Identificato ormai dalla cultura di massa come l'incarnazione del male assoluto, Adolf Hitler, l’uomo che per una poco più che decennale aberrazione del sistema politico ha cambiato il corso della storia e, nel tentativo di elevare la Germania all’egemonia mondiale, ha invece consegnato per 50 anni la Vecchia Europa, spaccata in due, al dominio sociale, economico e culturale di Unione Sovietica e Stati Uniti, è, non a caso, l’individuo su cui si è più scritto in assoluto dopo Gesù Cristo. “Non a caso” perché l’ideologia nazionalsocialista, questa tödliche utopie (“utopia mortale”, Dahm, 2008), è probabilmente – dopo l’innocua, letteraria e ininfluente ideologia sadiana – la più grande visione del mondo anticristiana e antievangelica, la realizzazione di massa della “transvalutazione di tutti i valori” di cui vaticinava, senza comprenderne le possibili conseguenze sociali, Friedrich Nietzsche (Nietzsche, 1888).
Il nesso tra nazismo e filosofia nicciana, su cui si è scritto a lungo, non ha soltanto a che fare con le corrispondenze tra l’ideale della razza e il concetto di Übermensch (Superuomo / Oltreuomo), quanto col fatto che il nazismo è stato storicamente la più radicale realizzazione del Potere Umano e della sua Idealizzazione. “Se Dio è morto, tutto è permesso”: l’affermazione premonitrice di Ivan Karamazov (Dostoevskij, 1881) è lo sfondo su cui, con la mediazione nicciana, Hitler e il nazismo, grazie al consenso mantenuto con una capacità di persuasione senza precedenti, hanno potuto pensare alla possibilità di trasformare radicalmente il Mondo sulla base di nuovi valori, totalmente destituiti di un controllo trascendente. Il “folle” cui Nietzsche fa annunciare ne La gaia scienza (Nietzsche, 1882) la “Morte di Dio”, si chiede: “Non è forse la grandezza di questa morte troppo grande per noi? Non dovremmo forse diventare divinità semplicemente per esserne degni?”.
Il nazismo ha concretizzato questa posizione filosofica al contempo positivista e tardoromantica, rigorosamente anti-trascendente, materialista, scientista e autoreferenziale, in vista della fondazione di un nuovo impero politico e religioso al contempo, basato sul primato dell'uomo antropologicamente più elevato, il tedesco o, meglio, l'Ariano; questa era esplicitamente l'intenzione non solo di Hitler ma soprattutto di Himmler, col suo culto per gli antichi germani[1] e l'ideazione delle nuove cerimonie e rituali. Questo grandioso processo politico, religioso (seppure di una religione laica) e scientifico-antropologico è giustamente considerato “folle” da chiunque lo guardi dall’esterno ovvero a posteriori, e tale rimane quanto più passa il tempo. Ma il giudizio di follia dev’essere articolato e motivato, e questo a tutt’oggi non è stato fatto adeguatamente. Non basta dire, peraltro giustamente, come Lifton (1986), che “fu folle la fusione del romanticismo decadente wagneriano, pervaso di morte, col positivismo più assoluto”. È folle ciò che è sorretto da una potente attivazione irrazionale, tale da poter consentire l’adesione incondizionata di idee desunte dallo scientismo e dal tardo-romanticismo dell’epoca, e da concretizzarle sulla base dell’idealizzazione di un profeta salvifico, Adolf Hitler, in realtà un uomo mediocre e banale, forse perfino meno che normale.
Solo un Profeta può costringere a realizzare azioni feroci e antiumane (il Male assoluto) senza alcuna titubanza e alcun dubbio, animato da una certezza che non ammette scalfiture. Per questo si può dire che dal punto di vista della Ragione ogni Profeta, in senso proprio, non è altro che un è altro che un vero psicotico. Ed è in effetti quasi certo che Hitler avesse avuto l’intuizione (delirante) di essere un profeta e di avere dunque una missione “superiore” cui adempiere. Solo questo ci autorizza, come professionisti della follia, a immetterci nella storiografia del nazismo.
