La prima cosa che salta all'occhio del libro di Sergio Benvenuto è l'ammirevole articolazione di piani diversi del discorso: c'è un piano psicanalitico, uno filosofico e uno storico.
L'autore li intreccia con sapienza e perspicuità.
E a bella posta uso il termine “perspicuità”, perché è lo stesso Benvenuto che nel testo ci dice che “è più perspicuo ciò che intellettualmente ci diverte di più” (p. 112).
E questo “divertimento” intellettuale è proprio ciò che il libro ci dona, così appassionante in quell'intreccio di piani diversi, da risultare, alla fine, lo spaccato di un unico grande piano umanistico, anzi, direi, lo scorcio di un piano profondamente umano.
Il lavoro prende le mosse dalla presentazione di un caso molto interessante divenuto famoso nella storia della psicanalisi, anche se il soggetto in questione rimase anonimo. L'autore lo battezza con il nome di prof. Brain.
Il prof. Brain fu analizzato da Melitta Schmideberg, la figlia di Melanie Klein, poi da Ernst Kris, il pioniere della cosiddetta “psicologia dell'Io”, e alla fine la sua storia fu esaminata e commentata a più riprese da Jacques Lacan.
Benvenuto ci riporta, quindi, il testo di Kris sul caso, un frammento di Melitta Schmideberg, e gli interventi di Lacan, oltre a numerosi riferimenti ad altri grandi autori della psicanalisi, come in un gioco di specchi, dove lo specchio è quello della Storia, e a specchiarsi sono non solo gli autori e le loro intenzioni, ma anche i loro fantasmi.
Il suo sguardo, infatti, è così attento alle parole dei testi, e alle evenienze dei contesti, da far pensare a un segugio sulle tracce di una preda da catturare.
E, alla fine, ce la mostra, la preda tallonata per tutta la “durata” del libro!
“Con questo lavoro, che volge ora alla conclusione, volevo dare un esempio di analisi di testi psicanalitici – teorici e clinici – che usi un metodo simile alla psicanalisi stessa” (p. 132, corsivo mio).
E' l'incipit dell'ultimo capitolo, che, non a caso si intitola La mostra psicanalitica.
Usare “un metodo simile alla psicanalisi stessa” significa assistere all'emergere di ciò che il linguaggio non può dire, ma che nel linguaggio si mostra.
La distinzione è quella, di Lacan che segue Benveniste, tra “enunciato” ed “enunciazione”, dove l'enunciazione è la forza attiva di una frase, la sua forza di significazione, e l'enunciato è l'insieme delle parole che la formano.
Ma Benvenuto ci presenta anche la versione filosofica di questa distinzione, quella di Wittgenstein che diceva che quello che il linguaggio non può dire, attraverso il linguaggio si mostra.
Fin dall'inizio della sua produzione, all'editore che aveva pubblicato il Tractatus logico-philosophicus, un'indagine minuziosa dei confini del linguaggio ordinario, scriveva che in realtà si trattava di un libro “di argomento etico”, che quella presentata nel libro era solo una parte, e che ce n'era un'altra che non aveva scritto: “è proprio questa seconda parte quella più importante” (cit. in La grande Vienna, A. Janik e S. Toulmin, p.194, Milano 1975).
Che la parte più importante riguardasse l'etica, traspare chiaramente da ciò che il filosofo precisa nel prosieguo: “nel mio libro sono tracciati i limiti della sfera dell'etico dall'interno e sono convinto che questo sia il SOLO modo rigoroso di tracciarli” (ibidem, p.194, maiuscolo nel testo).
Dunque, l'etica non può essere detta dalla lingua, ma nella lingua si mostra.
“Quello che può essere espresso dalla grammatica circa il mondo è … che ciò che esso è non può essere espresso in una proposizione” (L. Wittgenstein, Lezioni 1930-32, lezione A IV, P.3).
In ultima analisi, la relazione tra linguaggio e mondo è ineffabile.
Ma è proprio questa relazione a caratterizzare la vita umana, essendo l'uomo “l'animale che ha la parola”. E l'etica, nel senso più lato e, nello stesso tempo, più rigoroso del termine, è ciò che di specifico caratterizza l'uomo nel suo abitare il mondo, rispetto agli altri viventi.
