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“Io non amavo mia madre” di Enrichetta Buchli

11 Feb 13

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

 

"L'infanzia e' un doloroso periodo dal quale il Se' cerca di riprendersi per tutta la vita"
(Christopher Bollas)

 

polit

Roman Gary, che Enrichetta Buchli cita in apertura del suo nuovo libro, da La vita davanti a se' , scrive "alla felicita' preferisco ancora la vita".

Credo che queste parole possano al meglio esprimere il senso di questo libro,Io non amavo mia madre, ultimo lavoro dell'analista junghiana Enrichetta Buchli, di cui abbiamo gia' avuto modo di apprezzare il precedente Il mito dell'amore fatale (Baldini e Castoldi, 2006).

O almeno, uno dei sensi, una della chiavi di lettura con cui io l'ho sentito e interpretato. La vita, con le sue fatiche, con l'imposizione del principio di realta', ma anche con le sue possibili riparazioni, puo' essere vissuta degnamente, pienamente, anche al di fuori delle idealizzazioni. Della rincorsa alla cosiddetta felicita'. Tornero' piu' avanti su questo.

Rachele, l'Io narrante del libro, e' un'affermata docente di un'Universita' degli Stati Uniti, e attraverso lo scrivere alla propria analista di un tempo, ripercorre e rivive il doloroso rapporto con la madre, la tragedia di un'infanzia segnata, traumatizzata indelebilmente. L'analista accoglie la narrazione a distanza di Rachele, se ne fa depositaria e la traduce in questo romanzo, che sta a meta' tra l'epistolario e il romanzo autobiografico, dove non e' tanto importante seguire il filo di 'chi scrive a chi', quanto piuttosto il discorso che l'Autrice-Rachele viene via via dipanando, offrendocelo in una forma sensibile, asciutta e viva.

Nell'autonarrazione, nello scrivere di se', risiede gia' una forma di terapia, un tentativo di autocura nel senso migliore e piu' pieno della parola. Rachele ha gia' fatto un lungo lavoro su di se', e' gia' stata in analisi, ma un'analisi non ci immunizza a vita; una sofferenza sentimentale, infatti, ha riattivato l'antico trauma, ha rischiato di mettere a repentaglio il suo riuscito ma delicato equilibrio. Percio', decide di scrivere. Perche' sa che ri-narrando di se', ri-percorrendo, rimettendo la sua vicdena in un linguaggio condiviso con l'analista, potra' nuovamente sanare la ferita. Non si guarisce mai per sempre, non saremo mai invulnerabili, ma abbiamo imparato quali sono le chiavi d'accesso al nostro mondo interno, ed e' questo, alla fine, che ci salva la vita.

Accennero' soltanto ad alcuni concetti psicoanalitici, senza approfondirli troppo in questa sede, nel rispetto della forma narrativa scelta da Enrichetta Buchli, che e' appunto la narrazione in se', il valore del ricordo. Possiamo certamente 'trattare' questo materiale secondo la visione del trauma, dell'abuso, del transgenerazionale, sono molti gli spunti; preferisco soffermarmi sulla Madre, questa Grande Madre che percorre tutto il libro con la sua ombra di follia, dalla quale sembra non esserci scampo.

"Mia madre mi odiava. – scrive la Buchli – Di questo sentimento mi convinsi definitivamente". E' la storia del rapporto, o del mancato rapporto, con una madre psicotica (verosimilmente, aldila' della precisa diagnosi psichiatrica), che "vede demoni dappertutto", violenta, imprevedibile, inavvicinabile. "Una pazza" di cui vergognarsi con le amichette, perche' diversa da tutte le altre mamme, da cui mettersi al riparo quando ha scatti d'ira apparentemente insensati, immotivati, da cui non aspettarsi nulla di buono, nulla di amorevole. All'interno del "bunker della famiglia borghese", dove i panni si lavano (e si lavavano, ancor piu' in passato) soprattutto in casa, nella protezione della coltre dell'omerta' e del silenzio, puo' accadere di tutto. Omicidi, omicidi del Se', quando non concretamente fisici.

Il trauma e' doppio, poiche' una madre cattiva non e' solo cattiva, e' anche assente come madre buona; come ha ben descritto Bion, "l'oggetto assente diventa l'oggetto cattivo".Qui abbiamo una tragica sofferenza al quadrato, potremmo dire: la realta' di una madre concretamente oggetto cattivo, in quanto violenta e folle, ma anche l'assenza di una madre buona e tenera, e quindi un oggetto doppiamente maligno, in quanto assente nella bonta'.

