MAL-TRATTAMENTI PSICOANALITICI
Suicidi, vite private che vanno in frantumi, pazienti e terapeuti che stanno male. La fiction In treatment mostra il totale fallimento del freudismo
di Domenico Fargnoli, left.it, 23 maggio 2013
Un gruppo della Società psicoanalitica italiana (Spi) ha curato il commento della serie In treatment (Sky cinema) per la regia di Saverio Costanzo. La serie è stata molto seguita anche nella sua versione italiana. Il successo della fiction è quello della psicoanalisi freudiana come credono i membri della Spi? La psicoterapia è tutt’altro che un gioco, come si legge in un commento della rubrica, poiché riguarda la vita e la morte: apprendiamo che Dario, uno dei pazienti nel serial si è suicidato. La rivalità con l’analista e la relazione con una donna, Sara, anch’essa “in cura” sono gli antecedenti del fatto. Dario, geloso dell’infatuazione di Sara per il terapeuta, scopre che la moglie di quest’ultimo lo tradisce e rivela i particolari durante il trattamento: lo psicoanalista lo aggredisce fisicamente. Ciò nonostante Dario si presenta alla seduta successiva e racconta un sogno. Una macchina con a bordo dei killer minaccia di uccidere lui e la sua famiglia. Egli è paralizzato mentre i carabinieri che seguono l’auto, non fanno assolutamente nulla per proteggerlo. Chi rappresentano i killer? L’analista o lui stesso? Mari non contrasta l’idea che il potenziale assassino sia Dario. Un’altra intepretazione del sogno verrà suggerita durante la supervisione settimanale: le teorie freudiane o junghiane e l’analisi non servono a niente, sostiene Mari anzi costringendo a “vedere” ciò che altrimenti non si sarebbe visto, possono rendere le persone più fragili. Come escludere che la responsabilità del suicidio sia imputabile alla “cura”?
Lo sceneggiatore a questo punto si rifà all’idea che la psicoanalisi freudiana possa essere pericolosa: diminuendo le difese e facendo irrompere la realtà inconscia considerata di per se stessa dissociata potrebbe attivarsi un nucleo psicotico con conseguenze imprevedibili come il suicidio. Sappiamo che una delle motivazioni è la conferma di un delirio di incurabilità che deriva dall’incapacità del terapeuta: contrapporre a un acting out, quello di Dario, un altro acting out, l’aggressione fisica della fiction, è quanto di più sbagliato si possa fare dal punto di vista della terapia. In treatment non parla pertanto del successo della psicoanalisi ma del suo fallimento e del pericolo insito nell’affrontare la malattia mentale senza una adeguata formazione e preparazione teorica. Il dottor Mari non solo potrebbe essere ritenuto responsabile del suicidio di Dario ma anche del fallimento della terapia di Sara che viene interrotta. Lo psicologo confessa di essersi innamorato della sua paziente al cui transfert erotizzato non riesce a resistere: ma in virtù di cosa la “ama” dato che la donna aveva colluso, in una “associazione a delinquere”, con Dario nel tentativo, riuscito, di distruggere lui e la sua identità professionale? Il dottor Mari appare molto confuso e la sua vita privata è ridotta a pezzi: ciò è imputabile a gravi carenze dell’identità umana con conseguente inadeguatezza formativa.
Antonino Ferro, il presidente della Spi, ha recentemente sostenuto che è auspicabile una psicoanalisi senza Freud: con chi lo sostituiamo? Con Winnicott che riteneva che la terapia è un “gioco”? Con Jacques Lacan? oppure procediamo per tentativi? Massimo Recalcati, lacaniano doc, ha commentato In treatment facendo notare che nel setting è assente il lettino e l’inconscio. In realtà la vera assenza è quella dell’analista che interpreti i sogni e sia in grado di comprendere l’inconscio. Recalcati su Repubblica, ha scritto che la violenza è parte ineliminabile della natura umana e che siamo tutti criminali come suggerito dal film di Oliver Stone Natural born killers.