Ecco perché ciò che nel linguaggio “si mostra” è la sostanza etica di quello che attraverso la grammatica viene detto.
Sergio Benvenuto sottolinea la “profonda analogia” tra la distinzione di Wittgenstein e il lavoro analitico: l'analista assiste all'apparire di qualcosa che dalla parola non viene detto.
E riconosce il tentativo di Lacan di mostrare, più che di dire, il paradosso dell'analisi, e cioè che, se l'analista dice il non saputo che si mostra, questo cessa di mostrarsi.
E il suo, di Benvenuto, tentativo è di ritrovare nell'analisi di testi psicoanalitici e filosofici, la dicotomia tra teoria psicanalitica e atto psicanalitico.
La teoria viene detta, l'atto rimane avvolto nel silenzio.
E allora che cosa si mostra nelle analisi che Lacan fa del testo di Kris sul prof. Brain?
Perché Lacan non molla la presa e, anzi, affronta il testo più volte, facendone, ogni volta, una lettura diversa?
C'era in gioco l'eredità freudiana, il volersi porre come unico, legittimo, erede di Freud.
Ma c'era anche la sua viscerale attrazione per il linguaggio, la scrittura, la lettera.
Lacan subisce la fascinazione dell'oggetto parola.
Sembra contemplarne la circolazione e gli effetti nel mondo come in uno stato stuporoso, quello stesso stato da cui, dissero Platone e Aristotele, nacque la filosofia.
Non solo. Sergio Benvenuto mette in luce lo stretto legame tra scrittura e psicosi visto da Lacan, affascinato, fin dalla sua tesi di laurea in psichiatria, dalla scrittura della sua paziente paranoica di cui pubblicò, nella tesi, le poesie.
Ora, il caso del prof. Brain è il caso di uno scienziato profondamente inibito nello scrivere e nel pubblicare. Pur lavorando per l'università, non riesce a comporre un testo, a pubblicare una ricerca.
E' questo rapporto di interdizione tra un uomo e la sua scrittura ad affascinare il caustico Lacan?
“Ogni volta a mezzogiorno, quando esco da qui, prima di pranzo, e prima di tornare in ufficio, cammino lungo via X (una strada ben nota per i suoi ristorantini attraenti) e guardo i menù in vetrina. In uno di questi ristoranti di solito trovo il mio piatto preferito – cervelli freschi”.
Sono le parole centrali di tutta la storia. Chi parla è il prof. Brain, e sta parlando, in seduta, al dottor Kris1.
Sono parole avvolte da una tensione particolare, un lungo silenzio le precede. Hanno il tono di una confessione inattesa, come quella di un godimento tutto personale, di cui non si fa parola con nessuno.
E suggeriscono un'immagine forte, come di un arcaico pasto rituale, cannibalico.
Al prof. Brain, dunque, piace mangiare cervelli freschi.
Ma la cosa non è indifferente, anzi è di notevolissimo rilievo, perché il sintomo di Brain è di non riuscire a produrre intellettualmente, perché frenato dalla paura di rubare le idee degli altri, di commettere un plagio. E questa appropriazione indebita delle idee altrui avrebbe a che fare con una immaginaria divorazione orale, suggerita in particolar modo da un sogno in cui Brain inghiotte dei libri.
Insomma non scrive e non pubblica per non “mangiare” le idee degli altri.
Ma dopo le sedute va a mangiare cervelli, la materia della mente!
La storia si fa intrigante.
Altra cosa notevole, mentre Brain teme di essere un plagiario, Kris noterà che è il suo collega-amico, vicino di studio all'università, con cui lui discute di lavoro, a plagiare le idee di Brain. Idee che lui ascolta e ammira, come se fossero di un altro.
C'è un'inversione nel rapporto con l'io: sono terrorizzato dall'idea di essere un plagiario, mentre sono gli altri a plagiarmi.
E' come guardarsi a uno specchio, senza riconoscere come propria l'immagine che ci rimanda.
Benvenuto è maestro nel seguire con lucidità i tortuosi sentieri che si sono annodati intorno a quelle parole nei decenni successivi, da Kris a Lacan, con incursioni nei territori delle complesse vicende storiche della psicanalisi.
