Gianluca Garrapa: «I cuori non saranno mai una cosa pratica finché non ne inventeranno di infrangibili» a evidenziare l’approccio umanistico e creativo del vostro pensiero ogni capitolo è preceduto da un esergo tratto da Il Mago di Oz: perché proprio questo romanzo per ragazzi uscito per la prima volta nel 1900?
Gianluca Ciuffardi: Ritengo si tratti di un libro magnifico, pieno di metafore bellissime che illustrano molto bene la fase di cambiamento che stiamo vivendo a livello globale. In fin dei conti, è arrivato anche qui un ciclone, la pandemia, che ha rotto gli equilibri, costringendo tutti a rivedere le proprie concezioni e lo stile di vita. Ognuno dei personaggi che compaiono nel libro avvertono dentro di sé la mancanza di qualcosa: il coraggio, le emozioni, una maggiore consapevolezza. Oppure anche il semplice far ritorno a casa propria. Tutte cose di cui anche noi abbiamo un estremo bisogno, al giorno d’oggi.
G.G.: «Il filosofo Kant (1783) affermava già tre secoli fa che esiste “un genere di medici, i cosiddetti medici della mente, che ritengono di aver scoperto una nuova malattia ogni volta che escogitano un nome nuovo”» ci spiegate il vostro punto di vista nei confronti dell’atteggiamento della psicoterapia e della psichiatria riguardo alle emozioni negative?
Tommaso Perissi: Un approccio frettoloso alle tematiche che riguardano la mente tende a considerarla al pari di meccanismi da riparare, come se essa fosse concepibile come la batteria di una macchina o qualcosa del genere, attraverso sia un approccio troppo marcato sul versante farmacologico che un’eccessiva enfasi sulla normalizzazione di ciò che può essere portato in terapia. A noi piace invece l’idea di porre maggiore attenzione a quei contenuti che appartengono già alle persone i quali sono potenzialmente in grado di forgiare una visione del mondo molto più ricca e più piena se solo li guardiamo senza le lenti deformanti dell’utilitarismo e di una più supposta che reale normalità. Un esempio di questo è la nostra simulata andata in onda su canale Italia 84 nella quale un’esperienza riferita di rapimento da parte degli alieni, che magari provocherebbe un trattamento con antipsicotici se considerata superficialmente, è usata per ampliare l’esperienza di senso a cui la persona che porta questo contenuto all’attenzione del terapeuta è esposta. In fondo la follia non è altro che un tipo diverso di esperienza, capace tra l’altro per le culture antiche di avvicinare alla divinità, quindi passibile di un trattamento alternativo a quello riduzionistico che magari una psichiatria eccessivamente frettolosa rischierebbe di mettere in pratica.
G.C.: è evidente che siamo di fronte al tentativo di anestetizzare le emozioni negative con farmaci e i falsi miti del mondo moderno, quali l’efficientismo e la logica dell’utile. Col fine di trasformare tutto ciò che esiste in qualcosa di utile ed efficiente, infatti, si rischia di perdere la vera essenza dell’uomo, come l’esperienza artistica, l’amore e le emozioni forti verso la vota che sono indispensabili, pur essendo a prima visti percepibili come inutili. Del resto, anche Gianni Rodari parlava nei suoi scritti sulle favole della strada che porta in nessun luogo, un concetto facilmente comprensibile per qualsiasi bambino, ma assolutamente estraneo alla mentalità degli adulti per i quali esistono soltanto strade che portano da qualche parete, verso il raggiungimento di un obiettivo specifico, che però raramente coincide con la felicità o con una maggiore consapevolezza di sé stessi. Inoltre, il voler neutralizzare le emozioni negative priva le persone della capacità di commuoversi, di provare una dolce malinconia per i tempi passati oppure di guardare alla realtà in un modo che non sia distorto da un ottimismo troppo facile e superficiale. Tutte cose che anche il famoso omino di latta del libro Il Mago di Oz non sapeva fare, proprio perché aveva perso il suo cuore.