L’antitodo alla criminalità sarebbe l’accettazione del fallimento cioè della “castrazione” come presupposto, secondo il dettato lacaniano, dei processi di “simbolizzazione”. Se i “simboli” sono quelli della verbalizzazione vuota e ossessiva di In treatment se ne può fare tranquillamente a meno visti i risultati. Affinché sia possibile una psicoterapia che affronti la psicosi è necessario opporsi ai «killers» del sogno di Dario. Bisogna rifiutare l’antropologia freudiana (e cristiana) di Totem e tabù (1914) riconfermata in Al di là del principio del piacere (1920): all’origine della civiltà ci sarebbe un atto criminale l’omicidio del padre primigenio da parte del gruppo dei figli-fratelli. Saremmo tutti potenzialmente criminali perché discendiamo da criminali e abbiamo in noi «l’istinto di morte». Se l’uomo è kantianamente un «legno storto», la psicoanalisi non potrà portare a altro che all’equilibrismo di chi sarà sempre esposto al rischio di precipitare nell’abisso del delitto e della colpa. Recalcati nel libro Il complesso di Telemaco: genitori e figli dopo il tramonto del padre (Feltrinelli) sostiene che come figli siamo stati tutti Telemaco, abbiamo aspettato il ritorno del padre. «Telemaco, diversamente da Edipo e Narciso che sono dei senza-nome, si nutre del Nome. Fa esistere insieme a Penelope il Nome del Padre. In questo egli è sulla stessa linea di Gesù (!?) è il figlio che fa esistere il padre». Ma a che prezzo? Ulisse è stato considerato il prototipo del criminale di guerra per l’inganno perpetrato a Troia. Il figlio diventa anche lui un criminale: insieme al padre, nell’Odissea, organizza un omicidio di massa per restaurare l’autorità regale. Nella strage muoiono 105 Proci. Il gesto apparve un’enormità anche nell’Antica Grecia, avvezza a crimini efferati. Secondo la Telegonia Ulisse fu processato e esiliato per ben dieci anni, mentre Telemaco, divenuto Re sposò Circe: dietro il figlio-Telemaco, che attende il ritorno del padre riappare il figlio-Edipo, che vuole mettersi al posto del padre. Per la psicoanalisi secondo la quale nell’inconscio è presente l’“uomo” della tragedia greca, non ci sarà mai nulla di nuovo sotto il sole.
http://www.left.it/2013/05/23/mal-trattamenti-psicoanalitici/10417/
CHI L’HA DETTO CHE SUL LETTINO NON È VERO AMORE?
Nell’analisi non ci si limita a ripetere sentimenti antichi, ci si apre anche a sentimenti nuovi
di Umberto Galimberti, D – Repubblica, 25 maggio 2013
Come si fa, al termine di una terapia psicologica, a distinguere un innamoramento reale dal cosiddetto transfert? Si dà sempre per scontato che i sentimenti e gli stati d’animo, positivi o negativi, del paziente nei confronti del terapeuta non siano altro che la riproposizione di affetti infantili, ma non potrebbe, talora, essere diverso? La curiosità, l’interesse, il coinvolgimento che ho provato,
e provo, verso il mio dottore sono, per me, sentimenti del tutto nuovi e sconosciuti, difficili da ricondurre a qualsivoglia esperienza precedente. Musatti, nel suo Trattato di psicoanalisi scrive: “Non c’è bisogno che un individuo intraprenda un trattamento psicologico perché si provochino in lui fatti di traslazione affettiva” e conclude che “il fenomeno della traslazione domina tutta intera la vita affettiva”. Perché, dunque, preoccuparsi di questo solo nel caso di un rapporto terapeutico? Preciso che la mia cura è finita, ma io non faccio che pensare, più di prima, al “mio” dottore e dubito fortemente di poter incontrare nella vita “reale” un uomo che provochi in me uno stesso dolce sconvolgimento. Lettera firmata
Io ho sempre avuto delle difficoltà a comprendere il concetto di “transfert”o “traslazione” che dir si voglia, perché per immaginare che un sentimento d’amore si stacchi, ad esempio, dal padre per “trasferirsi” nel corso del trattamento analitico sull’analista, devo ritenere che i sentimenti esistono in sé a prescindere dalle cose o dalle persone a cui si riferiscono, perché solo così possiamo pensare a un loro “trasferimento”.
In realtà, come il mondo della vita ci insegna, i sentimenti sono la risonanza emotiva che una certa cosa o una certa persona determinano nella nostra anima, e proprio perché sono sempre così specifici, non vedo come possano “trasferirsi” da una cosa o da una persona all’altra.
