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Il ritorno dell’elettroshock

11 Feb 13

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

di Mario Galzigna

 

Soprattutto negli Stati Uniti assistiamo, in questi ultimi anni, ad un vero e proprio ritorno, su vasta scala, della terapia elettroconvulsivante (ECT). Senza indulgere ad un'ottica economicistica e riduttiva, occorre tuttavia includere, tra le varie ragioni di questa clamorosa ripresa, la motivazione strettamente economica.

Negli USA le compagnie assicurative sostengono i costi della degenza solo per pochi giorni: degenze più lunghe vengono pagate sia nel caso di patologie gravi (ma i disturbi psichiatrici non vengono considerati patologie gravi), sia nel caso in cui si renda necessario un intervento.

L'ECT viene considerato un intervento. Prescrivere l'elettroshock significa quindi far guadagnare quattrini sia alla struttura ospedaliera che allo psichiatra. Il costo di una seduta si aggira attorno al milione e mezzo di lire: circa la quinta parte di tale somma viene destinata al singolo operatore sanitario. In Italia, dove l'ECT non ha ancora conosciuto, per il momento, una diffusione paragonabile a quella statunitense, costi e profitti dell'elettroshock sono certamente inferiori, ma non irrilevanti.

Un giudizio sereno e non ideologico di questa opzione terapeutica non potrà comunque prescindere dalla valutazione critica relativa alla sua convenienza economica; si tratta, in altri termini, di capire fino a che punto la scelta terapeutica è condizionata da istanze di carattere finanziario: un problema etico — in prospettiva – di grandissimo rilievo per la psichiatria clinica, soprattutto nella nuova situazione legislativa italiana, caratterizzata da un inquietante strapotere dell'istanza amministrativa ed aziendale, che finisce per compromettere la necessaria autonomia dell'atto medico.

L'ECT è spesso al centro di forti contenziosi: veri e propri scontri frontali tra posizioni antagoniste — tra partiti presi, tra logiche di schieramento – più che solide controversie scientifiche, che implichino la disamina critica dei dati disponibili e delle procedure di controllo adottate.

Proprio in questi ultimi mesi, ad esempio, la prestigiosa rivista scientifica "Nature" ha ospitato un'accesa polemica sull'ECT. Vediamo.

Hugh Freeman — former editor del "British Journal of Psychiatry" e docente al Green College — recensisce, sul N. 401 di "Nature" (settembre 1999), l'ultimo saggio di Max Fink, a tutt'oggi uno dei più accaniti e convinti sostenitori della terapia elettroconvulsiva (Electroshock: Restoring the Mind, Oxford University Press, 1999). L'intervento è altamente elogiativo e lo si capisce già dal titolo (Taking the horror out of shocks). Il libro, dice Freeman, serve a "dissipare il mito — largamente promosso dagli antipsichiatri — secondo cui l'ECT danneggia il funzionamento del cervello". Basti, qui, ricordare gli argomenti più importanti addotti da Fink — e riproposti dal suo recensore — a sostegno della non pericolosità e dell'efficacia terapeutica dell'ECT: la memoria a breve termine può essere danneggiata, ma si restaura in tutta la sua pienezza dopo qualche mese; ed ancora: la riduzione drastica del danno è legata al fatto che le dosi di corrente sono basse ed i tempi di somministrazione molto brevi; l'uso dell'anestesia e della curarizzazione — largamente invalso a partire dagli anni settanta – rende l'intervento indolore e privo di conseguenze traumatiche osteo-muscolari. Per ridurre ulteriormente la possibilità di danni cerebrali, da qualche anno si è imposto l'ECTunilaterale, con somministrazione di corrente solo all'emisfero destro. Soprattutto nei casi di depressione grave e farmaco-resistente il nuovo elettroshock si è rivelato uno strumento terapeutico molto valido: fa risparmiare tempo e denaro; evita, inoltre, sia un pericoloso e spesso inutile accanimento farmacologico sia le lungaggini di un approccio psicoterapico, quasi sempre inefficace per le patologie gravi ed in ogni caso difficilmente gestibile da parte di un servizio psichiatrico. Questi, dunque, gli argomenti a difesa.

Freeman ammette che "l'arte" dell'ECT "è essenzialmente empirica" ed aggiunge, candidamente: "numerosi interventi che hanno giovato ai pazienti hanno ricevuto una loro spiegazione razionale solo molto tempo dopo".