G.G.: «un approccio umanistico, invece, dovrebbe favorire l’utilizzo di un pensiero creativo, con cui elaborare un piano d’azione che sia davvero adeguato alla situazione da affrontare»: come può la creatività e l’arte rispondere al disagio momentaneo? e in generale esistono delle strategie specifiche per contesti diversi tra loro, ad esempio l’ambito scolastico e quello psichiatrico?
T.P.: L’arte risponde a una profonda domanda di senso, ad un fine intrinseco in grado di restituire un valore per così dire assoluto all’esperienza umana: quasi ventimila anni fa i nostri progenitori hanno lasciato le prime testimonianze artistiche nelle grotte di Altamira e di Lascaux per motivi ignoti, forse per favorire la caccia attraverso una forma di pensiero magico che univa la mente e la materia, o forse per una pura contemplazione del simbolo che stava nascendo in loro come potente motore della loro storia personale e collettiva in via di cambiamento. È questa possibilità di plasmare e veicolare contenuti costruendo nuove dimensioni di senso che può essere considerata un potente attivatore terapeutico, ed esso germina in qualsiasi attività umana e quindi a maggior ragione nell’arte, attraverso la quale questa possibilità trasformativa è massima: pensiamo ai ready-made di Duchamp, a come un oggetto dozzinale e ordinario poteva attraverso il trattamento di senso operato dalla mente umana tramutarsi in tutt’altra cosa. Allo stesso modo l’esperienza umana in ogni settore, compresi quello scolastico e quello psichiatrico, può prestarsi a questo processo che potremo definire di ampliamento semantico, all’interno del quale il punto di partenza è comunque la focalizzazione sull’oggetto che la persona porta nella relazione, come anche Duchamp faceva quando nel caso di una sua famosa opera composta da un comune orinatoio industriale, semplicemente lo capovolgeva lasciandolo intatto dichiarando che esso da quel momento sarebbe stato un’altra cosa, ovvero una fontana.
G.G.: «una via d’uscita potrebbe allora essere rappresentata dal coraggio di vivere le emozioni negative, le quali ci allontanano dalle certezze […] ma che possono fornire prospettive inedite con le quali guardare la realtà»: perché le emozioni negative vengono così spesso demonizzate e che tipo di lavoro bisogna fare su sé stessi per riuscire a vivere pienamente anche le imperfezioni?
G.C.: riteniamo che a essere negative non siano tanto le emozioni in quanto tali, bensì l’atteggiamento di rimozione che si ha verso di esse e che porta molte persone a ignorarle del tutto, salvo poi temerle quando si riaffacciano prepotentemente alla coscienza durante l’accadere di eventi imprevisti. Come il bel film d’animazione della Disney Inside Out ha messo in luce, ciò che veramente conta nella vita di ciascuno è l’equilibrio che si viene a creare fra le varie emozioni di base, mentre se una di esse, fosse anche la gioia, cerca di prendere il sopravvento sulle altre, si rischia di cadere in una condizione di vero malessere. Invece, pensiamo che una sana accettazione delle emozioni negative consenta di dare maggiore profondità ai nostri ragionamenti e pensieri, migliorando il grado di consapevolezza verso noi stessi e il mondo che ci circonda.
T.P.: A ben guardare se non esistessero le emozioni negative non saremmo diversi dagli automi digitali che sempre più peso hanno nelle nostre vite, poiché non saremmo in grado di mettere in discussione noi stessi o il mondo che ci circonda, trovandoci di fatto ad essere schiavi degli stimoli esterni attraverso la nostra incapacità di porre limiti. Non è un caso quindi a nostro avviso se tali emozioni sono tanto socialmente invise e così facilmente trattate in senso riduzionistico attraverso la sovraprescrizione di farmaci e il ricorso a ricette frettolose e alienanti, spesso improntate sulla colpa o l’inadeguatezza individuale, la quale richiede un cambiamento di vita di chi esperisce le emozioni negative. Una delle parti più significative e originali del nostro libro secondo noi è il capitolo che si schiera contro il cambiamento: non è infatti il cambiamento a tutti i costi la soluzione auspicabile ai possibili disagi ma al contrario una riarmonizzazione tra sé stessi e il mondo cui le emozioni negative, sospendendo l’attività e la ricezione passiva degli stimoli che vengono dall’ambiente, concorrono in maniera fondamentale a rendere possibile.