Freud ha costruito un’immagine della psiche, da lui chiamato “apparato psichico”, sul modello della fisica, assunta come modello di lettura dei fatti biologici, e della biologia del suo tempo come modello di lettura dei fatti biografici. È lui stesso a dichiarare questa impostazione là dove, ancora insoddisfatto, scrive: «Probabilmente le carenze della nostra esposizione scomparirebbero se fossimo già nella condizione di sostituire i termini psicologici con quelli della fisiologia o della chimica». Se non che, a differenza degli oggetti della fisiologia e della chimica, che esistono autonomamente, i sentimenti esistono in relazione alle cose e alle persone a cui si riferiscono. In una parola non sono “cose”,ma “atti intenzionali”, che cioè “tendono” alla cosa o alla persona che li suscitano, senza le quali i sentimenti non sorgerebbero.
Venendo alla questione che lei pone, Ludwig Binswanger in un suo saggio scrive: «Nell’atteggiamento del paziente verso il medico, Freud vedeva soltanto una ripetizione regressiva di “investimenti oggettuali”, prevalentemente diretti verso i genitori e anteriori da un punto di vista psicobiologico, escludendo completamente la novità di questo incontro. In questo modo egli fu in grado di mettere in secondo piano il medico in quanto uomo, facendogli svolgere il suo ruolo tecnico assolutamente indisturbato dall’elemento personale, come per il chirurgo o il radiologo”. In questa visione meccanicistica ciò che si trascura è il fatto che l’incontro con il medico è terapeutico non perché il paziente ripete regressivamente gli itinerari consueti dei suoi “investimenti oggettuali”, ma perché, forse per la prima volta, nel nuovo incontro, ha la possibilità di abitare una nuova visione del mondo dischiusa dall’analisi.
Ha quindi ragione Musatti là dove dice che ogni evento d’amore, se vogliamo adottare il linguaggio psicoanalitico, è un transfert,ma subito occorre aggiungere che ogni transfert altro non è che un evento d’amore.
Del resto in analisi la cura non passa solo attraverso la tecnica, ma soprattutto attraverso l’amore, che non è un evento tecnico come le parole “transfert e “controtransfert” vorrebbero far intendere. Quanto poi al fatto che lei dubita di poter incontrare nella vita reale un amore più grande di quello che oggi prova per il suo analista è perché la sua anima oggi è occupata da lui. Ma quando la figura dell’analista si congederà dalla sua anima, questa diverrà disponibile per altri amori anche più grandi,perché forse, proprio grazie all’analisi, lei ha aperto il suo cuore e ha imparato ad amare.
http://periodici.repubblica.it/d/
SE IL PADRETERNO VA IN CRISI DI AUTOSTIMA
di Redazione, ilgiornale.it, 26 maggio 2013
Sulle radici israelitiche della psicoanalisi si è scritto molto, soprattutto tra gli anni ’60 e i ’70. Poi a rammentarci che Sigmund Freud era inequivocabilmente ebreo, e che la scienza alla quale ha dato inizio è impregnata di memorie dell’Antico Testamento, ci si è messo il teatro. Nel 1993 a Parigi fece scalpore Il visitatore, una pièce di Erich-Emmanuel Schmitt nella quale all’autore della Interpretazione dei sogni, in una Vienna ormai occupata dai nazisti, appariva nientemeno che Dio (interpretato da Kim Rossi Stuart nella versione italiana) con lo scopo di erodere le certezze positivistiche dello scienziato. In Oh Dio mio!, lo spettacolo in cartellone al Litta fino a domenica con la regia di Nicola Pistoia, è la divinità invece a non avere quasi più sicurezze. Protagonista della drammaturgia scritta da Anat Gov (celebre autrice televisiva israeliana, attivista di Gush Shalom e firma del prestigioso quotidiano Yedioth Ahronoth) è Ella, una psicanalista di successo, madre single e non più giovane di un ragazzo autistico. Un giorno riceve una telefonata da un misterioso signor D, un individuo profondamente depresso che chiede con insistenza di essere ricevuto. Sotto quella lettera dell’alfabeto si cela proprio lui, l’artefice della Creazione, che tuttavia è così deluso dalla sua opera da essere tentato di porvi fine. Ella (che in questo allestimento prodotto dalla compagnia Attori & Tecnici del Teatro Vittoria di Roma è interpretata da Viviana Toniolo) ha a disposizione i canonici 50 minuti di una seduta di analisi per fargli cambiare idea. In quell’arco di tempo però, oltre ad affrontare i turbamenti del paziente, non manca di sfoderare le sue perplessità di intellettuale laica. Tra crisi di autostima di Dio, deliri di onnipotenza dell’uomo, recriminazioni della psicanalista che, in quanto donna ed ebrea sa di essere doppiamente discriminata, i 50 minuti, ricolmi di divagazioni e ironia yiddish, rischiano di trascorre in fretta e di non sortire alcun esito. Se non fosse per l’intervento del figlio di Ella: una semplice parola in grado di riportare il livello del discorso a quel legame di affetto e di reciproca dipendenza che caratterizza il rapporto tra dio e l’uomo.
