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Giugno 2013 I – Politica e infanzia, Lacan e Jung, manifesti per la psicoanalisi

19 Giu 13

A cura di Luca Ribolini

Il «paese reale» che non c’è
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 1 giugno 2013

La crisi della classe politica italiana ha creato un vuoto che fa da richiamo per apprendisti stregoni di ogni tipo. La fuga dalla realtà (nell’ambito della quale ogni cosa fa brodo) è presentata come riavvicinamento al «paese reale», che, a dire il vero, nessuno sa dove sta e cosa sia. È legittimo sospettare che il «paese reale» non sia mai esistito, che sia da sempre un concetto retorico (corrispondente a un’entità immaginaria, astratta) con cui ognuno può designare il paese che gli aggrada. Rappresenta di più la società italiana quel terzo del paese che nelle ultime elezioni politiche ha seguito Berlusconi, quel terzo che ha tifato per Grillo o quell’altro che ha sostenuto il centrosinistra? È più reale la metà del paese politicamente più attiva, il nocciolo duro che non si astiene dal voto e tende a premiare il centrosinistra o la metà più disimpegnata che quando vota va nella direzione opposta? Il concetto di «paese reale» è una mistificazione: obbedisce all’esigenza psicologica di identificare narcisisticamente la propria rappresentazione delle questioni che affliggono tutti con una supposta realtà autentica e incontaminata del paese (individuata nei suoi problemi «veri»). In questo modo la difficoltà di trovare soluzioni si trasforma nell’appagamento morale, e ansiolitico, che si ottiene immaginando di essere dalla parte giusta. La denuncia si dissocia dalla definizione di proposte costruttive e la reazione dei cittadini alla crisi è deviata verso il miraggio di un’Italia sana (che ciascuno immagina a modo suo) che, tradita dai suoi politici, non ha bisogno di altro se non di liberarsi di questi parassiti. Si perde la complessità dei conflitti negati, e la profondità delle ingiustizie sociali che impediscono l’uscita da una situazione disastrosa, e si favorisce un’astensione generale dal senso di responsabilità nascosta dalla protesta. Lo scollamento dalla vita della «gente comune» non è una malattia della politica estranea a resto del paese: riflette implacabile una crisi globale. Un paese in crisi non può immaginarsi diverso da ciò che è, dovrebbe comprendere che c’è qualcosa che non va nel riconoscimento e nella rappresentazione dei suoi problemi. Appellarsi ai bisogni reali dei cittadini (e ce ne sono tanti) non serve perché questi bisogni non possono essere affrontati come cosa a sé, come l’essenza dell’identità del paese. Un soggetto collettivo (come un singolo individuo) non é la somma dei suoi bisogni e beni ma il suo modo di concepirli e di gestirli. Dovrebbe avere una propria visuale su come le cose potrebbero essere, senza limitarsi a inseguire il loro puro accadere, costruire una propria cultura di vita che non nega le contraddizioni di cui è fatta ma cresce attraverso la loro tensione. Il paese è il comune sentire e sapere sulle potenzialità creative e sui desideri che si possono sprigionare dai nostri bisogni; altrimenti i bisogni diventano fatti concreti, urgenze da tamponare in modo impulsivo seguendo ricette regolarmente fallimentari.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130601/manip2pg/14/manip2pz/341143/manip2r1/thanopulos/ 

Jacques Lacan, l’inconscio visto da vicino
di Luciana Sica, Repubblica, 2 giugno 2013

