Uno dei modi per valutare e approfondire la conoscenza di una cultura o, addirittura, di un tipo di civiltà, è indagare l’atteggiamento che quella cultura o quella civiltà assume verso la malattia mentale e, se vogliamo usare un termine più romantico, verso la “follia”.
Nel corso dei secoli, si sono succedute posizioni diverse che vanno dalla sacralizzazione della “follia”, alla sua demonizzazione e infine alla sua emarginazione e esclusione.
Nell’antichità i malati venivano considerati invasi da una divinità e col termine “mania” si definiva questa presenza divina estranea nell’intimo dell’individuo.
Nel Medio Evo e, gradualmente, nel Rinascimento, l’atteggiamento prevalente fu quello di considerare la presenza estranea nell’intimo del malato come una presenza demoniaca, che andava depurata e decontaminata, talvolta addirittura colla morte del malato, considerato stregato.
Quando poi la scienza ha preso il sopravvento, nuovamente il malato è stato considerato spesso come lesionato in modo irreversibile e quindi più come un oggetto da studiare, che come un soggetto con cui incontrarsi.
Possiamo forse dire che colla fenomenologia e colla psicoanalisi si è fatta strada l’idea potente che il malato fosse un soggetto, portatore di una interiorità sofferente, ma dotata di una sua oscura logica, che poteva essere indagata e in parte almeno schiarita e illuminata.
È da qui, a mio parere, che parte il libro di Vincenzo Cesario: qual è la posizione della società e in particolare della società italiana, verso il malato mentale oggi?
Quanto della posizione fenomenologica e quanto di quella psicoanalitica sono penetrati in profondità e quanto invece hanno lasciato aree scoperte e non coltivate?
Egli riconosce che in questo preciso momento storico siamo in presenza di un riflusso, in cui predomina verso la sofferenza mentale una sorta di indifferenza, di retrazione dell’attenzione, di non reattività. La sofferenza non viene accolta e non viene combattuta: si potrebbe dire che in certa misura venga ignorata.
Le risposte diventano quindi sbrigative e veloci, come se ci si volesse liberare di un problema, piuttosto che conoscerlo e farsene carico.
Questa posizione, secondo Cesario, e non si può non condividere la sua posizione, riflette un più generale atteggiamento che tutta la società occidentale tende a assumere, anche se con significative e importantissime minoranze, che non si riconosceva in questo andamento. Potremmo parlare di un’emarginazione che passa per l’indifferenza, una sorta di massiccia negazione di massa.
In questo modo, la sofferenza non riconosciuta può sfociare nel rancore e nella ribellione e questo alimenta un ulteriore passo verso l’emarginazione: “Avete visto, non sono sofferenti, sono pericolosi”.
Ma Vincenzo Cesario non si ferma per fortuna a queste importanti considerazioni.
La risposta di Cesario è al tempo stesso addolorata e coraggiosa.
Egli passa in rassegna i numerosi strumenti che la psichiatria ha messo a punto per affrontare i suoi oggetti di lavoro e mostra come molti di questi strumenti sono efficaci e, più che altro, suscettibili di sviluppi, miglioramenti, prospettive.
Ma tutti questi strumenti presuppongono un atteggiamento di base imprescindibile. Non è possibile applicare nessun modello terapeutico, se non si riconosce che il vettore, il substrato, la struttura di fondo della cura è sempre il rapporto personale, un ancoraggio a una figura di terapeuta riconoscibile e non intercambiabile.
Non si tratta di offrire a tutti una psicoterapia. Si tratta di proporre un ancoraggio personale, che può assumere varie forme, comprese quella della psicoterapia. Questo presuppone uno sforzo scientifico, uno sforzo formativo, e uno sforzo di tutela dei curanti.
Cesario è consapevole dell’impegno, politico, umano e professionale, che tutto questo comporta.
Ma questo sforzo ha due meriti.
Il primo è uno sforzo che ripaga in termini di studio, di ricerca e di sviluppo. Insomma è uno sforzo che apre degli orizzonti.
Il secondo: il consumo di energia con pochi risultati è al momento attuale immenso e ci vuole più fatica a continuare così che a sforzarsi di cambiare.
Dobbiamo essere grati a questo utile e appassionato libro di Vincenzo Cesario di averci tutti richiamati al piacere di uno sforzo costruttivo e non a quello di una fatica ripetitiva e logorante.
Nel corso dei secoli, si sono succedute posizioni diverse che vanno dalla sacralizzazione della “follia”, alla sua demonizzazione e infine alla sua emarginazione e esclusione.
