Percorso: Home 9 Rubriche 9 GALASSIA FREUD 9 Maggio 2013 III – Psicoanalisi e morale, Freud in Iran, Benicio del Toro e l’analisi

Maggio 2013 III – Psicoanalisi e morale, Freud in Iran, Benicio del Toro e l’analisi

10 Giu 13

A cura di Luca Ribolini

ALTRUISMO, ONESTÀ, EMPATIA

di Valeria Egidi Morpurgo, ilsole24ore.com, 19 maggio 2013

Da dove proviene la condotta morale? Per Freud non è l’esito di una composizione pacifica di forze, deriva piuttosto da una sorta di lotta per il territorio che si svolge tra le forze pulsionali (e i moventi narcisistici individuali) e le istanze sociali, che si incarnano in primo luogo nella famiglia. Al tempo stesso il maestro viennese sottolinea costantemente nel corso della sua opera che il conflitto tra individuo e società è inevitabile per la civiltà umana ma è foriero di sofferenza psicologica e mentale per il singolo. E che dire delle norme e delle leggi? Nel Disagio della civiltà (1930) Freud critica l’ipotesi per cui gli ideali e i valori, e in particolare l’«etica naturale», servirebbero a modificare l’aggressività umana.
Ma traendo un esempio dal mondo antico segnala che ci sono gruppi umani che hanno sviluppato la capacità di interrogarsi sulle proprie sconfitte, anziché incolpare il destino o gli altri. Muovendo da qui possiamo considerare l’etica che regola quelle speciali comunità che sono le professioni come espressione dell’esigenza collettiva di regolare il narcisismo e la pulsionalità dei singoli. Se è vero che a ogni regola corrisponde un desiderio di trasgressione, è vero anche che c’è un correttivo: la capacità di responsabilità. Si può quindi individuare lo specifico della buona pratica nel campo della cura, in particolare quando si tratta della salute mentale. Ne tratta il volume La professione dello psichiatra. Etica, sensibilità, ingegno, Cortina 2013, che raccoglie le voci degli psichiatri statunitensi G.O. Gabbard, L. Weiss Roberts, H. Crisp-Han, V. Ball, G. Hobday, F. Rachal. L’autore più noto al pubblico italiano, grazie al notissimo Psichiatria psicodinamica(Cortina 1995) è G. O. Gabbard, docente universitario e membro di spicco dell’International Psychoanalytic Association. La professionalità psichiatrica è secondo gli autori una competenza “tecnica” che si declina in sei ambiti: lavorare bene in equipe, essere responsabili, impegnarsi per il miglioramento professionale, avere una condotta empatica verso pazienti e famiglie, trattare i colleghi collaboratori e studenti con rispetto, vigilare sull’equa amministrazione delle risorse.
Perché da questo elenco mancano le questioni della protezione della privacy, e del rispetto dei limiti nelle relazioni medico-paziente? Perché questi temi sono pertinenti all’aspetto etico della professionalità. Il bilanciamento tra i due lati della professione, quello tecnico e quello etico, beninteso, non è dato una volta per tutte: anzi implica tensioni e conflitti, che sono impostati come problemi da affrontare apertamente. E qui l’accento cade sulla responsabilità individuale, quel committment, osservano i prefatori dell’edizione italiana, Vittorio Lingiardi e