G.G.: «l’osservazione degli alberi e degli animali, con il loro senso del tempo che si dispiega in perfetta armonia con la natura, può ispirarci davvero moltissimo»: la pandemia ha coinvolto e sconvolto anche il nostro modo di relazionarci all’altro, al mondo, alla nostra stessa natura di esseri relazionali e sociali. Siamo ancora in pandemia: come sta mutando l’approccio a questa drammatica e straniante esperienza rispetto al primo lockdown? quante probabilità ci sono che un altro evento su scala mondiale possa sconvolgere di nuovo le nostre certezze?
G.C.: Il primo lockdown è stato uno shock assoluto per tutti, ma esso venne accettato quasi subito grazie alla speranza che l’incubo rappresentato dal virus sarebbe finito e che i sacrifici ci avrebbero portato in un tempo ragionevole a ritornare allo stile di vita precedente. Sappiamo bene come è andata… Perciò le zone rosse intermittenti che in seguito si sono alternate in tutte le regioni a partire da ottobre del 2020 sono state vissute con un maggiore senso rassegnazione. Stavolta eravamo già abituati e come tale sapevano bene che sarebbe stata un’altra parentesi non risolutiva. Per quanto ci riguarda, abbiamo fatto in modo che questi continui confinamenti non si traducessero in un blocco parallelo della creatività, ma che anzi fossero una spinta in più da dare alle cose che ci venivano in mente di scrivere. Probabilmente gli storici fra qualche decennio definiranno il periodo degli ultimi 40 anni come quello dei grandi disastri: la tragedia di Chernobyl, gli attentati alle Torri gemelle del 2001, lo tsunami del 2004 nell’Oceano Indiano, l’uragano Katrina del 2005, il disastro di Fukushima del 2011, fino ad arrivare alla pandemia di coronavirus. Le catastrofi, naturali o artificiali, sono sempre dietro l’angolo, in un modo o nell’altro gli uomini hanno dovuto farvi fronte e in fin dei conti questa è la loro forza da sempre. Se un uomo da solo cerca di affrontare un disastro, finirà per essere ucciso. Se invece più uomini si uniscono e collaborano, alla lunga riusciranno a vincere. È evidente che altri disastri si verificheranno in futuro, è solo questione di tempo: soltanto se sapremo restare uniti riusciremo forse a uscire dalla prossima crisi, magari realizzando una società migliore di quella che abbiamo costruito fino ad oggi.
T.P.: L’aspetto più inquietante che si riscontra nel prosieguo del lockdown è una discesa in una paura senza limiti circoscritti che quindi si fa irrazionale e il cui corrispettivo sta diventando l’intolleranza verso percentuali di rischio le quali diventano difficilmente quantificabili, specialmente alla luce di studi scientifici di cui abbiamo appreso e che in qualche caso confliggono apertamente con le norme che ci sono state date per combattere la pandemia, senza che nessuno sia stato chiamato a dare spiegazioni su queste discordanze. Alla luce della nostra preparazione in psicologia avevamo avuto praticamente da subito il sentore che avremmo assistito a questa proliferazione di decisioni e atteggiamenti dovuti più alla necessità di fare qualcosa al fine di proteggersi, sia realmente che simbolicamente, dall’ondata che stava montando a causa del virus, che a ponderate analisi, il che poteva esitare in processi di tutto o nulla a discapito magari di rappresentazioni più stratificate della realtà. Esempio di tutto ciò, citato nel libro, è stata la stigmatizzazione dei runners che si è avuta nella prima parte della pandemia, quando ora dopo un anno è emerso uno studio per ora non smentito da nessuno che ha riscontrato una bassissima probabilità di contagio all’aperto, circa un caso su mille risultati positivi al virus, crediamo che dinamiche del genere siano ancora in corso e possano confluire in processi decisionali ulteriormente affetti da biases, o errori cognitivi, come quelli descritti principalmente da Daniel Kahneman, i cui esiti a lungo termine potrebbero essere peggiori delle conseguenze negative immediate che essi avrebbero dovuto contribuire a limitare. Temiamo altresì problematiche di lungo periodo per la salute mentale dei cittadini, dovuti oltre agli ovvi effetti a breve termine causati dalla pandemia, ad una diffidenza potenzialmente duratura verso quegli atteggiamenti di vicinanza sociale che sono indispensabili per mantenere un livello accettabile di empatia, capacità umana che ha sì una base neurologica, i famosi neuroni specchio, ma deve essere allo stesso tempo costantemente esercitata per non correre il rischio di perderla.
