Gianluca Garrapa: Letizia Cipriani, laureata in filosofia all’Università di Firenze, esordisce con questo lavoro sul filosofo Henri Bergson (1959-1941) per le edizioni Mimesis nella collana Vite Riflesse.
La vita del filosofo non è separata da quella dell’uomo impegnato politicamente – l’incontro con il Presidente degli Stati Uniti, per esempio, per convincerlo a intervenire a fianco degli alleati contro la Germania durante il primo conflitto mondiale – ciò che determina un intreccio tra pensiero filosofico e esperienza pratica. Memoria, durata, percezione, slancio vitale, sono alcuni dei temi e dei tempi che Bergson affronta e esperisce. Succede spesso nella psicoanalisi di viaggiare nella memoria, in questo luogo immateriale del corpo, e però di vedere, di sentire, gli effetti pratici proprio ripercuotersi sulla quotidianità della carne e delle relazioni sociali. La memoria, in particolare, è uno dei temi-tempi più radicalmente percorsi dal filosofo che cita, a un certo punto, la Recherche di Marcel Proust, cugino acquisito, in particolare quel famoso passo sulla Madeleine…
Allora… cosa è la memoria per Bergson e come influenza le sue scelte e le sue azioni?
Letizia Cipriani: La memoria per Henri Bergson è essenzialmente la coscienza. La durata si sviluppa nella materia vivente esattamente in una struttura/modalità denominata dal filosofo memoria.
Una memoria che non ha nulla a che vedere né con la tradizionale interpretazione quantitativa e oserei dire statica, del box dal quale si traggono informazioni, né somiglia alla nuova memoria analizzata dalle teorie neofisicaliste-scientifiche (salvo rare eccezioni quali Antonio Damasio), le quali tentano di rendere dinamica la memoria attraverso una tassonomia delle memorie (procedurale, episodica e così via).
La memoria di Bergson è una struttura temporale vivente, caratterizzata da alcuni movimenti riconoscibili come passato, presente e futuro, ma che immediatamente in lui si diversificano in altrettanti movimenti/momenti temporali di una coscienza.
Bergson spodesta completamente le tradizionali convinzioni su concetti quali ritenzione, protensione, presentificazione e più in generale presente, passato, futuro.
Questi tre momenti, che ripeto, in Bergson sembrano differenziarsi a prisma, si sciolgono in un flusso del divenire cangiante che lascia poco spazio alla distinzione netta tra i vari movimenti/momenti.
Ciò nonostante la memoria ha la chiara funzione di permettere al vivente tutto ciò che è pensiero, riflessione, astrazione, ipotesi, probabilità, desiderio, aspettativa, ragionamento, sensazione, percezione ed emozione. Tengo a precisare tutte queste proprietà/funzioni/modalità del vivente in quanto Bergson, essendo un monista temporale, non trova ontologicamente, né metafisicamente delle differenze di sostanza tra suddetti fenomeni: sono tutti fenomeni temporali. La memoria li tiene insieme e il corpo ha memoria!
Un vivente non ha più o meno memoria, è memoria, una dilatazione/contrazione/sospensione/proiezione tipiche dell’espressione vitale in generale, che mutano da soggetto a soggetto, esprimendosi in ritmi vitali tra loro molto diversi.
G.G: Come Freud, padre della Psicoanalisi, anche Bergson era di origine ebrea, cosa che poi gli ha procurato non pochi problemi, e come Freud è stato protagonista di un cambiamento radicale nella Filosofia: perché ti sei appassionata proprio di Bergson e quali sono le caratteristiche che lo rendono un filosofo fondamentale nel panorama della scienze umane?
L.C.: Nel percorso filosofico, nonostante la mia enorme famelica curiosità, direi ossessiva-compulsiva, che mi rende apprezzabili tutti i filosofi con i quali intreccio una relazione, ho avuto solo una, per dirla nei termini di Husserl, invarianza: il rifiuto del dualismo sostanziale, ontologico e metafisico, portatore a mio avviso di tutti i problemi irrisolvibili della filosofia occidentale.
Penso di essermi appassionata a Bergson perché è l’unico che ha saputo riempire il monismo strutturale con il quale probabilmente sono nata a livello vitalistico e dunque esperienziale, con la sostanza che andavo cercando fin dall’adolescenza: il tempo puro. Qualcosa di molto, molto diverso, rispetto a ciò che tradizionalmente viene concepito come tempo, sia in fisica che in filosofia.