http://www.ilgiornale.it/news/milano/se-padreterno-va-crisi-autostimateatro-litta-920773.html
PERCHÉ FREUD È UNA LEGGENDA
di Alessandro Pagnini, Il Sole 24 Ore, 26 maggio 2013
All’Università di Vienna, nel 1916, davanti all’uditorio che ascolta la sua diciottesima lezione di introduzione alla psicoanalisi, Sigmund Freud si canonizza.
Dopo Copernico, che inferse la prima delle grandi mortificazioni all’amore di sé dell’uomo, sino ad allora convinto di un posto centrale e privilegiato nell’universo, e dopo Darwin, che gli tolse anche il vanto di un’origine speciale e nobile nel creato, la psicologia nega ora all’io di essere «padrone in casa propria».
Il riferimento è esplicito alla «scoperta dell’inconscio» e al modo “energico” con cui la psicoanalisi, forte di evidenze empiriche e di spregiudicatezza accademica, la sta eroicamente difendendo contro tutti. È l’enunciazione di quella che già Henri Ellenberger e Frank Sulloway avevano stigmatizzato chiamandola «leggenda freudiana»: l’affermazione perentoria da parte di Freud del carattere rivoluzionario e epocale della psicoanalisi, la denuncia delle ostilità feroci e delle “resistenze” irrazionali contro di essa e l’insistenza sulla «forza morale» necessaria ad affrontarle, infine la negazione di validità ad ogni teoria rivale e la “dimenticanza” di qualsiasi debito e riconoscimento verso il passato della psicologia e della psichiatria.
Perché “leggenda”? Ce lo mostrano uno storico (Shamdasani) e un letterato (Borch-Jacobsen) già autore di numerosi saggi di argomento psicoanalitico, compresa un’ottima monografia su Lacan (trad. it. Einaudi, 1999), aggiornando un lavoro già uscito in Francia sette anni fa e ora pubblicato in una nuova versione in inglese e tradotto in italiano: “una leggenda è una storia pensata per essere ripetuta meccanicamente, in modo quasi inconsapevole, come le vite dei santi recitate nelle preghiere mattutine dei conventi medievali”.Ma non è detto che sia una litania sempre uguale a se stessa. Anzi, la sua vitalità e durata nel tempo consiste proprio nell’avere una “struttura aperta”, capace di adattarsi ai più diversi contesti culturali (della leggenda freudiana ne esistono versioni positiviste, esistenzialiste, ermeneutiche, freudomarxiste, narratologiche, cognitiviste, strutturaliste, femministe, decostruzioniste, fenomenologiche e oggi anche neuroscientifiche), pur di mantenere, però, la sua identità nell’idea che la creazione di Freud sia stata un evento senza precedenti e un’acquisizione irreversibile. Eppure, proprio mentre Freud si assegnava pubblicamente un posto, scomodo ma decisamente “rivoluzionario”, nella storia dell’umanità, altre psicologie, di Wundt, di Brentano, di Ebbinghaus e di William James, ambivano al rinnovamento della loro disciplina (curiosamente con analoghi riferimenti alle grandi rivoluzioni della scienza) e al suo collocarsi tra le scienze con programmi di ricerca che, se non fossero stati delegittimati dall’impero del paradigma psicoanalitico, avrebbero accelerato altri percorsi (uno dei modelli sacrificati e oggi in auge appare chiaramente nel capitolo su «La mente inconscia» del recente Marraffa & Paternoster, Sentirsi esistere, Laterza). Borch-Jacobsen e Shamdasani hanno compiuto un mirabile lavoro di storia della scienza e delle idee, sfatando quella leggenda ancora custodita da censure, da archivi sigillati, da memorie ad hoc, che fino a oggi ha alimentato pregiudizi e mitologie intorno alle origini e alla “verità” della psicoanalisi. La quale alla fine risulta, per dirla con un efficace termine di Lévi-Strauss ripreso dai due autori, un «significante fluttuante», «che può servire a designare tutto», ma che alla fine è “niente” («non è mai esistita” e “in un certo senso, non esiste più»): un’unità senza identità, stabilita solo da una propaganda sin dagli inizi truffaldina e censoria, consolidata attraverso la patologizzazione e la colpevolizzazione degli avversari, e più spesso tramite millanterie scientifiche senza fondamento.