Se gli Scritti usciti negli anni Settanta dicono “come” funziona l’inconscio, gli Altri scritti che Einaudi pubblicherà in settembre dicono “perché” funziona in quel modo: «Lacan mette in chiaro qual è il motore dell’inconscio che consente ai sintomi quelle infinite ripetizioni che sono la delizia e lo strazio degli esseri umani».
Sarà anche dubbio che Lacan “metta in chiaro” qualcosa, spesso somiglia tanto a un ossimoro, ma è così per Antonio Di Ciaccia, l’analista che ha legato il suo nome alla traduzione e alla cura dell’opera lacaniana in Italia. L’uscita degli Altri scritti, più di seicento pagine, è attesa perché – a differenza dei Seminari sono testi redatti di pugno dal maestro francese, sempre lettissimo da studiosi (non solo analisti) di ogni parte del mondo. E per le “chicche” che contiene, dall’inaugurale Discorso di Roma del ’53 a Lo stordito, un vero e proprio compendio teorico, fino alle riflessioni sulla capacità (o meno) dell’analista di decifrare le formazioni dell’inconscio. Altri testi riguardano filosofi come Merleau-Ponty e scrittori, da Wedekind a Marguerite Duras. E Joyce, naturalmente. La scrittura è discontinua, si passa da uno stile barocco, prolisso, involuto – “alla Bossuet”, dice il curatore – a un linguaggio scarno, essenziale, costruito con precisione millimetrica.
Sono gli Altri scritti lo spunto iniziale per un libro-intervista che Di Ciaccia firma con Doriano Fasoli, una conversazione imbevuta di lacanismo sin dal titolo enigmatico – Io, la Verità, parlo (Alpes), anche con il rischio che la citazione si presti all’equivoco. Né Lacan infatti né chiunque altro – forse con l’eccezione del Figlio di Dio – può arrogarsi la pretesa di rappresentare la Verità, che pure esiste e quando “parla” lo fa sempre in prima persona e va anche presa per buona. Gli analisti lo sanno, e proprio per questo lasciano parlare il paziente che dice “tutto quello che gli passa per la mente”, obbedendo alla regola freudiana dell’associazione libera, il carburante essenziale perché il motore inconscio si metta in funzione. La Verità “parla” allora attraverso il paziente, che dice di amare una persona e qualche minuto dopo di detestarla: solo all’apparenza una contraddizione, visto che tutte e due le affermazioni sono vere.
A dispetto del titolo, il volume è di segno divulgativo, fedele all’impostazione di Fasoli che sin dalle prime righe della prefazione ne chiarisce il senso: «Avevo desiderato rendermi conto se un sapere così complesso come quello di Lacan non rimanesse una pura elucubrazione sulla scoperta freudiana, ma potesse diventare veramente linfa per uno psicoanalista nel suo lavoro quotidiano».
Di Ciaccia asseconda il suo intervistatore, spiegando in modo accessibile questioni anche molto complesse: cos’è un’analisi nell’indirizzo di Lacan e che differenza c’è tra una psicoanalisi e una psicoterapia, quando inizia davvero un’analisi e in che modo l’analista investito dall’amore transferale del paziente, dovrà ben guardarsi dal farne uno strumento di potere. O anche come valutare che l’analisi sia conclusa in modo valido, e sempre “uno per uno”, magari con la riscoperta di una capacità più inventiva di stare al mondo. L’elemento personale affonda nei ricordi che l’autore insegue con sapore nostalgico. Sono tanti gli aneddoti legati alla sua lunga e intensa frequentazione di Lacan. Ma qui Di Ciaccia tira in ballo anche un altro genere di affetti: «In fondo – mi dice – un libretto così antiaccademico è nato tanti anni fa quando, viaggiando in macchina, i miei due figli allora adolescenti approfittavano di quel nostro tempo insieme e del sonno della madre per farmi delle domande che avevano a che fare con la psicoanalisi. In realtà, facendo finta di niente, mi chiedevano chiarimenti sui problemi che a quell’età li assillavano. E io, facendo altrettanto finta di niente, rispondevo usando nel modo più semplice l’insegnamento di Lacan… Credo però che rimarranno inedite le parti più salienti di quelle “lezioni”, come le chiamavano loro, con ironia».
Io, la verità, parlo. “Lacan clinico” di Antonio Di Ciaccia e Doriano Fasoli, alpes, pagg. 92, euro 12.

http://www.scribd.com/doc/145207234/Jacques-Lacan-l%E2%80%99inconscio-visto-da-vicino-La-Repubblica-02-06-2013 

L’idea che di noi hanno i più piccoli
di Massimo Ammaniti, la Repubblica, 5 giugno 2013