G.G: Passiamo alla genesi del pensiero: nel libro ci racconti la nascita e lo sviluppo delle idee filosofiche di Bergson, ce ne tracci il profilo?
L.C.: Bergson ha vissuto in un momento storico particolarmente dialettico, ovvero caratterizzato da opposti in forte tensione, quest’ultima componente cardine del reale a lui contemporaneo.
Da una parte il positivismo scientifico sempre più potente ed efficace e pertanto quasi assolutistico, dall’altra il ritorno irrazionale e dogmatico di uno spiritismo esoterico e quasi ‘esotico’ che viene purtuttavia influenzato prepotentemente dallo scientismo materialista di fine ‘800, diventando quasi ‘spiritismo scientifico’.
Bergson adolescente appare come un promettente matematico, ha una mente molto lucida, schematica e progressiva, ma al contempo fin dall’inizio della sua scelta verso lo studio e la ricerca filosofica, questo filosofo si è trovato in una condizione quasi da ibrido: equidistante dall’idealismo e dal realismo, equidistante rispetto ai vari opposti dialettici. Bergson non sta nel mezzo, Bergson è il frutto di quella tensione. Non così materialista per divenire positivista, non così spiritualista per venir associato chiaramente alla neometafisica spiritualista del XIX e XX secolo.
Bergson non è passibile di etichettature a meno che uno non voglia usarle tutte o quasi. Questo non è il risultato di una mancanza analitica o strutturale della sua teoresi, bensì della sua metafisica temporale monista. Queste forme di monismi si esprimono con una modalità quasi neutra che spesso, ahimè, nella descrizione in termini filosofici, paradossalmente, appare come una posizione ‘fumosa’ e inconsistente.
G.G: Presente? no durata: è il titolo di un capitolo del tuo libro ma anche una distinzione fondamentale che permette a Bergson di prendere le distanze dalla tradizione filosofica. Che differenza c’è tra presente e durata?
L.C.: Il presente è un movimento/momento nel quale la durata si sviluppa. Ci sono molti tipi di presente.
La durata, nella materia organica, ha come struttura/modalità la memoria. Secondo Bergson anche nelle piante la durata si esplicita in memoria, dotata di un ritmo particolare, ‘immobile’ o come afferma lui ‘dormiente’. La durata quindi comprende tutte le modalità temporali, tutti i ritmi ma, a differenza della memoria, può non prevedere necessariamente il dispiegarsi di tutti i movimenti/momenti temporali. Ad esempio, la materia inorganica ha una durata priva di ritmo slanciato. Per dirla alla Bergson, nella materia inorganica la memoria non dorme come nelle piante, più spiccatamente, (non totalmente), ‘immobili’ rispetto al mondo animale, bensì non c’è proprio! La materia inorganica nasce e perisce costantemente in un presente puro dove non vi è presenza di entificazione/identificazione/soggettivazione. La vita, ‘necessita di tempo’ per il suo slancio vitale e la sopravvivenza ed ha bisogno di poter manipolare questo tempo, ballando con esso con le proprie modalità/movimenti temporali, quali il trattenimento, la dilatazione, la proiezione e così via. La memoria è il collante di questo tempo di per sé assolutamente impersonale e fluente. Uno degli strumenti più efficaci per bloccare questo flusso e manipolarlo è giustappunto il linguaggio.
G.G: Come tanti teorici e letterati, e come Freud e in seguito Lacan, anche Bergson ha affrontato, nel famoso saggio sul riso, il tema della comicità (Henri Bergson, Le rire. Essai sur la signification du comique, Éditions Alcan, Paris, 1900), o meglio del perché si ride di una certa situazione. Ebbene, egli diceva che proprio l’improvviso arresto del tempo, la meccanizzazione del corpo, destano la risata. D’altra parte proprio questi giorni di quarantena ci hanno messo davanti l’incubo dell’immobilità, della risacca statica, del blocco temporale, per così dire. Cosa avrebbe detto Bergson di questa situazione di stallo, d’arresto? Come l’avrebbe spiegata, alla luce della sua idea di temporalità?