Sempre su "Nature" — nel volume 403 del gennaio 2000 — arriva una durissima replica, in forma di letter, firmata da Peter Sterling, del Dipartimento di Neuroscienze dell'Università della Pennsylvania. Anche qui, titolo assai eloquente: ECT damage is easy to find if you look for it (Il danno da ECT è facile da trovare se lo si cerca). "E' legittimo credere — si afferma – che passare 150 Volt tra le tempie per evocare una convulsione possa provocare danno cerebrale, specie se si tiene conto che questa ‘cura' per la depressione richiede che il procedimento venga ripetuto 10 — 20 volte alla settimana". E si continua citando un caso verificato personalmente: parlando con una amica che è stata trattata in questo modo, l'autore si accorge che un anno dopo essa avverte ampie falle nel ricordare i principali eventi della sua vita e che vive tutto questo con preoccupazione. Quindi — questa la conclusione – il beneficio dell'ECT è soltanto temporaneo. Molti clinici, oggi, somministrano l'ECT unilaterale, applicato cioè all'emisfero destro, non dominante. Perché lo fanno? Per evitare danni nell'emisfero verbale, cioè nell'emisfero sinistro dominante. Ovviamente, continua l'autore, analogo danno viene provocato all'emisfero non verbale, "but it tells no tales": ma esso non lo dice; ma esso non lo racconta.

Sterling ricorda poi che l'ECT viene usato dai neuroscienziati come strumento sperimentale. Si è dimostrato, aggiunge, che esso provoca un massiccio rilascio di glutammato (analogamente all'ictus) e quindi una conseguente e significativa morte neuronale. Il glutammato, come si sa, è un neurotrasmettitore attivo nella cellula neuronale: la sua distruzione implica perciò la morte della cellula neuronale stessa.

La parte più interessante della letter è quella dedicata alla critica dei protocolli di ricerca ed ai metodi in uso per verificare il danno da ECT. "La perdita di memoria potrebbe essere verificata interrogando i pazienti prima dell'ECT su eventi della loro vita passata e reinterrogandoli dopo ogni serie di ECT", ovviamente sui medesimi eventi. "Quando questo è stato fatto 50 anni or sono", precisa (citando un lavoro del 1950), "le perdite di memoria apparivano marcate e prolungate". Ma questo semplice test non è stato più ripetuto ed è assente nella letteratura successiva al cosiddettonuovo ECT, iniziato a cavallo tra gli anni 60 e gli anni 70.

La replica non si fa attendere. Sempre su "Nature" (volume 403, febbraio 2000) intervengono lo stesso Max Fink e Richard Abrams, autore di quello che è stato finora considerato il testo "apologetico" standard sul nuovo ECT, da poco uscito in terza edizione (Electroconvulsive therapy, Oxford University Press, 1997). Abrams — a quanto mi è stato riferito — è egli stesso coinvolto in prima persona nella produzione e nella vendita di apparecchiature ECT. Ma vediamo per un attimo il livello delle repliche.

Fink si limita a ricordare il caso citato da Sterling, ma non lo commenta. Quindi passa al contrattacco, rimproverando Sterling di fare riferimento, nella sua polemica, al vecchio ECT, che precede le benefiche innovazioni sopra ricordate. Precisa poi che nell'80% dei casi la media delle sedute settimanali va da 4 ad 8 e non da 10 a 20. Infine, basandosi sul testo di Abrams e su qualche altro lavoro, ribadisce che il danno alla memoria, se esiste, è di breve durata. E conclude, con tono disincantato: "I benefici dell'ECT sono temporanei, ma sono tali i benefici di ogni cura psichiatrica".

Abrams, da parte sua, ribadisce la tesi centrale del suo libro, secondo la quale non esisterebbero prove sicure che attestino un danno cerebrale, un brain damage, provocato dall'ECT. Ed aggiunge: il solo studio positivo che lo dimostra è stato pubblicato nei proceedings della New York Academy of Sciences (462, 1986) e non in una rivista scientifica soggetta a referees. Valuti il lettore la portata di questa affermazione, che sottende — questo è certo – una fede ingenua (o volutamente ingenua) circa l'assoluta e indiscutibile neutralità dei referees.