Ma se il Dossier Freud ci mostra quanto la psicoanalisi (e magari più per colpa di Freud che non di uno Jung, per esempio) sia «vulnerabile alla sua storia», il recente lavoro revisionista radicale di Ffytche sulle fonti dell’inconscio psicoanalitico compie il passo ulteriore di scavare nelle idee romantiche e nell’idealismo postkantiano per far luce sugli impliciti, anche morali e “politici”, di concetti centrali nelle teorie di Freud quali quelli di inconscio e di rimozione. Per Ffytche, tra gli inizi dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, teorie filosofiche del soggetto e teorie della psiche si intrecciano, e l’inconscio diventa, sì, oggetto di ricerca empirica, ma insieme anche una soluzione ai dilemmi legati allo statuto “ontologico” dell’individuo e al problema della sua libertà. Dall’Io di Fichte, alla “psiche” di Schelling, all’apparato psichico di Freud (non a caso da lui ancora indicato col termine Seele, comune alle filosofie idealiste) si verifica un progressivo distacco da una concezione assoluta e teologica del mondo, fondante la vita individuale, ad un’immagine di strutture che governano l’individuo come un’unità indipendente.
Detto in breve, Ffytche, riprendendo delle intuizioni di Odo Marquard e di Foucault (e, avrei aggiunto, di Tugendhat), intende dimostrare la stretta relazione tra l’invenzione di un inconscio psichico e il gran clamore, in epoca romantica, intorno alla definizione di un soggetto autonomo, autodeterminato, che diventerà poi particolarmente significativo relativamente a certe forme di ideologia liberale e di individualismo filosofico. E qui non si tratta di reperire delle “linee di influenza” che soddisfino un interesse meramente antiquario su quello che è successo prima di Freud; bensì di comprendere la funzione ideologica del concetto di inconscio, con tutto quello che si porta dietro relativamente ai problemi dell’individualità e dell’autonomia, in modo da illuminarci anche sul senso delle nostre teorizzazioni attuali.
http://www.ordinepsicologilazio.it/h_rassegna_stampa/h_dicono_di_noi/pagina664.html
Genitori, non spaventatevi
di Redazione, Noi -Avvenire, 26 maggio 2013
La psicoanalista Marta Badoni spiega quale comportamento tenere di fronte al disagio dei figli. «Non colpevolizzatevi, ma create uno spazio di dialogo in famiglia». L’aumento delle separazioni e la crisi economica ha fatto esplodere la situazione, che gli specialisti osservano con preoccupazione.
«Non ha voglia di giocare. Mangia poco. Sembra svogliato. Sarà malato?». Spesso quando i figli manifestano disagio i genitori si spaventano e cercano di scaricarsi la “colpa” l’un l’altro. «Niente di più sbagliato», osserva Marta Badoni, neuropsichiatra infantile e tra i fondatori dell’Osservatorio del bambino e dell’adolescente del Centro milanese di psicoanalisi “Cesare Musatti”, che invece suggerisce a mamme e papà di «osservare attentamente il comportamento dei propri figli, aprendo spazi di dialogo e confronto in famiglia».
Quali comportamenti devono maggiormente allarmare un genitore?