L.C.: Bergson prima di essere il filosofo del tempo è il filosofo dell’azione. Anzi, Bergson ha scoperto il tempo grazie all’azione. Per lui tutto è azione, anche la forma più passiva e automatica di impressione sensoriale. Azione sta per modificazione reciproca, ovvero sia dell’ambiente che del soggetto, visti in termini monisti e non dualisti, tendo sempre a precisare.
Detto questo, risulta chiaro come per lui fenomeni quali l’abitudine e la novità/inaspettato siano le variabili che scandiscono come maestri d’orchestra la durata di un soggetto.
Ebbene, durante questa pandemia ci siamo trovati in una forte limitazione agentiva, uno scossone terrificante della nostra durata dove la struttura della memoria si è trovata in una sorta di loop incapace di concretizzare nel presente quella complicata forma non sintetica, bensì simbiotica, che è appunto la vita.
Il loop che ci siamo trovati a dover affrontare è stato innanzitutto: improvviso, antirelazionale poiché coercitivo e caratterizzato da una mancanza di modificazione/variazione temporale, (perciò Bergson avrebbe parlato di sospensione di ritmo).
Siamo stati profondamente legati al passato abitudinario (pur sempre estremamente fondamentale per un vivente), ma tale abitudine non si è modificata nel presente con l’incontro quotidiano con l’alterità soggettiva e oggettiva. Il passato non è mutato, cioè non si è presentificato, ovvero non si è slanciato verso il futuro, modificato dall’esperienza presente, perché nell’esperienza presente rimaneva pur sempre ‘virtuale’, quindi inefficace e statico, paludoso.
Abbiamo proiettato nel futuro, molto spesso, abitudini contratte nel passato, prive di modificazioni qualitative e ci siamo aggrappati a queste abitudini, a ‘cosa si faceva prima della pandemia’, in modo compulsivo, innalzando tale agenzia passata al grado di libertà personale.
Questo significa che, contrariamente a ciò che potremmo pensare, quando si parla di sospensione, se vogliamo rifarci al complicato tempo bergsoniano, non stiamo parlando di una implosione del presente nel presente, bensì di una sospensione dello stesso, vittime di una durata ‘mozza’ con annessa una sorta di pausa, impropria. Si passava dal passato al futuro senza il filtro del presente e questo, secondo Bergson, come qualsiasi durata vitale dove uno dei vari movimenti viene meno, è sicuramente un rischio enorme per l’equilibrio del soggetto.
Questo disequilibrio si comprende a pieno basti pensare al paradosso nel quale ci troviamo al momento dove, la socialità e le relazioni comunicative spostate su IA e vari social, producono una connessione malata dove la privacy e lo spazio personale vengono meno.
Non ci sono pause per i pasti, non ci sono festività, né domeniche.
Siamo contattabili, sempre, a qualsiasi ora. Connessi costantemente.
Nondimeno ci sentiamo sempre molto soli.
È chiaro che qualcosa non vada.
G.G: Bergson, fino agli ultimi momenti della sua vita, non ha mai smesso di ragionare e riflettere, testimoniando di una pervicacia e di una vitalità esemplari. Il tuo libro si chiude con un capitolo dal titolo Percezione pura. Cosa è la percezione pura?
L.C.: La percezione pura è la base metafisica di Bergson, è l’atto di fede filosofico che lui ha fatto e che tutti noi ‘bergsoniani’ facciamo quando affermiamo di essere monisti temporali.
Qualsiasi filosofo e scuola filosofica ha il suo ‘atto di fede’.
La percezione pura è il particolare movimento della durata del tempo puro, ovvero di quella sostanza, unica, del reale in senso generale, quindi materiale.
Il tempo puro è caratterizzato da una percezione pura, completamente impersonale, dove persiste una coesione, un contatto totale che non lascia spazio alle dicotomie, badate bene fondamentali nella sopravvivenza biologica dell’individuo, soggetto-oggetto, mondo-io, esterno-interno. È il ritmo naturale della materia, del reale.
In questo ritmo, una certa materia organica, risponde diversamente rispetto a questa cadenza di morte e nascita costante (che Bergson identifica nell’inconscio, la traccia di questo tempo puro, nella vita di un soggetto), poiché dotata di un corpo sensibile, ‘stona’ nel ritmo circolare, sviluppandosi nelle varie durate con annesse memorie strutturali.
