Si e' tenuta ieri, sabato 13 Aprile, alla Libreria Feltrinelli di Via Manzoni a Milano, la presentazione-dibattito sul bel libro di Fatema Mernissi, "Lharem e l'Occidente" , (Giunti ed.).
Benche' gia' presentato in varie occasioni — il tema dell'Islam sappiamo essere tornato piu' che mai alla ribalta — valeva la pena, a parer mio, di essere presenti anche a questa occasione.
Maria Pia Bobbioni, Laura Pigozzi e Giulia Lami (le prime due psicoanaliste dell'Associazione Nodi Freudiani, la terza ricercatrice di Storia Orientale presso L'universita' di Milano), hanno avuto il merito di offrire un dibattito vivace, direi persino in alcuni tratti divertito, intelligente ed insieme serio sullo spinoso tema delle donne e l'harem, ovvero le donne e la cultura musulmana, delle donne e le restrizioni…..infine, delle donne e la societa', qualunque societa'.
Vengo subito quindi ad introdurre lo spunto che mi e' parso piu' interessante e che propongo alle riflessioni e alle opinioni dei lettori e delle lettrici.
Fatema, originaria di Fez in Marocco, riceve la propria "formazione" (si puo' a ragione chiamarla cosi') all'interno di un harem, come molte altre ragazze della sua generazione e della sua cultura. Successivamente, si rechera' in Occidente, da noi, ne trarra' le considerazioni che sono oggetto di questo libro, e tornera' poi al suo paese, dove oggi insegna Sociologia presso l'Universita' di Rabat. Fatema, col suo occhio critico e intelligente, ha dunque conosciuto i due mondi, l'Oriente e l'Occidente.
Si domanda, dunque: la condizione femminile e' cosi' diversa? Che cosa la distingue, se qualcosa esiste che crei la differenza?
No, si risponde Fatema, la condizione femminile non e' cosi' diversa. Aldila' delle situazioni e dei contesti apparenti, che possono qui sembrare persino fuorvianti, anche l'Occidente ha il proprio harem: l'harem della taglia 42, del corpo femminile costretto a rimanere per sempre adolescente e magro, diafano quasi, acerbo e privo di maturita' e di tempo, segregato in un limite di anni che si chiude tragicamente con la menopausa, soggiogato ai dettami maschili dello stilista e del mercato.
La tirannia della "taglia 42" e' un altro velo, un altro burqua, se intendiamo per velo — come ha suggerito Laura Pigozzi — qualcosa che isola e che separa, ma che nasconde non cio' che non ha valore e significato, ma cio' che ne ha moltissimo e puo' rappresentare un pericolo, qualcosa che mette la donna "aldifuori", all'esterno, e che mantendendo questa distanza lascia anche intatto il desiderio e l'appetito verso di lei.
L'oggetto amato non si caratterizza forse per la sua distanza?
Le eterne adolescenti della "taglia 42", icone della pubblicita', della scena della moda e dello spettacolo, vengono cosi' a trovarsi alla stessa distanza dal mondo reale della donna coperta da un velo e collocata in un harem a servire il suo sultano; ugualmente uniformate, e ugualmente private di soggettivita'. Allo stesso tempo, ugualmente incitate a ribellarsi (sembra che non pochi signori degli harem siano stati ferocemente attaccati e persino uccisi dalle loro schiave); la ribellione e' nella storia delle donne, cosi' come l'impossibilita' — che l'uomo profondamente sente dentro di se' — a governare veramente una donna. Fatema e' infatti tornata indietro, e ha saputo trovare in quel contesto sociale una posizione di rilevo (a questo proposito, sembrano sussistere dei pregiudizi, in quanto dati del '91 indicano come le donne dei paesi arabi occupino posti di responsabilita' in percentuale uguale se non maggiore, in alcuni casi, delle donne dei Paesi Occidentali).
L'autrice si interroga anche su l'immaginario che l'harem suscita nel maschio occidentale, per come lei stessa ha personalmente notato negli uomini incontrati in Occidente. Un luogo di delizie e piaceri, dove il femminile e' intento solo a contentare l'uomo e che soprattutto si priva dello strumento contrattuale umano per eccellenza: la parola. Nell'harem vige il silenzio, le donne non parlano, non chiedono, non commentano: danno solo il loro corpo, un corpo estraniato dalla contrattualita' del consenso tra pari, dal dialogo e dalla storicita'.