Dal primo contatto con la madre, lo sappiamo anche senza essere psicoanalisti, dipende in gran parte la nostra vita, la qualita' dei nostri futuri legami, l'interiorizzazione dei nostri oggetti interni. Tutto, in un certo senso, dipende da quel primo incontro, da cui siamo totalmente dipendenti per cosi' tanto tempo, unici tra tutte le specie animali. Per la bambina, ancora di piu'. La madre e' ancora indissolubilmente piu' importante, piu' incisiva, e' l'oggetto dell'identificazine femmiile.

Quando Freud se ne accorse, via via che veniva scoprendo analiticamente il mondo interno della pazienti donne, fu una specie di rivoluzione, per lui e per la psicoanaiisi, fino ad allora rimasta piuttosto incentrata sul bambino maschio. Freud si accorse che e' vero, si', che la madre rappresenta il primo oggetto sia per il bambino che per la bambina, ma per la bambina quel distacco che la fa rivolgere al padre e poi ai suoi sostituti nella vita adulta, e' difficile, lento, pieno di falle e di ritorni indietro, spesso irrisolto. Verso la fine della sua opera, dovette rivedere la stessa concettualizzazione del complesso edipico per quanto attiene alla bambina. "..Dove trova la strada – si domanda Freud circa la bambina – per arrivare al padre? Come, quando e perche' si libera dalla madre? ( corsivo mio, Freud S. "Sessaulita' femminile" in Opere, vol XI, 1931)

La psicoanalisi successiva si concentrera' moltissimo su questa fase della vita, chiamata pre-edipica, dominata unicamente dal rapporto con la madre; fu l'intuizione di Freud ad aprire la strada. Che cos'e' ilpre-edipico? Che parole abbiamo per definirlo? Non molte, visto che il linguaggio avverra' dopo, con l'accesso al simbolico che il padre, come terzo, viene a costituire. Il pre-edipico e' invece un universo a due, madre-bambino, dove "tutto, nell'ambito di questo primitivo attaccamento alla madre, mi sembro' difficilissimo da afferrare analiticamente, grigio, remoto, umbratile, arduo da riportare in vita, come se fosse precipitato in una rimozione particolarmente inesorabile" (corsivo mio, Freud ib).

Dal destino di questo tenace e profondissimo attaccamento inconscio, molte le conseguenze per la donna. E' interessante notare che gia' in questo scritto, Freud intravede fra queste conseguenze "la paranoia, la paura di venire divorata dalla madre". (corsivo mio, ib). Una paura che, atavicamente, tutti gli esseri umani si portano dentro, piu' spesso inconsciamente o talvolta persino in modo cosciente. Una dipendenza ed un attaccamento cosi' forti sono alla base dell"odio verso la madre. Prosegue nel testo: "I desideri aggressivi (della bambina) orali e sadici si trovano nella forma in cui sono stati costretti dalla rimozione, cioe' come paura di venire uccisa dalla madre, timore che a sua volta giustifica il desiderio di morte nei confronti della madre (..). Non e' possibile sapere quanto spesso il timore della madre trovi sostegno in un'inconsapevole ostilita' di questa, che la bambina indovina" (ib, corsivo mio)

Ho riportato per intero queste righe di Freud perche mi pare che descrivano molto bene, seppur nel linguaggio dell'epoca, quello che e' il cuore di questo libro. Rachele non indovina "un'inconsapevole ostilita' della madre", ma ne e' certa, perche' questa ostilita' non e' solo provata inconsciamente dalla madre, come sarebbe fisiologico, ma e' brutalmente agita, messa in atto, di continuo.

Siamo cioe' nell'area del Trauma, del trauma reale, e non piu' soltanto in quella dei fantasmi interni. In questa vicenda e' tutto concreto: l'odio e l'invidia ci sono concretamente, vengono messi in atto, sotto forma di incurie e violenze.

La fantasia di essere divorata e distrutta dalla madre, si puo' dunque davvero palesare, puo' davvero avvenire, poiche' la madre e' folle, e' malata, e il padre finisce per essere traumatico egli stesso in quanto omertoso, sottilmente colluso.

Credo che l'interesse di Enrichetta Buchli fosse quello di attirare l'attenzione del lettore sulla possibilita' del trauma reale, e sulla necessita' che esso vada testimoniato. Solo la testimonianza, e la successiva condivisione con l'analista e con la parola scritta, lo rendono elaborabile, superabile almeno in parte La parola rompe la catena del silenzio.