Variano a seconda dell’età. Se un bambino di scuola elementare rifiuta di giocare con gli altri, tende a isolarsi molto, può avere delle paure immotivate o manifesta disturbi del sonno, significa che non sta bene. Per quanto riguarda bambini più piccoli, ci si deve allarmare se non sono curiosi, se non hanno voglia di esplorare il mondo, se sopportano con troppa fatica i piccoli cambiamenti come può essere lo spostamento anche di un pasto, o l’allontanamento momentaneo di un genitore. È importante anche la salute fisica del bambino e la sua resistenza alle malattie.
Quanto influisce il “clima” familiare su queste patologie?
Influisce sicuramente in positivo e in negativo. Lo spartiacque è la possibilità, da parte dei genitori, di riconoscere le loro tensioni e di non cercare ad ogni costo di nasconderle, perché questo disorienta i bambini. I bambini si accorgono benissimo quando c’è qualcosa che non va tra i genitori. Però se questi continuano a dire che va tutto perfettamente bene, i piccoli si sentono non confermati nelle loro percezioni e in quello che provano.
Quanto “pesano” le separazioni dei genitori, sempre più frequenti, sul benessere dei figli?
La facilità con cui oggi le famiglie si sciolgono crea dei problemi che stiamo osservando nella fatica, soprattutto nell’adolescenza, di tanti ragazzi a trovare la loro strada nella vita.
La separazione dei genitori quali ripercussioni ha sulla crescita dei figli?
Può generare una certa paura di esprimersi. I bambini si fanno carico della situazione, come se fosse colpa loro e possono essere sommersi da sensi di colpa, anche se non c’entrano niente. Perciò possono fare di tutto per cercare di favorire una riappacificazione dei genitori. E questo li rende, allo stesso tempo, molto fragili e molto potenti.
Come si devono comportare i genitori di fronte alla sofferenza di un figlio?
Prima di tutto non si devono spaventare né devono scaricarsi l’un l’altro la “colpa”. Devono imparare a osservare quello che succede nelle loro famiglie e ad osservarsi. Osservare le loro reazioni quando i figli si comportano in un modo piuttosto che in un altro. E non è fondamentale che i genitori abbiano sempre la stessa idea su tutto ma possono anche avere idee divergenti. L’importante è che se ne possa parlare.
Come si deve comportare una mamma? E un papà?
I bambini più piccoli sono più in contatto con la mamma, anche se è estremamente importante che il padre ci sia. Non facendo la mamma, ma con una presenza terza che aiuti e protegga il rapporto madre-bambino che, soprattutto all’inizio, è così delicato. Il papà è molto importante per il gioco, per la sicurezza, per l’esplorazione del mondo. La madre è una base sicura, è quella che mette insieme il pranzo con la cena. Anche se lavora tutto il giorno, al momento buono la madre c’è sempre.
Quali sono gli atteggiamenti migliori per aiutare il figlio malato?
Penso che l’atteggiamento migliore sia proprio quello di non spaventarsi, di non colpevolizzarsi, di non colpevolizzare i figli, ma creare uno spazio in cui queste cose possono essere dette e osservate.
Quanto influisce la crisi economica sul disagio psichico delle famiglie?
La crisi influisce molto, perché genera un grande senso di insicurezza. Il lavoro è importante per dare alle persone il senso della loro dignità e uno scopo nella vita. E questo vale sia per i genitori, quando hanno un lavoro precario, sia per i figli che non vedono prospettive per il futuro. Quanto la situazione economica in casa è delicata, soprattutto tra gli adolescenti sono abbastanza frequenti i ritiri scolastici e il rinchiudersi di questi ragazzi nelle loro camere a chattare e fare giochi di ruolo. Questi casi sono in aumento e si dovrà vedere come la situazione evolverà.
Quali alleanze può attivare la famiglia in queste situazioni? Chi può aiutarla?
Ci sono diversi gradi di aiuto. Si possono avere aiuti “una tantum” per parlare delle proprie difficoltà e si possono avere aiuti più continuativi, che riguardano sia i genitori che i figli o i figli separatamente dai genitori. Le alleanze possono essere molto diverse. Purtroppo oggi credo manchi un’alleanza, che una volta era importante, che è quella scuola-famiglia. Un tempo era un rapporto di rispetto e di collaborazione, mentre oggi i genitori sono sempre pronti a scendere in armi contro la scuola e viceversa. Oggi questa alleanza si è rotta.
