Suicidio e lavoro
L’intervento di Giancarlo Pera sul suicidio e la perdita di lavoro mi ha fatto venire in mente un bel film di Soldini di qualche anno fa “Giorni e nuvole” interpretato da un grande Antonio Albanese (non ancora schiavo dei suoi personaggi). Come richiama Pera questo tema non deve essere "di moda" e va contestualizzato. È una storia di una famiglia “normale e colta” del ceto medio alto con normali e conflittuali rapporti tra marito e moglie e con la figlia in fase di auto definizione. Improvvisamente il protagonista, Michele, perde il lavoro e il film in maniera molto bella e articolata rappresenta i vari passaggi della perdita di ruolo e d’identità nelle piccole e nelle grandi cose della vita. Si riducono gli spazi della casa, le abitudini sociali, le amicizie. Un punto fondamentale è nel rapporto con la moglie che vuole bene a Michele in parte viene allontanata da lui e un po’ si distanzia, incapace di aiutarlo. E qui abbozzo una risposta anche a Francesco che nel suo intervento parlava di “scelte improntate alla difesa” in noi terapeuti. Non è facile vivere insieme a un depresso e anche la terapia è difficile in particolare se la sofferenza è accompagnata da una sorta di rassegnazione che spesso subentra nei nostri pazienti e da una sordità ai nostri interventi. Talora le nostre valenze terapeutiche s’inaridiscono Il film descrive bene questo rapporto tra marito e moglie che si distanzia quasi inesorabilmente senza che l’empatia, l’affetto riescano a modularlo.
Anni fa commentando il film ricordavo che la scala che nella scala di Rahe Holmes che descrive e pesa i Life Stress events, la perdita del lavoro ha una posizione di rilevanza intermedia tra il massimo attribuito alla morte di un famigliare stretto e il minimo per cambiamenti nelle abitudini di vita. È ancora così o i cambiamenti nella struttura della famiglia ha aumentato il peso del lavoro nella nostra identità? Questa si che è una domanda
Il bel film di Soldini è molto attento a descrivere i vari passaggi psicologici della crisi di Michele, costruendo una ricca galleria di meccanismi difensivi che sono utilizzati: la negazione, la rabbia, il distacco, l’impotenza, l’helpessness.
Penso che sia utile rivederlo in questo periodo di banalizzazione per recuperare una dimensione narrativa in primo luogo per noi e poi poterla restituire ai pazienti. Non so se un atteggiamento narrativo sia terapeutico e su questo vi è un ricco dibattito, ma sicuramente può dare un senso sia al depresso sia al nostro rapporto con lui. In questa maniera forse possiamo fare prevenzione al suicidio. Per questo m’infastidiscono gli stereotipi, in particolare quelli urlati. Il film è bello, perché è sotto tono e poi è girato a Genova …
in eco alla citazione
in eco alla citazione generosa di Alberto Sibilla e rimanendo in conversazione con lui e con quanti altri vorranno, intorno alla questione del rapporto tra ‘crisi’ economico finaziaria, cambiamenti già in essere nel tessuto sociale prima e nonostante i suoi contraccolpi, scenari in divenire delle convivenze (in)possibili, e , non ultimo, rischio suicidario, mi viene da considerare un ulteriore focus incandescente tanto da indurre troppo spesso a distogliere lo sguardo: il significato e il valore (?) del lavoro ai nostri tempi, con o senza crisi intercorrente,nelle sue retoriche e nelle sue contraddizioni
Se non approfondiamo questa dimensione e le soglie di (dis) continuità e (dis)contiguità la cui traversabilità negata o incentivata ne favorosce o meno la pervasivita a livello esistensivo e sociale, a livello oiko-nomico e oiko-logico, non saremo in grado nè ora nè poi di immaginare, come si dovrebbe, un altro mondo possibile, cioè necessario