Sommari o più approfonditi sguardi storici continuano ancora oggi a sollevare la domanda: “Com’è stato possibile?”, senza essere in grado di rispondervi. Troppo complessa è forse l’incredibile coincidenza di fatti storici (le condizioni della Germania post-bellica e l’umiliazione del Trattato di Versailles), politici (il predominio in tutta Europa di governi autoritari e dittatoriali contro i modelli democratici e parlamentari), di Zeitgeist (la cultura völkisch della Germania ottocentesca, la Renaissance della mitologia tedesca col suo apice nell’opera di Wagner) e di fattori individuali (la psicopatologia di Hitler), perché a tutt’oggi se ne possa trarre un quadro interpretativo unico e coerente. I tedeschi, che hanno visto la loro Kultur e la loro nazione rase al suolo, e che hanno rischiato l’autosterminio di massa (in quanto razza inadatta a incarnare gli ideali hitleriani, secondo lo stesso giudizio dell’ultimo Hitler), tutt’ora se lo chiedono. Non solo: se lo chiedono ovviamente gli ebrei, il popolo che più di ogni altro ha rappresentato il Nemico e il Male per Hitler, e per questo ha subìto il crimine assoluto della Shoah; e se lo chiede chiunque guardi i numerosi filmati di repertorio sui campi di sterminio che i nazisti, con meticolosità teutonica, producevano per documentare la loro “grande impresa”, o i molti film che sono stati tratti dalle memorie dei sopravvissuti. A suo tempo, infine, se lo chiedevano gli Alleati, quando cominciarono a commissionare a psichiatri e psicoanalisti i primi rapporti riservati e criptati sulla personalità di Hitler, per cercare nella sua personalità abnorme il primum movens di una simile follia di massa. La Follia come causa del Male; un concetto che è forse uno dei più radicati di fronte ai fatti storici e a crimini di questa assurda dimensione: una Follia segreta, intima, che a partire da traumi e deficienze private può produrre false idee o quantomeno idee improbabili, svincolate da ogni base scientifica, storica ed etica; idee che possono però incredibilmente essere credute e rafforzate da un consenso di massa (una follia di massa, dunque)? Oppure una Follia legata saldamente, consustanzialmente, all’identità e al ruolo sociale, la Follia di qualunque Potere quando ottiene un consenso diffuso e sa mantenerlo con ogni mezzo imponendo qualsiasi decisione, anche la più folle (una Follia quindi socialmente fungente e accettata)?
Nel 1938 alcuni ufficiali come von Beck e Oster tentarono ingenuamente, e senza riuscirci, di indurre un cattedratico di Berlino, il professor Bonhoeffer, a inviare Hitler in una istituzione psichiatrica (Redlich, 1999). Questo fatto, trascurato dai libri di storia, esprime un’intuizione precoce di cosa avrebbe portato la “follia” hitleriana[2]. Certamente se Hitler non avesse detenuto il potere che aveva, sarebbe stato curato, prima o poi, volontariamente o meno (Redlich, 1999). Invece Hitler, durante il suo cancellierato, non consultò né fu mai visitato da uno psichiatra e preferì le cure molto dubbie di un medico generico da lui scelto, il dottor Morell, che con ogni probabilità aggravarono il suo stato mentale. Durante la sua vita alcuni tentarono di formulare una diagnosi psichiatrica, ma senza giungere a conclusioni verosimili e valide [3].
Il legame tra Follia e Male ha trovato negli psicoanalisti ebrei emigrati negli Stati Uniti, chiamati a periziare il persecutore principale del popolo ebraico, i più valenti assertori. Ma l’idea che la Follia della Storia nasca dalla follia individuale del Führer continua a riproporsi decennio dopo decennio, in quanto l’esercizio della “perizia psichiatrica” su Hitler è andato avanti fino ai giorni nostri con sempre nuovi contributi che risentono dei cambiamenti paradigmatici e dei diversi orientamenti della psicopatologia. Rivedere diacronicamente questi esercizi del pensiero psicopatologico su una personalità che, in vita, non fu mai possibile indagare, è anche fare la storia delle proiezioni teoriche che una simile personalità può stimolare negli esperti; è quindi anche un esercizio epistemologico su come certa psicopatologia sia influenzata dalle motivazioni, dai valori, dalle ossessioni del tempo; sia cioè nient’altro che un corpus più o meno sistematizzato di modelli della mente destinati alla provvisorietà.
Il primo scopo di questo studio è quello di proporre una rassegna quanto più estesa, ordinata e completa degli scritti psicopatologici dedicati alla personalità di Hitler: riassumerli, confrontarli e criticarli metodologicamente, alla ricerca di qualcosa di valido e di “comune” che possa dare valore al pensiero psicopatologico di fronte a un compito così importante dal punto di vista storiografico e sociale, ma anche, come si è detto, evidenziare gli elementi più ingenui e improbabili delle psicobiografie. Consapevoli che l’esaustività in questo campo è certamente un fine irrealizzabile, ci si può dire soddisfatti di essere riusciti a rintracciare (non sempre facilmente), per poterli poi riassumere, molti degli studi più importanti e rappresentativi delle varie epoche e sufficienti per dare un quadro generale dell'officina delle interpretazioni che si è sviluppata nel mondo della psichiatria e della psicoanalisi..
