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RECENSIONE A: ” Jacques-Alain Miller, Antonio Di Ciaccia, L’Uno-Tutto-Solo”

10 Feb 19

Di Annalisa Piergallini
In un lavoro pluridecennale, Miller ha estratto i seminari, dalla stenografia dell’insegnamento orale di Lacan, che ne ha accettato la proposta di stesura dei suoi seminari. Durante questa redazione, ora al termine, Miller ha contemporaneamente tenuto i suoi incontri, davanti a un pubblico, a Parigi; questo risale all’anno accademico 2010-2011.
Il reale per Freud è la biologia, per Lacan la topologia[1]; di questa si serve soprattutto nell’ultima parte della sua elaborazione, che è quella che Miller chiarifica in questo suo discorso. Si tratta quindi, a sua volta, di un insegnamento orale, tradotto da Antonio Di Ciaccia per noi italiani; è Miller che ha voluto che fosse co-firmato.[2]
Alla fine si trovano i testi di una Conversazione clinica, quella di Montpellier, in cui una decina di colleghi presentano dei casi, ognuno a partire da una frase del Seminario XXIII di Lacan, e commentati da Miller e dagli altri colleghi.



Adesso alcuni spunti dalla prima parte: L’Uno-Tutto-Solo.
Anche se fa costantemente riferimento alla matematica, solo dal 1972 Lacan scrive di topologia[3], gli serve soprattutto per circoscrivere il reale, che prende progressivamente spazio nella sua teoria[4], in quanto resiste.
Già il cogito di Cartesio, pur essendo una certezza, era irrappresentabile. “La connessione divina tra l’ordine della rappresentazione e il reale è stata stroncata a partire da Kant, che ci fa uscire dal Medioevo”[5]: la “cosa in sé” è inconoscibile.
Schopenhauer, che Lacan non cita mai[6], scrive: “Il mondo è una mia rappresentazione”; Heidegger: “il mondo come immagine ideata”. Ma comincia tutto da Cartesio.
Il reale è dunque escluso dal sapere, quindi, anche dal sapere analitico.[7] “Il dramma dell’insegnamento di Lacan, e forse anche di chi pratica la psicoanalisi, dipende dal distacco tra verità e reale”.[8]
Può succedere, dice Miller, che il soggetto si accorga, sulla sua carne, che il suo mondo era “un’immagine  ideata”, alla Heidegger, una sua “rappresentazione”, alla Schopenhauer; dopo quello che Lacan chiama: l’attraversamento del fantasma.[9]
“la cosa più ardua (…) è il rapporto del godimento con il senso, cosa che non si presta ad alcun attraversamento”[10]. In parte sì, il godimento può essere tradotto in sapere inconscio e può essere sublimato, ma nel reale resta qualcosa di indicibile. Il reale è l’automatismo di ripetizione di Freud che rendeva, per lui, l’analisi interminabile. E il reale è la causa[11].
Sembrerebbe lasciare la bocca asciutta. E meno male, del resto, se nella vita ce vò il coraggio, e la fame[12]. Alla fine di un’analisi, c’è il sinthomo, ma così come, davanti a una montagna, Hegel dice: “è così, c’è una montagna”[13].
Il godimento femminile, ci dice Miller, è stato l’apripista per il reale. Tutto il discorso inconscio (regolato solo nella pratica analitica dall’edipo[14]) si arenava sul godimento femminile, non quello fallico, che naturalmente hanno anche le donne, l’Altro, impermeabile al senso, in parte, puro evento di corpo.
Forse per la stessa ragione è stata Eva a mangiare la mela spalancando le porte dell’inferno dell’umana sofferenza nel corpo, poiché il godimento “è addirittura impensabile senza corpo”[15], come sanno bene i robot.
La femminilità è la via, perché solo rinunciando alla virilità[16], cioè al tentativo di mettere una pezza sulla castrazione, l’uomo si pacifica, non si tratta di una scelta di genere, né di una spinta alla passività di fronte ai colpi della vita, ma la fine della guerra contro i mulini a vento.
Resta l’uomo da solo, con il suo godimento. Scrive Di Ciaccia, nella presentazione: “Il godimento si ripete all’infinito dal momento che lo si è incontrato una prima volta in modo più o meno traumatico. (…) Si è drogati di qualcosa che è l’effetto della propria esistenza”.
La passe è un procedimento in cui si può testimoniare ai colleghi della propria fine analisi, estraendone significanti nuovi. L’oltrepasse di cui parla Miller, la passe dopo la passe, porta con sé molte cose: un orizzonte in cui la psicoanalisi possa conversare con le sue sorelle orientali (come già Lacan indicava nel Seminario I, nel paragone col maestro Zen); il coraggio dei propri atti, dopo l’analisi, ma anche prima, se si può, in modo anche di poterci occupare, oltre ai mulini (quello resta il necessario lavoro degli psicoanalisti) del movimento ecologista e delle lotte politiche; imparando dalle discipline artistiche, sportive e manuali, che si occupano comunque, in qualche modo, della sublimazione, poiché la scimmia è già cucita nella schiena[17].


[1] P. 19.
[2] P. 275-276.
[3] P. 22 e 44.
[4] P. 33.
[5] P. 27.
[6] Ibidem.
[7] P. 31.
[8] P. 34.
[9] P. 37.
[10] P. 38.
[11] P. 23.
[12] Detto udito al mercato.
[13] P. 54.
[14] P. 75.
[15] P. 62.
[16] P. 65.
[17] Rif. La scimmia sulla schiena di William Burroghs (Junkie, scritto nel 1953; Rizzoli, 1998). Si tratta di un’autocitazione, da una mia poesia: La scimmia cucita nella schiena (2005).
 
 

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