Massimo Biondi, che è un segno dell’etica protestante che aleggia nel libro. Senza voler forzare troppo si può dire che è il segno di una mentalità diversa da quella più frequente in paesi, come il nostro, dove è (o era) più visibile la traccia del modello solidaristico, non individualistico. Si può aggiungere che la peculiarità di questo volume sta nella sua impronta di carattere pragmatico, inteso come taglio culturale tipico d’oltre Atlantico. E quindi il suo interesse, per psichiatri e psicoterapeuti, sta nella struttura a problem solving dei casi riportati, avvicinati per somiglianza senza trarne teorie generali, evitando il ricorso ad approcci ideologici. Cui siamo forse troppo affezionati in ambito continentale, al di qua dell’Atlantico.
Anche il richiamo alla responsabilità sociale dello psichiatra, definita nel volume con il termine accountability, sottolineato vigorosamente dai prefatori in quanto comporta il confronto con la società, è un segno di questa mentalità: forse in un volume radicato nella realtà del nostro paese sarebbe stata più marcata l’impronta delle teorie etico-politiche degli autori. È pur vero che non si possono trascurare i contesti culturali e le cornici legislative. Per esempio il dilemma etico dello psichiatra di fronte alla possibilità di internare un paziente contro la sua volontà ha rilievo diverso in Usa, dove esistono strutture di tipo manicomiale, rispetto all’Italia, dove la prerogativa dello psichiatra di limitare la libertà del paziente è stata nella sostanza eliminata dalla legge Basaglia del 1978 (legge 180) che ha chiuso i manicomi. Ma questa differenza non inficia l’approccio pragmatico del libro, basato sulla ricerca empirica, anche quando propone un excursus delle teorie etiche in psichiatria. Nel volume non manca infatti un appropriato riferimento a Freud, citato non a caso per il «narcisismo delle piccole differenze», che tanto ostacola la capacità di collaborare tra simili. Ciò che permette di affrontare le situazioni disfunzionali nel rapporto medico-paziente è una pratica informata al rispetto degli interlocutori, paziente e terapeuta, considerati con il loro ruolo e la loro specificità: di genere, età, etnia, orientamento sessuale. Nell’area critica ricadono a volte ambiti relazionali nuovi, come si vede nei casi di frequentazione incauta dei social media da parte dei terapeuti. L’importanza della pratica dell’onestà e del rispetto si vede ancora più nello studio sui piccoli sconfinamenti dal ruolo, distinti dalle violazioni gravi che si traducono in manipolazione o sfruttamento sessuale di pazienti o ex pazienti. A chiare note viene ribadito che la buona pratica dello psichiatra implica altruismo, onestà, empatia – intesa come capacità amichevole di identificazione – e responsabilità. Che vuol dire anche accettare che c’è una comunità intorno (i colleghi, i pazienti) che valuta e ha diritto di intervenire. Un bell’esempio? Il volume è a più voci perché risponde all’esigenza di fare esprimere figure professionali che hanno alle spalle ambiti e approcci clinici diversi, ma possono comporre un volume unitario.