Nell'immaginario dell'uomo occidentale alberga dunque lo stesso piacere che l'uomo orientale, per ragioni storiche, religiose e di politiche, e' riuscito a realizzare. Anche lui, il nostro concittadino che vive accanto a noi, ha cercato di creare il proprio harem, andando cioe' a ferire a livello simbolico i punti salienti dell'essere femminile: il corpo e il passare del tempo.
Le modelle della "taglia 42" non hanno corpo e non hanno tempo, e soprattutto non hanno parola: qualcuno ha mai sentito parlare le innumerevoli vallette dei minestroni televisivi? Qualcuno ricorda la loro voce, un loro commento?
Su questo tema cosi' suggestivo si e' incentrata la discussione e dunque il libro che qui vengo a proporre, che getta uno sguardo su Oriente ed Occidente, maschile e femminile in chiave anche ironica e non solo disperata. Soprattutto — e questo mi pare un gran merito — uno sguardo privo di pregiudizi. Noi occidentali, e' vero, tendiamo a giudicare l'Islam come barbaro ed arretrato, portatore di una cultura arcaica molto lontana dal nostro mondo. Ci e' piu' difficile, diciamo, "guardare in casa propria", e abbiamo la benevola tendenza ad assolverci sempre.
Ho scelto questo spunto, tra i diversi sollevati ieri, perche' mi pare un problema aperto, su cui spesso personalmente mi ritrovo a ragionare e non di rado ad indignarmi: perche' le donne (molte) sono ancora cosi' gregarie, perche' abdicano cosi' spesso all'uso della parola in favore di un successo effimero o di una protezione apparente, perche' si sottopongono alle tirannidi, che con varie declinazioni abbiamo gia' visitato in questa rubrica e che ne rappresentano infine l'oggetto di analisi?
Credo che il quadro presentato dalla Mernissi, che pure trovo sostanzialmente vicino alla realta', tuttavia offra oggi diversi margini di fuga.
L'autonomia culturale e della propria sussistenza, unite alla coscienza di se' che si inserisca come uno scheletro pensante nell'anima e nel corpo femminile, rappresentano l'unica garanzia contro l'harem e i veli, o l'unica speranza di affrancarsene. In assenza di questo, mi sento di condividere la desolante lettura secondo cui la donna e' destinata a vivere in una sorta di cattivita', adeguandosi via via al modello predominante, e meritandosi cosi' il desiderio dell'uomo. Finche' dura.
Va ancora ricordato, come ha sottolineato la Lami, che siamo vittime di un altro pregiudizio: non e' tanto una costruzione religiosa quella che impone questo regime di asservimento femminile. Almeno, non solo. E' una decisione politica : in assenza di politiche statali che provvedano al welfare, ad assistere vecchi e bambini, a curare, a farsi carico dei bisogni della persona, e' piu' conveniente che tutto cio' ricada sulla donna, la cui gran mole di lavoro silenzioso e sommerso consente ad amministrazioni pubbliche che altrimenti andrebbero allo sfascio una pur magra sopravvivenza. Il fanatismo religioso, che pure esiste, funge da copertura a scelte politiche che impediscono il cambiamento e mantengono invece lo status quo, che puo' mantenersi all'interno di una societa' solamente negando la paritarieta' tra i sessi.
Un testo dunque ricco e suggestivo, che passa agevolmente attraverso il sociale, l'immaginativo, il rituale, il religioso, fin dentro le oscurita' dell'incontro tra uomo e donna, dalla cui natura piu' o meno egualitaria dipende tuttora il grado di civilta' a cui l'individuo umano puo' ambire.
mah! la logica del ‘mal
mah! la logica del ‘mal comune mezzo gaudio’ in questo caso mi pare assumere una funzione consolatoria. Concordo sul fatto che in fondo la schiavitù dell’harem, e di tutte le forme che nel terzo mondo assume il corpo delle donne all’interno delel varie società patriarcali da una parte, e quella della ‘taglia 42’ nella metropoli occidentale dall’altra, hanno in fondo lo stesso significato. Ma – come dice la Spivak – questo evidenzia solo quanto sia urgente un percorso di autonomizzazione sia lì che qui. Percorso di autonomizzazione che diventa doppio più gravoso per quella parte delle donne migranti ‘emancipate’, e attratte dalle sirene consumiste.