Il libro si apre e si chiude con l’aggettivazione ‘pura’.
Si nasce dal ‘puro’ e si ritorna nel ‘puro’.
Quest’ultimo definito in termini temporali, indi per cui totalmente materiali e impersonali.
Questa concezione del tempo puro permette una metafisica totalmente antitrascendentalista e materica.
La materia, più o meno continuamente cangiante in variazioni qualitative di natura e non di grado, ha una virtualità, una dimensione astrattiva, ipotetica e probabilistica perché, giustappunto, è tempo e il tempo di Bergson è sinonimo di movimento cangiante, di variazione.
G.G: L’epoca che viviamo, l’Antropocene, sarà conosciuta come quella più veloce e più narcisista. Eppure per Bergson ciò che esiste è l’uomo in particolare e, ancor meglio, il mutamento incessante. Il mutamento è forse la cifra stilistica anche del tuo libro e del pensiero-azione di Bergson. Come si spiega questa frenesia narcisistica con gli occhi del filosofo?
L.C.: L’illuso più grande, tra noi animali umanoidi, è appunto il narcisista perché rincorre qualcosa che non c’è: un io, un’identità, un punto fermo, un ‘sogno’, un ‘fantasma illusorio’.
Bergson era narcisista, ma lo è stato in tanti modi diversi ed è riuscito, nonostante le varie difficoltà e periodi storici drammatici, a non perdere l’equilibrio, proprio perché aveva capito che rincorriamo, in realtà, un mutamento, cioè una corsa, uno slancio. Il proprio.
G.G: Ci lasci con l’estratto del tuo libro che ritieni più significativo?
L.C.: “Erano le 11, iniziava l’orario delle visite.
Quella mattina sedeva nel suo studio il trentaduenne Joseph Desaymard, originario di Clermont-Ferrand.
«Alors Monsieur, come se la passano in provincia? Spero che quella cittadina sia ancora rimasta un tempio per lo studio e la vita naturale.»
Il giovane spiegò che era da tempo che non tornava nel paese natale, ma che a suo avviso la cittadina universitaria era rimasta quella di allora. Henri tentava di concentrarsi, ma quell’uomo, in tutto il suo essere, lo riportava agli anni della sua gioventù.
Come si chiamavano quelle due sorelle signorine dove si ballava il can-can? Chissà se sono ancora vive! Avevano una bellissima casa.
«… insomma, professore, ma come riesce a far tornare tutto? C’è la fila per venire a farle visita, in più le lezioni, le conferenze, le riunioni. Come riesce a trovare il tempo per studiare?»
«DISCIPLINA! Che domanda è, il tempo non c’è bisogno di trovarlo, basta domarlo!» esordì con più veemenza di quella che avrebbe voluto.
«Caro Joseph, il fatto che io non sia in accordo con Descartes sul dualismo, non significa che non abbia appreso da lui una lezione di importanza vitale! Sai che il padre della geometria analitica organizzava in modo maniacale le sue giornate? La sua vita era ordinata in modo che potesse trarne il massimo rendimento. Ebbene io tento di fare qualcosa di molto simile.»
«Sì, ma probabilmente Descartes non aveva tutti i suoi impegni!» rispose bonariamente il giovane.
«Difatti, io devo essere ancora più preciso. Ogni parte della mia giornata è specializzata per un utile e una funzione diversa. La mattina presto dedico ahimè solo poche ore alla ricerca personale, a fine mattinata ricevo le visite, poi pranzo, spesso insieme a colleghi ed ex studenti – non ti offenderai oggi se non saremo soli –. Nel pomeriggio mi occupo di queste» sbatté rumorosamente la mano sopra ad un’alta fila di corrispondenza.
«La sera si rilasserà un po’, voglio sperare.»
«Sì certo, la sera è per la famiglia e gli affetti, i quali non so come possano ancora sopportarmi visto che praticamente non dormo quasi mai.»
«L’insonnia è peggiorata dunque, ma e quando si ferma?»
Henri spalancò gli occhi a quella domanda. Un quesito al quale non sapeva rispondere se non con un interrogativo mentale che si poneva da decenni.
Perché qualcosa è fermo in questo mondo?”
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