http://www.ilsole24ore.com/art/cultura/2013-05-19/altruismo-onesta-empatia-082504.shtml?uuid=Ab9yICxH

 

BENICIO DEL TORO TRA PSICOANALISI E DONNE

L’intervista da Cannes: “I giorni da sex symbol sono finiti. Adesso sono un padre di famiglia”
di Pierpaolo Festa, stile.it, 20 maggio 2013
Un paio di occhiali da sole dietro ai quali nasconde la sua minacciosa espressione da “Brad Pitt latino”. A sentirlo parlare, però, ci si accorge che Benicio Del Toro è uno degli uomini più gentili e intelligenti presenti a Cannes al momento della nostra intervista. E soprattutto un attore che lavora sodo: “Ve lo confesso: il mio mestiere è veramente difficile. Spesso può diventare veramente stressante. Fare un film è una cosa molto complicata”. A Cannes presenta Jimmy P. dramma in cui interpreta un indiano d’America traumatizzato dopo essere tornato dalla Guerra. Viene mandato in una clinica psichiatrica per sottoporsi a diverse cure, finché il noto antropologo Devereux (personaggio veramente esistito e interpretato da Mathieu Amalric) riesce a guarirgli l’anima. La premessa del film ci permette di fargli abbassare la guardia e farlo parlare della sua esperienza con la psicoanalisi anche fuori dal set.
Benicio sei mai stato in analisi?
Certamente. Direi che più o meno ho cominciato a farlo sin da quando faccio questo mestiere. In un certo senso ha fatto parte del mio processo di ricerca. Sono un attore responsabile, e il mio mestiere riguarda anche l’essere in grado di leggere l’animo delle persone. Tutti gli attori sono un po’ interessanti alla psicoanalisi.
Nel film ti vediamo raccontare sogni molto personali. Cosa sogna Benicio Del Toro?
Uno dei miei ultimi sogni è stato quello di un cane enorme che mi chiudeva la mano tra le sue fauci. Io rimanevo in trappola, non riuscivo a tirare fuori la mano. Mi sentivo in pericolo. A un certo punto – nel sogno – mi sono detto: “cosa farei se fossi il cane?”. Allora ho capito che dovevo tappargli il naso, e fare in modo che quello per respirare aprisse la bocca, liberandomi la mano. Che vuol dire? Non saprei! Però somiglia un po’ al metodo dell’attore. Tutte le volte comincio sempre con il chiedermi: “Cosa farebbe Benicio?”. Dopo un po’ divento il personaggio.
Sempre a proposito di psicoanalisi. Dopo anni di esperienza hai imparato a conoscerti meglio? Sai dove stai andando?
Penso di conoscermi un po’ meglio. Direi comunque che è un work in progress, sono cambiato rispetto a quando avevo 22 anni. Il mio segreto è cercare di sentirmi costantemente motivato.
Come ci riesci?
La paternità in primis (Del Toro è padre di Delilah, nata nell’estate 2011, N.d.R.). Altre volte basta affidarmi a un po’ di buona musica: amo molto Bruce Springsteen, soprattutto Darkness on the Edge of Town.
Diventare padre è stata un’avventura spaventosa oppure sei rimasto con i piedi per terra?
E’ ancora spaventoso! Penso che si tratti di un innamoramento costante. Un processo interessante, bello ma anche complesso.
Faresti vedere a tua figlia i tuoi film? E’ una cosa che speri di fare un giorno e che potrà riempirti di orgoglio?
Spero che li guarderà. Certamente non ho intenzione di mostrarle Le belve al più presto! Mi piacerebbe spiegarle tutto sui miei progetti: cosa ha funzionato in quel determinato film e cosa invece è andato storto. Ecco, vorrei farle capire quanto è complesso il mestiere di suo padre. Ci vorrà del tempo però. Vi confesso, però, che ho già provato a mostrarle qualche film di Chaplin.
Parliamo un momento di donne. Hai mai avuto un’icona erotica da ragazzino?
Mi è sempre piaciuta Linda Carter nei panni di Wonder Woman. All’epoca il mondo si divideva in due: chi amava Farrah Fawcett e chi invece seguiva Linda Carter. Io facevo parte del secondo gruppo.
A 46 anni sei un sex symbol. Come vivi questo status?
Siete sicuri che lo sia ancora? Proverò a farmi valere stasera a Cannes…

http://www.stile.it/cultura-e-spettacoli/arte/intervista-benicio-del-toro-cannes-2013/

 