Il secondo scopo di questo lavoro è quello di analizzare criticamente il materiale bibliografico alla ricerca di quanto di più verosimile e obiettivo ne è contenuto. La consapevolezza della sostanziale debolezza del pensiero psicopatologico e psichiatrico, sia nello “spiegare” che nel “comprendere” i fenomeni psichici, non deve però esimerci dal tentativo di provarci ancora, senza la rabbiosa determinazione di voler racchiudere la comprensione dei fatti nel rassicurante hortus conclusus di una teoria. Il “caso Hitler” in questo senso è paradigmatico dell’estrema ambiguità dell’interpretazione psicopatologica in aree in cui la follia si percepisce ma non dà, almeno individualmente, manifestazioni diagnosticabili con certezza . Alla fine di una lunga rassegna diagnostica, sgombrando il campo dalle opinioni più teoreticamente compromesse, restando ai fatti meglio accertati e indubitabili, la personalità del Führer ci ha sollecitato a rivisitare la nozione sfuggente della psicopatologia “borderline”, nelle sue varie costruzioni sintomatologiche e interpretative, e nel suo contesto, quella di “personalità psicotica” e delle sue evoluzioni regressive paranoicali.
Il terzo scopo dello studio è quello di abbozzare una “psicopatologia del consenso”: come cioè sia stato possibile che un personaggio così facilmente screditabile da ogni punto di vista come Adolf Hitler abbia potuto incarnare il potere a un livello probabilmente sconosciuto a ogni altro uomo di Stato, grazie al vasto e accecante consenso di un’intera nazione culturalmente evoluta. Questo esempio non ci interessa soltanto nella sua rilevanza storica, ma anche e soprattutto come un modello di meccanismi che si realizzano a tutt’oggi a molti livelli micro – e macro – sociali. Come scrive Bollas (2005), il mondo è verosimilmente pieno di piccoli sistemi fascisti, essendo fascista ogni sistema di pensiero che crede di raggiungere la perfezione attraverso l’espulsione della complessità. Questa riflessione ci porta a pensare a tutti i modelli razionali del pensiero come una barriera critica rispetto alla possibilità che al potere vi siano una o più persone con serie problematiche psicopatologiche, un’evenienza non rara nella Storia ma mai così esemplare come nel Terzo Reich.
Il libro si compone di tre parti: la prima è dedicata alle analisi psicopatologiche di Hitler; la seconda all'analisi psicologica del consenso, che in ultima analisi interpreta il nazismo come una psicosi condivisa da un intero popolo; la terza parte include una serie di riflessioni conclusive e generali sul fenomeno delle follie legate al Potere assoluto, un fenomeno che va aldilà delle concretizzazioni politiche maggiori ma che è condiviso nella sua struttura anche a livello micro-sociale. Segue un appendice che include materiali informativi.
[1] Himmler sosteneva di essere la reincarnazione dell’imperatore Enrico I l’Uccellatore, coltivava l’ossessione per la ricerca delle radici arie. Fondò l’Anhenerbe, l’“Associazione per la ricerca e la diffusione dell’eredità ancestrale”, nel tentativo di fare delle SS un ordine neopagano, con tanto di tempio. A questo scopo, adoperando manovalanza ebrea di un apposito campo di concentramento, ristrutturò la fortezza di Wewelsburg presso Paderborn, dove sarebbero poi avvenuti i riti iniziatici, (Galli, 1989).
[2] Questo episodio non è storiograficamente definito in modo univoco. Lifton (1986), ad esempio, scrive che il tentativo fu opera di un gruppo di oppositori, tra i quali figurava Hans von Dohnay, che era genero di Bonhoeffer e che gli sottopose una relazione sulle varie infermità di Hitler per portarlo davanti a un tribunale e impedire la politica che di lì a poco avrebbe scatenato la Seconda guerra mondiale. Anche nel corso dell’ultimo anno di guerra alti gerarchi nazisti organizzarono un complotto nel tentativo di dimostrare l’infermità di mente di Hitler, coinvolgendo un gruppo di psichiatri tra i quali Ewald.
[3] Seguendo la ricostruzione di Redlich (1999), il “report psichiatrico” del dottor Brinsteiner, un medico generico, era ingenuo e non aveva valore, ed è inoltre improbabile che il neurologo dottor Forster abbia trattato Hitler negli ultimi tempi della Prima guerra mondiale. L’unico incontro documentato con uno psichiatra è quello con Kurt Schneider, ma non avvenne in un contesto professionale. Il professor De Crinis emise la diagnosi di morbo di Parkinson sulla base di articoli di settimanali, senza visitare Hitler. Il libro del dottor Kruger, che riporta varie richieste di consultazioni da parte di Hitler per problematiche sessuali, è una frode. Il professor Williams passò seri guai dopo aver diagnosticato Hitler come un isterico senza visitarlo. Ella Lingesn ascoltò dal principe Lowenstein che Freud si era rifiutato di fare una diagnosi su Hitler senza poterlo visitare
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