Il passaggio tra il fisiologico mondo fantasmatico gia' di per se' popolato di odio e amore tra madre e bambino (e che sarebbe terreno elettivo della psicoanalisi, almeno quella delle origini) e l'area del trauma, sta proprio in questo passaggio all'atto per cui l'odio cessa di essere un'istanza inconscia per diventare un atto ed un comportamento concreto, da cui difendersi e da contrastare.

La psicoanalisi contemporanea, come sappiamo, ha dovuto riabilitare la stessa nozione di trauma, evento spesso reale che si perpetra nelle famiglie.

Quali le risorse, come ci si affranca da questo tunnel?

Rachele ha un tesoro: la sua mente. Scrive l'Autrice "…Ma non era triste. Era chiaro che per lei la sofferenza proveniva dal mondo esterno, non da quello dentro In quello stava in pace. Era proprio in quello che aveva cercato rifugio e sollievo" C'e' un forte messaggio di speranza in questo, che pienamente condivido. La risorsa sta in noi, nel nostro interno, nel dentro. Non si finira' mai abbastanza di convincere i nostri pazienti che solo cosi', solo coltivando i tesori della mente e avendone cura, si puo' liberare quella creativita', poca o tanta in ciascuno, che ci permette di lenire le nostre ferite, e non venirne sconvolti.

Guardando fuori, rivolgendosi solo al fuori-di-se' per avere sostegno, si resta fragili e vulnerabili.

E' una nuova vulnerabiltia', a far 'ricadere' Rachele nel bisogno di contattare l'analista. Una relazione sentimentale finita male, intrecciata al delicato equilibrio della mezza eta', ha fatto "tornare la Madre".

Allora accade che il nuovo dolore, quello per il partner deludente, assuma proporzioni immani, allargate come quando si osserva un oggetto alla lente di ingrandimento. Il trauma, per sua natura intrinseca, tende a riattivarsi, a ripetersi. Si rinnova. Richiede e richiedera' nuova elaborazione, altro lavoro, una nuova narrazione.

Vorrei soffermarmi brevemente ancora su due concetti, che ho sentito importanti nel libro: la speranza, e l'idealizzazione dell'amore materno.

Ho detto sopra che c'e' della speranza, malgre' tout, in questo libro. Oggi si da' il nome di resilienza, mutuato dalla chimica, alla capacita' che la mente umana ha di adattarsi, essere flessibile, non farsi travolgere dall'esperienza negativa ma saperla anche trasformare e far evolvere, persino a proprio vantaggio. Il Male esiste, lo sappiamo. "La paura del bene – scrive la Buchli – Questo e' il Male. Il Male assoluto".

Il male – e il dolore, aggiungo io – passano di madre in figlia, attraverso le generazioni, per trasmissione inconscia transgenerazionale. Dove e' stato l'inizio? La madre della madre di Rachele e' morta suicida, la follia della nonna. Anche la madre della bambina e' forse a suo modo, a sua volta vittima della propria madre, in una catena che si interrompe solo con Rachele, con la sua consapevolezza.

Non e' facile essere madri, oltre che figlie. Ho apprezzato di poter ritrovare in questo libro una radicale distanza da quella idealizzazione della maternita', oggi tanto in voga. E tanto fasulla. Come Roman Gary, anche io – e forse l'Autrice – preferisco la vita alla felicita', quando per "felicita'" si intendono quelle inconsapevoli e deleterie idealizzazioni che ci impediscono di apprezzare i legami reali, di tollerarli e farli crescere. Il rapporto con la madre e' oggetto, nella nostra cultura, di una massiccia dose di idealizzazione, che pretende di mostrarcelo sempre bello, sempre buono, privo di ambivalenza, facile, naturale e scontato. Anche l'amore materno, invece (soprattutto l'amore materno) e' un amore-odio, e' intriso di ostilita' e invidia, e qualche volta l'odio prevale sull'amore, rappresenta spesso un esito, e non e' dato di per se'. Io non amavo mia madre perche' mia madre non mi amava, potremmo dire.

Luisa Muraro scrive ne Il Dio delle donne che "In realta' non ci sono madri, ci sono donne qualsiasi che diventano madri, rese tali da un bisogno, da un pianto, per rispondere al quale esse ricordano e subito dimenticano il proprio bisogno".

Benche' non venga chiaramente esplicitato nel libro, possiamo cogliere (o voler cogliere) anche un attimo di desiderio e pena per questa madre, una donna qualsiasi che diventa madre, che a sua volta sara' stata una bambina traumatizzata, e che sembra riuscire ad incontrare lo sguardo di Rachele solo l'attimo prima di morire.

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