per analogia all’impossibile, si può stare nel possibile e in questa ipotesi le costruzioni delle storie elicitate dai pazienti in analisi sono delle vere e proprie performance narrative, esse si pongono al riparo dal mito di una reduplicazione speculare dei fatti così come si sono realmente prodotti, e scelgono più saggiamente, e forse con maggiore audacia, di collocarsi sotto il segno dell’Analogo, il quale detta la sua sola condizione: i fatti nel loro complesso devono essere accaduti come si dice in questo racconto. Questo è il vero significato dell’affermazione secondo cui non si può ricostruire il passato se non costruendo. Ma non per questo, l’efficacia terapeutica viene meno.
 Come ti sei regolato nello scrivere, nel colmare queste pause? In che modo hai lavorato alla parte ‘romanzesca’ della finzione letteraria?
 
S. V.: Se vuoi suggerire un parallelismo tra le (ri)costruzioni in analisi e la mia (ri)costruzione della vita di Freud, posso risponderti che – neanche tanto al fondo – c’è qualcosa che le accomuna, direi la convinzione che non si può ricostruire quanto è accaduto in un passato più o meno lontano se non costruendo, e cioè introducendo di propria mano nuovi elementi. Tu fai riferimento agli inserti narrativi, che frammezzano la stesura della lettera di Freud, come esempio di questa operazione di costruzione, ma in realtà è l’intera lettera che, nel mentre ricostruisce una vita, al tempo stesso la costruisce. Solo il lettore, una volta chiuso il libro, potrà dire se l’operazione è riuscita o meno; allo stesso modo di quanti, al termine dell’esperienza analitica, hanno poi giudicato più o meno persuasive, e dunque terapeuticamente efficaci, le (ri)costruzioni freudiane.
 
 
G.G.: Freud, nella lettera, scrive a un Tu, manifesto tu nell’altro in carne e ossa, e celato Tu della Cosa, della madre, che ha sempre creduto in suo figlio, e questa pratica non è solo della scrittura ma anche della sua attività di oratore, come scrive ripensando alla sua amica intima Lou Andreas-Salomé: quando parlavo ero solito rivolgere sempre il discorso ad una persona particolare tra il pubblico, e quella sera avevo fissato come incantato il posto vuoto che era stato riservato a lei.
Mentre scrivevi questo libro c’è stata una persona in particolare a cui ti sei mentalmente rivolto?
Un’ultima cosa: la lettera racconta una storia attraverso delle fotografie, ecco, ti chiederei: qual è l’obiettivo di questo libro?
 
 
S. V.: Sono le persone a me più care che mi fanno compagnia in modo visibile e invisibile quando scrivo. Sono le stesse, in realtà, che mi accompagnano nel corso dei miei giorni.
L’ “obiettivo” del libro? Se vogliamo continuare con la metafora della fotografia, l’intento è stato quello di “ingrandire” alcuni episodi della vita di Freud, al fine di far risaltare taluni dettagli: la serata mondana in casa Charcot, la collocazione del divano nella sala di consultazione, la lettura di un testo di Aristotele, il pezzo falso nella collezione di arte antica, una lettera a Martha… E intorno a questi dettagli, agglutinare pensieri, ricordi e sensazioni, tessere una trama ora fitta ora rada in grado restituire il senso di un intero arco di vita, ricostruendo con una certa passione, o forse meglio: costruendo, perché è proprio questo che la passione è più portata a fare

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