Quali conseguenze ha questa rottura?
Genera un senso di insicurezza e di falso potere nei ragazzi, che si rendono conto di poter far correre tutti. E spesso ci riescono.
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3437:disagio-esistenziale-quando-un-figlio-chiede-aiuto-noi-supplemento-ad-avvenire-26-maggio-2013&catid=538&Itemid=353
ADOLESCENTI. QUEI BAMBINI-ADULTI SULLA SOGLIA DEL MONDO
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 30 maggio 2013
Due recenti storie drammatiche di giovani ci insegnano qualcosa di decisivo intorno al tema della cosiddetta eterosessualità. La prima storia è quella di Davide, il quale sceglie la via della parola per comunicare la sua difficoltà a vivere pubblicamente la propria omosessualità. Egli sceglie la Legge della parola come “alternativa al suicidio”. Diversamente da tanti che non trovano “la parola” e passano all’atto: ultimo il ragazzo di Roma, “deriso” perché gay, che ieri si è lanciato dal terzo piano della scuola, per fortuna senza conseguenze troppo gravi. Invece Davide assomiglia al suo omonimo biblico: la giovinezza gli dà il coraggio di provare, di non fuggire, di gettarsi nella mischia, di rischiare tutto anche se il suo avversario (il pregiudizio omofobo) sembra mostruosamente imbattibile.
Davide si appella pubblicamente all’Altro nella forma di una lettera inviata a Repubblica, manifestando in questo modo la necessità che qualcuno sappia ascoltare il suo grido e gli sappia rispondere. La tentazione mortifera del suicidio è superata dalla forza potente della sua parola. È la parola, ci ha detto, l’alternativa più vera alla tentazione del suicidio. Qual è il dramma di questo ragazzo? Per un verso è quello che attende ogni adolescente. Come abitare un corpo che il trauma della pubertà ha reso nuovo e sconosciuto? Come fare proprio un corpo erotico, sessuale, un corpo che esige la sua soddisfazione pulsionale attraverso altri corpi e che rompe irreversibilmente lo schermo autoerotico del corpo infantile?
Uno dei significati etimologici della parola “adolescenza”, significa “avere un proprio odore”. Mentre il corpo infantile porta con sé il profumo neutro dell’odore di campo (le teste dei bambini hanno tutte lo stesso odore), il corpo dell’adolescente genera nuove forme e, di conseguenza, nuovi odori. La giovinezza è l’età dove ogni corpo acquisisce un odore singolare. La neutralità pacifica del corpo che sa di campo, è alterata da secrezioni strane, più marcate, evidenti, forti, per alcuni genitori rivoltanti, che esigono di essere riconosciute. Non è solo il tempo di una metamorfosi ingovernabile, ma è anche il tempo di una fioritura, di un risveglio di primavera. Il tempo dove il corpo deve saper riconoscere il proprio odore è il tempo della sua massima apertura; non solo dei suoi orifizi pulsionali, ma della vita come tale. La giovinezza esige aria, ossigeno, finestre spalancate, mondi nuovi, oltrepassamento inevitabile della cornice chiusa del familiare. Questo nuovo corpo è sospinto verso l’eterosessualità nel senso che ricerca l’incontro con l’altro corpo, con l’eteros, con il dissimile. Il dramma di cui Davide ci ha parlato è che il suo orientamento sessuale che si dirige verso corpi uguali al suo non sarebbe giudicato eterosessuale dal mondo degli adulti e per questo condannato, schernito, costretto alla clandestinità colpevole anche dai suoi pari.
Una cattiva psicoanalisi ha contribuito (e contribuisce ancora) a questa condanna morale dell’omosessualità ritenuta una vera e propria perversione. Dobbiamo allora provare a rispondere a tutti i ragazzi che come Davide si rivolgono – come giovani Telemaco – ad adulti in grado di saper rivestire il proprio ruolo. È il mondo adulto che ha la responsabilità – culturale ed educativa – di alimentare una falsa rappresentazione dell’eterosessualità fondata sulla differenza anatomica dei corpi (maschile e femminile). Dobbiamo chiederci con tutta l’onestà intellettuale di cui disponiamo: se il legame eterosessuale è un legame con l’Altro sesso, con l’eteros, con l’alterità, siamo davvero certi che sia sufficiente l’eterogeneità anatomica dei corpi a garantirla? O non dovremmo forse pensare che l’eterosessualità indica l’apertura del corpo erotico all’alterità ben al di là della differenza anatomica?