G.G.: le ultime pagine sono due Messaggi in bottiglia in cui viene alla luce il vostro personale modo di affrontare questo periodo di chiusure e zone rosse: come è nata l’esperienza di questo libro? c’è stato un cambiamento interiore nel percorso che vi ha condotti alla pubblicazione?
T.P.: L’esperienza di questo libro è nata da una camminata lungo l’Arno nei pressi di Capraia Fiorentina, durante la quale come due filosofi peripatetici postlitteram io e Gianluca abbiamo provato a ragionare insieme e a stimolarci l’un l’altro sugli spunti poi confluiti nel libro, in un momento in cui la marea dovuta alla pandemia stava per rifluire inesorabilmente, ma era ancora possibile inoltrarsi nella natura e lasciarsi coinvolgere dal fiume che ci scorreva accanto, l’erba sotto i piedi e dal sapore fresco e pungente dell’aria respirata all’aperto. Ci capitò tra l’altro un curioso episodio che potremmo definire di sincronicità: lungo il sentiero che da Capraia segue l’Arno verso Signa, vedemmo un grosso pesce scarnificato che giaceva di lato, potremmo interpretarlo, secondo una sapienza antica da non prendere alla lettera ma nemmeno da rifiutare in toto, come un segno della piega negativa che stavano prendendo gli eventi, addentrandoci nelle possibili interpretazioni, come faceva Jung nel libro “Ricordi, sogni e riflessioni”. Potremmo anche ritenere che come gli aruspici del passato osservavano le interiora degli animali per divinare il futuro, noi siamo legati a doppio filo con la nostra cultura e dobbiamo certamente recuperarla ad un qualche livello, questa è anche la direzione che il nostro libro ha preso, con frequenti richiami alla cultura passata, per esempio la filosofia greca o la sapienza degli antichi maestri giapponesi del restauro.
G.C.: Questo libro significa tanto per noi. L’approccio narrativo percorre tutto il libro ed è nato proprio come una sorta di reazione a quanto stava succedendo in Italia e nel mondo. Abbiamo scelto di scrivere un libro di saggistica che si potesse leggere come un romanzo, perché soltanto così poteva riflettere le emozioni molto forti che abbiamo provato durante il periodo del primo lockdown. Emozioni che si sono certamente riflesse nel mood generale del libro, nel quale credo che molti lettori si potranno ritrovare. È anche la storia di un dialogo tra noi due, ognuno col suo modo particolare di vedere le cose, ma dal quale è scaturita una bella collaborazione, oltre che un’avventura intellettuale direi entusiasmante. Un viaggio che è senz’altro valsa la pena di fare e che ha portato entrambi a crescere molto, sotto tutti gli aspetti. Per quanto mi riguarda, l’essere diventato padre da qualche anno ha cambiato radicalmente la percezione che adesso ho riguardo alla vita. Mi ha permesso di diventare più creativo e immaginativo, dando un ulteriore significato a quello che faccio nel lavoro di psicologo e anche come scrittore.
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