Per quanto riguarda la questione relativa al rilascio di glutammato, Abrams rimprovera Sterling di non aver citato nessuno studio al proposito. Ci auguriamo, ovviamente, che Sterling sia in grado di rispondere a questo corretto rilievo critico.

Nessuno dei due autori, in ogni caso, risponde alle critiche rivolte da Sterling alle procedure di controllo relative ai deficit di memoria in soggetti trattati con ECT.

La questione, come si può constatare, è aperta e quanto mai spinosa. Il partitodell'ECT ha oggi riviste specializzate sul tema (ad esempio: "Electroshock Review", "Convulsive Therapy", "Journal of ECT"). Il partito avverso è senza dubbio meno potente, ma altrettanto organizzato ed agguerrito. Lo dimostra, tra gli altri, il lavoro di Peter Breggin, che dirige un centro di ricerca dedicato al danno cerebrale provocato da alcuni trattamenti psichiatrici, tra i quali, in primis, l'ECT. Il centro studi ha anche un sito Internet, dove è facile trovare riferimenti a lavori che confutano, di fatto, le tesi ottimistiche di Fink e di Abrams. A Peter Breggin — già autore, nel 1979, di un libro poi tradotto da Feltrinelli (Elettroshock. I guasti del cervello, 1984) – dobbiamo un saggio più recente ed aggiornato, pubblicato nel 1997 (Brain-disabling treatements in Psychiatry).

La questione è aperta, si diceva. L'abbiamo sollevata anche per suscitare, in POL.it, un dibattito approfondito sul tema. Ci limitiamo a chiudere con due sintetiche osservazioni e con una proposta operativa:

  1. La ricerca sugli eventuali danni prodotti dall'ECT non dovrebbe essere limitata al campo della memoria. Sono stati documentati danni alle funzioni mentali superiori, più elevate: danni che, ovviamente, sono maggiormente verificabili in soggetti che hanno svolto, prima del trattamento, attività creative. Su questo tema, ancora poco esplorato, rinvio ad uno studio abbastanza recente: Calev — Gaudino (et alii), ECT and non-memory cognition: a review, in "British Journal of Clinical Psychology" (novembre 1995, N. 34). Si discute, qui, anche la vexata quaestio del consenso informato: e cioè la necessità di avvisare pazienti e/o familiari dei danni cerebrali possibili.
  2. Per quanto riguarda il consenso informato, credo che sarebbe eticamente corretto avvertire pazienti e familiari — e questo vale anche per altri tipi di terapia — se e perché un determinato intervento implica l'esclusione di altri possibili percorsi terapeutici.

La mia proposta — già ufficialmente presentata al convegno romano "Etica e Psichiatria", organizzato dalla W.P.A. — è la seguente: in previsione di un possibile e prevedibile ritorno dell'ECT in Italia, sarebbe opportuno che la Società Italiana di Psichiatria promuovesse una Commissione etico-scientifica che valuti criticamente dati e procedimenti di controllo relativi all'uso dell'ECT ed ai suoi effetti sulla salute del paziente. Le oscillazioni dell'atteggiamento ministeriale sull'uso dell'ECT — basti pensare alle due ultime circolari di Rosy Bindi — dimostrano l'urgenza di affrontare con serietà tutta la questione.

Tra i clinici italiani da me consultati recentemente, prevale un atteggiamento molto cauto, del tutto avverso ad ogni orientamento aprioristico ed ideologico. Si riconosce che l'ECT può diventare indispensabile solo in casi estremi — percentualmente molto rari — in cui il paziente grave è in pericolo di vita: stati amenziali confusionali o catatonie. La rarità di questi casi non giustifica, in ogni caso, il ricorso generalizzato alla terapia elettroconvulsiva.

Sulle depressioni gravi — e soprattutto sui deliri melanconici cronicizzati — le opinioni sono discordanti. Recentemente Filippo Maria Ferro ha polemizzato proprio con Fink, in relazione ad un caso di catatonia, per il quale il clinico italiano ha deciso di non ricorrere all'ECT e di scegliere — in questo caso con successo — la strada più lunga (e più costosa) di un trattamento psicoterapico.

Sarebbe utile, credo, aprire un largo dibattito sul problema, magari proprio a partire dalla discussione di questo caso clinico.

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