L’eterosessualità non dovrebbe essere considerata ben al di là di una norma morale fondata sulla natura dell’anatomia, come la capacità di costruire un legame tra i sessi (omosessuale, lesbico, “eterosessuale”) che sappia rispettare e amare davvero l’eteros? Siamo così scuri che l’eterosessualità intesa in questo senso sia così presente in tutte i legami cosiddetti eterosessuali? Chiediamocelo: c’è davvero eterosessualità nell’usto feticistico dei corpi come puri mezzi di godimento? C’è davvero eterosessualità in quelle coppie dove l’uomo veste gli abiti di un giudice che decreta senza possibilità di ricorso alcuno, la morte violenta del suo partner? Dov’è in questi casi l’amore autenticamente eterosessuale?
Se prendiamo questa versione dell’eterosessualità come rispetto e amore per l’alterità, possiamo dedurre che nei legami omosessuali potremmo certamente incontrare una patologia perversa – come del resto nelle coppie cosiddette eterosessuali –, ma solo quando il godimento del corpo si spinge verso l’abisso mortale di una appropriazione che diventa distruzione di sé e dell’altro.
Ecco allora apparire la seconda storia. Quella di D.M., il giovane imperturbabile assassino di Fabiana. È un secondo grande tema dell’adolescenza. Non solo come abitare un corpo nuovo e il suo odore, ma come incontrare il corpo dell’altro, la vita dell’altro. L’incontro con l’altro è fonte di sorpresa e di vita, di entusiasmi e di aperture, ma è anche fonte di angoscia e di mortificazione, di terrore e di violenza. La giovinezza è il tempo dove la vita è esposta ai buoni e ai cattivi incontri perché la famiglia non può più proteggere la vita che cresce e che giustamente rivendica il suo desiderio di aria. Di fronte alla contingenza aleatoria dell’incontro gli adolescenti possono oscillare tra gli estremi di rapporti simbiotici, fusionali, vincolanti e l’indifferenza disincantata e cinica di fronte all’amore. Il caso di DM è il caso di una violenza cieca che reagisce alla frustrazione non imboccando la via della parola, ma la quella atroce della vendetta spietata.
Se in Davide la Legge della parola appare come la sola alternativa giusta al suicidio, in DM non c’è appello all’Altro, non c’è invocazione degli adulti. Il figlio non sa essere figlio ma si nomina follemente giudice. Il fanatismo del possesso assoluto lo porta a rivendicare un diritto inesistente di proprietà. Accade sempre – nella vita individuale e in quella collettiva – quando la violenza trionfa. Deve allora bruciare il suo corpo che straziato dalle coltellate supplica pietà. Sente di doverlo fare e non solo per cancellare le tracce del delitto, ma per poter verificare l’inesistenza dell’eteros, dell’alterità che solo una donna sa custodire così intimamente. Per questa ragione Lacan poteva affermare che «l’amore eterosessuale è sempre l’amore di una donna». I genitori di Davide sono presenti e invocati nella lettera che preferisce scrivere in alternativa alla morte. Non conosco la vita di DM. Mi chiedo solo se ha incontrato testimonianze dell’amore per l’eteros. È certo: DM non conosce la Legge della parola, ha scelto la violenza bruta e omicida, non sa amare, ha profanato l’eteros della donna.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/05/30/adolescenti-quei-bambini-adulti-sulla-soglia-del-mondo.html?ref=search
Video: BERSANI E LA PSICOANALISI
Brano dell’intervista di Giovanni Floris a Pierluigi Bersani, Ballarò, rai.tv, 28 maggio 2013
Bersani a Ballarò: “Non ho mai avuto bisogno di un psicanalista, ho fatto tutto quello che dovevo fare. Potrò ancora dare una mano se riuscirò a far capire bene quello che ho fatto. Il PD è l’unica speranza per questo Paese”.
http://www.youtube.com/watch?v=1Cw3FSb7YHk
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