L’AYATOLLAH SUL LETTINO. PSICOANALISI E ISLAM, PARLARE DI FREUD A TEHERAN

Gohar Homayounpour racconta in un libro la sua esperienza di terapeuta in Iran. Storie di pazienti laici e religiosi, tradizionalisti e modernizzatori, fedelissimi al regime e accesi dissidenti
di Vanna Vannuccini, la Repubblica, 22 maggio 2013
Pochi paesi al mondo hanno una reputazione internazionale peggiore di quella dell’Iran. Almeno da quando Bush lo inserì nell’Asse del Male, il nome dell’Iran è associato a uno Stato guidato da fanatici religiosi e retrogradi, a un nuovo medioevo, ogni volta rinfocolato dalle sentenze che il presidente Ahmadinejad non ci fa mai mancare, tanto da essersi conquistato il titolo di «uomo più pericoloso al mondo».
Accanto a questa corrente maggioritaria c’è poi un gruppo ristretto di occidentali “illuminati”, per i quali gli iraniani sono in blocco un popolo oppresso che aspetta solo di liberarsi da una dittatura religiosa. Non abbiamo visto tutti le foto di ragazze truccatissime e poco vestite che ballano in party sfrenati in qualche casa di Teheran? Non abbiamo letto che i conducenti di taxi collettivi quando possono evitano di prendere a bordo un mullah? Gli iraniani non hanno più nulla a che vedere con la religione, concludono. Ebbene, entrambi hanno torto, ci fa capire il libro – uscito da Cortina – di Gohar Homayounpour, che da sei anni fa l’analista a Teheran e insegna psicologia all’Università Shahid Beheshti della capitale. Non che tutte le idee che l’Occidente si fa dell’Iran siano false, ma spesso sono così incomplete da travisare la realtà.
Il libro è di per sé una sfida alle percezioni occidentali. Una psicoanalista a Teheran? Gli ayatollah sul lettino? Le teorie freudiane sulla sessualità e l’islam? Ma non sapevamo che la psicoanalisi cozza contro ogni mondo religioso determinato, e non è allo stesso tempo la religione una delle fonti dei più violenti problemi psichici? Una amica a cui Homayounpour aveva fatto leggere una prima bozza le aveva risposto: ma gli ayatollah dove sono? E le aveva proposto di cambiare il titolo in Diventare matti a Teheran. In realtà la psicoanalisi in Iran ha una storia breve ma un lungo passato, dicono gli iraniani. Già Avicenna aveva scoperto l’effetto delle emozioni sulla salute fisica e raccontava la storia di un principe la cui febbre nessuno riusciva a curare finché, pronunciando nomi di città e strade e fanciulle, il medico scoprì chi era la bella di cui il principe non voleva fare il nome; consigliò al re di consentire al matrimonio e la febbre sparì.
Anche i mistici iraniani come Hafez e Rumi hanno espresso molte idee sulla psiche e il maestro sufi è in fondo una specie di psicoanalista.
Subito dopo la rivoluzione la psicoanalisi fu vista negativamente, come tutto ciò che veniva dall’Occidente, ma già verso la fine degli anni Ottanta riebbe un posto nell’Università di Teheran e perfino in una serie di programmi televisivi e radiofonici. Oggi le pratiche psicoterapeutiche negli ospedali includono analisi transazionale e cognitiva-comportamentale, terapia di gruppo, terapia sessuale e familiare e terapia di coppia (i divorzi sono saliti in Iran da 50.000 nel 2000 a più di 150.000 nel 2010 e “La Giornata del Matrimonio”, in cui si ricorda il matrimonio di Zarah, la figlia del Profeta, con l’Imam Ali più di 1400 anni fa, è stata rinominata “Giornata contro il Divorzio”). Le cause principali di disagio psichico per i giovani sono di origine economica: disoccupazione, povertà, mancanza di prospettive.
Nei suoi anni di pratica psicoanalitica Homayounpour ha visto arrivare nel suo studio religiosi e laici, tradizionalisti e modernizzatori, uomini e donne (pare in numero piuttosto equilibrato, tranne che nelle terapie di gruppo, dove le donne prevalgono), fedeli al regime e dissidenti, e soprattutto persone che non si lasciano inquadrare in nessuna di queste categorie. Queste persone coesistono nella società iraniana come nello studio di Gohar, gli uni accanto agli altri. C’è la ragazza di ventiquattro anni di famiglia tradizionalista che ha perso “l’unica cosa che una donna non dovrebbe mai perdere” e perciò vuole abbandonare la casa paterna per non disonorarla, e Homayounpour, arrivata a Teheran dopo vent’anni passati in Occidente, lì per lì non capisce a che cosa la ragazza si riferisca —  evidentemente non ha fatto caso al numero di cliniche specializzate nel restituire la verginità che ci sono a Teheran.