Nell’antichità i malati venivano considerati invasi da una divinità e col termine “mania” si definiva questa presenza divina estranea nell’intimo dell’individuo.
Nel Medio Evo e, gradualmente, nel Rinascimento, l’atteggiamento prevalente fu quello di considerare la presenza estranea nell’intimo del malato come una presenza demoniaca, che andava depurata e decontaminata, talvolta addirittura colla morte del malato, considerato stregato.
Quando poi la scienza ha preso il sopravvento, nuovamente il malato è stato considerato spesso come lesionato in modo irreversibile e quindi più come un oggetto da studiare, che come un soggetto con cui incontrarsi.
Possiamo forse dire che colla fenomenologia e colla psicoanalisi si è fatta strada l’idea potente che il malato fosse un soggetto, portatore di una interiorità sofferente, ma dotata di una sua oscura logica, che poteva essere indagata e in parte almeno schiarita e illuminata.
È da qui, a mio parere, che parte il libro di Vincenzo Cesario: qual è la posizione della società e in particolare della società italiana, verso il malato mentale oggi?
Quanto della posizione fenomenologica e quanto di quella psicoanalitica sono penetrati in profondità e quanto invece hanno lasciato aree scoperte e non coltivate?
Egli riconosce che in questo preciso momento storico siamo in presenza di un riflusso, in cui predomina verso la sofferenza mentale una sorta di indifferenza, di retrazione dell’attenzione, di non reattività. La sofferenza non viene accolta e non viene combattuta: si potrebbe dire che in certa misura venga ignorata.
Le risposte diventano quindi sbrigative e veloci, come se ci si volesse liberare di un problema, piuttosto che conoscerlo e farsene carico.
Questa posizione, secondo Cesario, e non si può non condividere la sua posizione, riflette un più generale atteggiamento che tutta la società occidentale tende a assumere, anche se con significative e importantissime minoranze, che non si riconosceva in questo andamento. Potremmo parlare di un’emarginazione che passa per l’indifferenza, una sorta di massiccia negazione di massa.
In questo modo, la sofferenza non riconosciuta può sfociare nel rancore e nella ribellione e questo alimenta un ulteriore passo verso l’emarginazione: “Avete visto, non sono sofferenti, sono pericolosi”.
Ma Vincenzo Cesario non si ferma per fortuna a queste importanti considerazioni.
La risposta di Cesario è al tempo stesso addolorata e coraggiosa.
Egli passa in rassegna i numerosi strumenti che la psichiatria ha messo a punto per affrontare i suoi oggetti di lavoro e mostra come molti di questi strumenti sono efficaci e, più che altro, suscettibili di sviluppi, miglioramenti, prospettive.
Ma tutti questi strumenti presuppongono un atteggiamento di base imprescindibile. Non è possibile applicare nessun modello terapeutico, se non si riconosce che il vettore, il substrato, la struttura di fondo della cura è sempre il rapporto personale, un ancoraggio a una figura di terapeuta riconoscibile e non intercambiabile.
Non si tratta di offrire a tutti una psicoterapia. Si tratta di proporre un ancoraggio personale, che può assumere varie forme, comprese quella della psicoterapia. Questo presuppone uno sforzo scientifico, uno sforzo formativo, e uno sforzo di tutela dei curanti.
Cesario è consapevole dell’impegno, politico, umano e professionale, che tutto questo comporta.
Ma questo sforzo ha due meriti.
Il primo è uno sforzo che ripaga in termini di studio, di ricerca e di sviluppo. Insomma è uno sforzo che apre degli orizzonti.
Il secondo: il consumo di energia con pochi risultati è al momento attuale immenso e ci vuole più fatica a continuare così che a sforzarsi di cambiare.
Dobbiamo essere grati a questo utile e appassionato libro di Vincenzo Cesario di averci tutti richiamati al piacere di uno sforzo costruttivo e non a quello di una fatica ripetitiva e logorante.
NOTA SULL'AUTORE DEL SAGGIO:
Vincenzo Cesario, psichiatra, svolge attualmente attività privata come psicoterapeuta ad orientamento psicoanalitico. Ha ricoperto l’incarico di direttore di Unità operativa complessa presso i Servizi psichiatrici 2 e 3 del Dipartimento di salute mentale della AULSS 9 Scaligera di Verona. Formatosi con Salomon Resnik, presso l’Associazione Studi Psicoanalitici di Milano e l’Anna Freud Centre di Londra, è da anni impegnato nellaformazione e nella ricerca sui disturbi di personalità e sulle nuove forme di disagio mentale.
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