Partendo proprio dal caso del prof. Brain, l'autore apre uno sguardo sapiente sulle diverse scuole e i diversi indirizzi della psicanalisi, le fuoriuscite e le continue creazioni di frattali, le controversie e le relative rivendicazioni di legittimità (rispetto al padre Freud).
E' la rappresentazione di una variopinta scena storica, come un grande arazzo.
Ma la linfa vitale del libro, circolante sotterranea, è l'interesse per l'essere umano, o, forse, per “l'essere umani”.
In realtà “fa la mostra” una vis intellectualis che vibra intorno ad un unico punto: quell'abisso che è l'anima umana (già Eraclito aveva detto che i suoi confini non li troverai mai, per quanto tu possa percorrere le sue vie).
Che cosa ce ne facciamo dei nostri traumi?
E' la domanda di fondo che si pone Freud, e Benvenuto non manca di avvertirci che è nel modo di elaborare le sue risposte che “le differenze tra le varie scuole – kleiniana, egopsicologica, lacaniana – si aprono” (p. 25).
Ed è una domanda “essenzialmente” umana, cioè riguarda l'essenza, l'intima costituzione, di quell'“animale che ha la parola”.
A monte di questa domanda, ce ne starebbe un'altra: perché l'uomo è “traumatizzabile”? Perché l'animale “che ha la parola” è anche l'animale “portatore del trauma”?
Qui si apre uno scenario filosofico, ma la linfa che attraversa il libro di Benvenuto attinge anche al serbatoio della filosofia.
Ed è Heidegger a trasparire dalle intense pagine, l'Heidegger filtrato da Lacan che, come dice l'autore, “cercava nella clinica una differenza [da Anna Freud, da Kris, e dagli altri psicologi dell'Io] che si situava altrove: in una visione filosofica diversa della soggettività umana” (p. 101).
Heidegger chiamava l'uomo “l'esserci”, dove quel “ci” indicava il modo di essere fatto dell'uomo, cioè quello di un vivente che sta come in un aperto, una radura da cui può vedere le cose.
E' un “vedere” particolare, un “accorgersi” che solo lui ha (rispetto agli altri animali).
Anche il mio cane vede un albero, tant'è vero che ci si avvicina per fare la pipì.
Ma quello che succede al cane è che il suo sistema nervoso viene stimolato a una reazione immediata. Io, invece, posso guardare l'albero, e lasciarlo essere.
Questa differenza Heidegger (un vero sciamano della parola) la diceva così: l'animale è imbrigliato nell'ambiente, l'uomo ha un mondo.
Infatti un altro modo di chiamare l'uomo (l'esserci) era “l'essere-nel-mondo”.
E' come dire che intorno all'uomo gravita un vuoto, una radura, appunto, ed è in questo “aperto” che “succede” l'Essere, cioè l' “accorgersi” da parte dell'uomo che le cose ci sono.
A questo riguardo riporto le luminose parole di Heidegger nel Poscritto del '43 a “Che cos'è metafisica”, nel tentativo di farmi perdonare l'opacità delle mie.
Dice Heidegger. “Unico fra tutti gli enti, l'uomo, chiamato dalla voce dell'essere, esperisce la meraviglia di tutte le meraviglie: che l'ente è”2.
Nel saggio L'origine dell'opera d'arte Heidegger, esprimendo lo stesso concetto, dice che proprio in mezzo alle cose succede “un Altro”, intendendo con la parola “Altro” qualcosa di diverso dalle cose, qualcosa che non è una cosa. E' quel “vedere” le cose che lui chiama “l'essere”3. E' un aperto, un'illuminazione, in mezzo alle cose.
Questo è il modo di abitare il mondo dell'uomo, per Heidegger, il suo “soggiorno” nel mondo, come lo chiama lui, traducendo con “soggiorno” proprio la parola greca éthos (di solito tradotta con “costume”, “usanza” ecc.).
Il nostro essere umani si incentra, si affanna (per così dire), intorno a qualcosa che non è una cosa.
Ora, un'etica così intesa, come si innesta nel discorso psicanalitico?
Sappiamo che la parola “Altro” ha insediato la sua signoria nel dominio lacaniano.