C’è anche la studentessa di Isfahan a cui piace molto fare sesso ma solo se prende lei l’iniziativa e «non lo fa in posizione passiva». Non deve essere una rarità a sentire quanti occidentali al loro arrivo in Iran ti raccontano degli occhi di fuoco con cui si sentono guardati dalle signore in chador. Ma pare che agli uomini iraniani l’intraprendenza femminile non piaccia perché pensano che si adatti solo alle prostitute (così aveva detto alla studentessa il fidanzato ormai perduto). C’è perfino un camionista macho da cui Homayounpour – colpevolizzandosi per dare a prima vista un così avventato giudizio di valore – non si aspetta che «voglia capire meglio se stesso». Lui ha paura del buio e sogna di andare a letto con la madre (anche con la sorella e la cognata). E c’è un giovane intellettuale a cui l’amata (sposata) permette ad ogni incontro di conquistare solo qualche centimetro del proprio corpo.
I pazienti diventano narratori di storie che svelano realtà non dette e s’intrecciano con la storia personale dell’autrice, come in una seduta psicoanalitica. Homayounpour racconta il piacere e la sofferenza del proprio ritorno nella madrepatria. Era nata a Parigi da genitori iraniani che si erano poi trasferiti in Canada, e come succede in questi casi ha un dilemma d’identità. «Lontana dall’Iran, nessuno era più iraniano di me; qui in Iran, nessuno lo è di meno». Una vecchia storia, di cui discute con una paziente, bellissima e famosa pittrice, che in Occidente aveva vissuto come l’analista in una penombra di esotismo lamentandosi della «solitudine e della mancanza di relazioni umane».
Homayounpour cerca conforto nella lettura di Kundera (e non resiste alla tentazione di impelagarsi in una dotta critica letteraria dell’Insostenibile leggerezza dell’essere, a imitazione di Leggere Lolita a Teheran, cosa che le si perdona solo perché il padre è stato il traduttore in persiano di Kundera, e quindi rientriamo in ambito psicoanalitico).
Di complessi di Edipo e sogni incestuosi l’autrice ne ha analizzati a decine. Il complesso di Edipo è rovesciato nei miti iraniani, sono i padri a uccidere i figli. «La fantasia collettiva iraniana è fissata in un’angoscia di disobbedienza che desidera l’obbedienza assoluta. Nel momento in cui desiderano ribellarsi i figli sanno inconsapevolmente che ponendo in essere quel desiderio saranno probabilmente uccisi… La cultura greca, viceversa, sembra incentrata sulla conquista e il rovesciamento del potere, e la fantasia collettiva reagisce alla paura della castrazione consentendo di prendere le distanze dal padre e eliminarlo, al fine di assumere potere e controllo». Alla fine occorrerà ricordare che al di là delle sanzioni e delle minacce di guerra gli iraniani vivono vite che si lasciano analizzare con gli stessi strumenti di quelle degli occidentali, e che l’orizzonte sociale, culturale e perfino religioso di una famiglia borghese a Teheran – i film, i programmi tv, i temi di cui si discute in privato, le automobili, le droghe, i fanatismi politici, le professioni, i rapporti tra i sessi – è meno lontano da quello di una famiglia borghese europea di quello di chi vive in uno slum a mezz’ora di distanza in automobile dalla casa dell’autrice.
http://ilmiolibro.kataweb.it/booknews_dettaglio_recensione.asp?id_contenuto=3740354

CRISI ECONOMICA E CRISI ESISTENZIALE

Video della trasmissione Zeta, la7.it, 17 maggio 2013, a cura di Federica Bocellari e Michele Cavallaro
Di fronte alle crescenti difficoltà di ordine economico, l’Italia registra un radicale aumento del disagio esistenziale, tanto da spingere realtà della psicoanalisi (ma anche la CGIL) a proporre sostegni straordinari.
http://www.la7.it/zeta/pvideo-stream?id=i708169
 

IL DIVANO DI FREUD CADE A PEZZI

Servizio di Cristina Bolzani, rainews24.it, 21 maggio 2013
Una colletta per restaurare il divano di Freud, che comincia a dare segni di decadimento. L’iniziativa parte dal Freud Museum di Londra.
http://www.rainews24.rai.it/it/canale-tv.php?id=33989

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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