E sappiamo, come ci dice Benvenuto, che per Lacan “quel che chiamiamo etico è il nostro orbitare intorno a una Ding, cosa, che di solito assume la forma di un vuoto, di un'acosa potremmo scrivere. E' un vuoto che non possiamo mai cogliere, stringere una volta per tutte, ma che in qualche modo ci guida, e che ci chiama a una fedeltà”(p. 76).
Quando Lacan torna, per la terza volta, ad occuparsi del prof. Brain, nel 1958, sottolineerà che il punto focale del caso Brain, non è che lui non rubi (le idee degli altri) ma che lui rubi in effetti “niente”.
E' un pensiero paradossale, ma si chiarisce se si pensa all'anoressia, al gran mangiare “niente” delle anoressiche, al loro “pienissimo” turbinare intorno al “vuoto” di cibo.
Infatti Lacan paragona il prof. Brain alle anoressiche, in quel suo astenersi dalle idee.
“… E' che possa avere una idea sua, ciò che non gli viene in mente, né lo visita appena” (cit. p. 75).
Così Brain sarebbe un digiunatore di idee (trasferimento sul mentale di una originaria aggressiva pulsione orale inibita), ma, proprio per questo, vuole (e può) nutrirsi di cervelli, cioè della materia delle idee!
E così, ciò che originariamente non ha potuto essere simbolizzato (un rapporto di divorazione orale), ritornerebbe nel reale!
Il fascino del libro di Benvenuto sta senz'altro nella capacità di passare attraverso vicende dislocate della storia della psicanalisi, e ricollocarle in una composizione unitaria.
Ma questo è, secondo me, un risultato secondario di un più alto merito e fascino: quello di essere un libro di etica.
Quando negli ultimi capitoli, dopo aver analizzato il “piccolo mondo antico” (come lo chiama lui) della psicanalisi, passa in rassegna alcune delle più diffuse tendenze e scuole della psicanalisi contemporanea, lo fa perché è importante capire “anche i conflitti e gli stridori del non meno piccolo mondo moderno” (p.110).
Passa in rassegna l'“analisi Riformatorio”, come la chiama, cioè “la tendenza manipolativa di molta, troppa psicoanalisi, a voler correggere comportamenti e modi di vita dei pazienti per rimodellarli a immagine e somiglianza dei comportamenti e dei modi di vita che l'analista considera buoni, psicologicamente corretti, ovvero i propri (o meglio: quelli che vorrebbe propri)” (p. 103).
E' una eccellente descrizione di ciò che a volte succede.
Esamina poi “l'analisi adattativa”, e la sua idealità di sviluppare in un individuo la capacità di adattarsi all'ambiente in cui vive.
Ma critica anche in modo tagliente la posizione, presente anche tra i lacaniani, che vede la complicità del soggetto con il proprio destino amaro, la sua corresponsabilità, per esempio, nel sorgere di una malattia grave.
Come se si dicesse: se hai un tumore, in un certo senso te lo sei voluto, se hai il diabete è perché qualcosa non va nel tuo inconscio!
E' un punto di vista aberrante, dice Benvenuto, e io concordo.
Ma quella che ho chiamato la linfa vitale del libro, linfa etica, non riposa in queste pagine che esplicitamente parlano di atteggiamenti e comportamenti psicanalitici.
Scorre sotterranea in tutto l'inchiostro del libro.
E' un richiamo sussurrato, ma udibile, a non cedere alla cristallizzazione della parola.
E' un invito a rinunciare a gerghi e a formule scontate.
E' un invito all'esercizio attento, da parte degli addetti ai lavori, di quella che, in fondo, è l'unica idealità della psicanalisi: la non-dipendenza.
L'etica della psicanalisi è una, difficile, etica della separazione.
1Il testo di Kris è riportato da Benvenuto in appendice.
2Martin Heidegger, Che cos'è metafisica, Milano 2001, p. 78.
3Il passo è il seguente: “ … al di là dell'ente, ma non via da esso, anzi in cospetto di esso, qui si rivela un Altro”. Martin Heidegger, Sentieri interrotti, a cura di P. Chiodi, Firenze 1997, p. 38.
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