La percezione sociale dell’infanzia si è profondamente trasformata, com’è confermato dall’approccio educativo di oggi che tende alla comunicazione col neonato praticamente fin dalla nascita. Eppure per molti secoli l’immagine del lattante è rimasta inalterata, quasi congelata, come ci ricordano gli infanti avvolti dalle fasce nei medaglioni di ceramica dell’Ospedale degli Innocenti a Firenze. Vigeva infatti una diversa tradizione educativa, il lattante non doveva essere esposto a stimoli troppo forti, protetto dal velo della culla che sembrava prolungare l’ambiente materno della gravidanza, un piccolo fantolino, come scrive Svevo ne La coscienza di Zeno rievocando la propria infanzia in fasce.
Dopo la Seconda guerra mondiale ha preso corpo una diversa immagine del neonato, molto diversa dalla metafora dell’uovo usata dallo stesso Freud per descriverne la condizione. Un contributo decisivo è venuto dalla ricerca in campo infantile che ha mostrato come il neonato di poche ore sia già in grado di interagire con le persone che si prendono cura di lui. Anche sul piano cerebrale, si è visto che il suo cervello ha quasi lo stesso numero di neuroni degli adulti, anche se le connessioni non si sono ancora sviluppate, come poi avviene nel primo mese di vita con un’iperproduzione di sinapsi legata all’apprendimento e all’interazione fra l’ambiente e l’espressione genica. Ma i bambini di pochi mesi sono anche in grado di avere la coscienza percettiva di quello che vedono? A questa domanda quasi impossibile hanno cercato di rispondere un gruppo di neurobiologi francesi e danesi con una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista Science.
È difficile capire se abbiano la coscienza di quel che vedono perché a differenza degli adulti non sono in grado di esprimere con le parole quel che provano, anche se ora vengono utilizzati altri mezzi di indagine, come ad esempio le tecniche di visualizzazione del cervello.
Anche in età adulta la comprensione dei meccanismi cerebrali che sostengono i processi di coscienza costituisce ancora oggi un enigma irrisolto dalla neurobiologia, nonostante lo studio della coscienza abbia molte implicazioni in campo clinico, ad esempio nell’anestesia oppure nel coma. Il neurobiologo francese Dehaene ha proposto un modello teorico per spiegare il funzionamento della coscienza: un’informazione diverrebbe cosciente quando stimola il coinvolgimento globale del cervello, ossia sistemi cerebrali multipli.
Ritornando ai bambini di pochi mesi, anche la psicoanalisi ha ipotizzato che intorno ai 6-7 mesi inizi una prima consapevolezza della differenza fra sé e i genitori, ossia un senso di separatezza secondo l’analista americana Margaret Mahler. Va tuttavia ricordato che molte ipotesi psicoanalitiche sulla mente infantile sono state criticate perché ritenute letture ricostruttive troppo condizionate dall’ottica adulta, che non riconosce la specificità e i tempi di sviluppo del bambino.
E’ comunque inevitabile chiedersi come i ricercatori siano riusciti a studiare il grado di coscienza in bambini di 6 mesi. In questo studio è stato utilizzato un metodo di indagine già sperimentato con gli adulti, mostrando inizialmente un’immagine subliminare di brevissima durata che non viene soggettivamente percepita ed una successiva immagine di più lunga durata che invece ne suscita la consapevolezza percettiva. Con gli adulti quando vengono presentate le due immagini, si è osservata una risposta cerebrale lineare con la prima immagine ed una non lineare con la seconda, che ne confermerebbe per quest’ultima il carattere cosciente.
E’ stupefacente che la stessa risposta sia stata messa in luce fin dal 6° mese: anche i bambini di questa età sono consapevoli di quello che stanno osservando.
Naturalmente questa osservazione richiede ulteriori conferme, ma apre fin da ora un interrogativo filosofico su come si possa studiare la coscienza, ossia l’attività più soggettiva della mente umana, ricorrendo a dei dati oggettivi legati all’indagine neurofisiologica. Forse una conferma della precocità della coscienza percettiva dei bambini può scaturire anche da altre ricerche che dimostrano la complessità del loro funzionamento percettivo-cognitivo. Infatti i bambini di 7-8 mesi sono in grado di riconoscere le finalità e le intenzioni nei comportamenti delle persone con cui entrano in rapporto. Ad esempio, sono in grado di seguire in modo corretto il movimento di un adulto che cerchi di mettere una pallina in una tazza ma sbagli il bersaglio, dimostrando in questo modo che ne capiscono le intenzioni. Addirittura a 12 mesi i bambini sono in grado di prevedere quel che può avvenire intorno a loro utilizzando un pensiero probabilistico: vedendo un oggetto che si muove nella stanza, raccolgono immediatamente le informazioni sulla regolarità, la velocità, la direzione dell’oggetto che si muove e sono in grado di prevederne i movimenti successivi costruendosi delle aspettative, necessarie per vivere in un mondo prevedibile.
Per riprendere il concetto di stati di coscienza non solo nei bambini ma anche negli adulti questi riguardano livelli consapevoli ed inconsapevoli, anche perché molti aspetti della nostra esperienza rimangono “il conosciuto non pensato” secondo lo psicoanalista Bollas. Allo stesso tempo, quando i bambini interagiscono e comunicano con i genitori, possono scoprire nuovi significati relazionali che comportano espansioni diadiche di coscienza in cui si inizia a sperimentare la reciprocità: io so che tu sai che io so.

http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=1YZHJ7&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1 

Se l’Europa unita diventa una terapia psicoanalitica
La paura degli altri, il localismo esasperato sono sintomi di vere patologie trattate anche da Jung
di Luigi Zoja, l’Unità, 6 giugno 2013

L’idea di Europa ha radici che risalgono sino a Erodoto e attraversano le opere di Dante e Goethe, dunque non saranno certo vicende contingenti come la crisi dell’euro a metterla in discussione. La storia di quest’idea ha a che fare sin dalle sue origini con una nozione fondamentale, il pluralismo. Narrare l’Europa significa descrivere il tentativo di condivisione, e quindi di organizzazione, di gestione spesso conflittuale di uno spazio comune da parte di soggetti diversi, che si esprimono con voci diverse e provano desideri diversi. Sotto questo profilo la storia europea si riflette bene nella vicenda assai più breve di una disciplina, la psicanalisi, sorta proprio nel cuore della Mitteleuropa durante il secolo lungo, quello che si è chiuso con la grande guerra e con l’esplosione dei nazionalismi novecenteschi. Grazie a Carl Gustav Jung, infatti, si è compreso che ciascuno di noi è animato da una molteplicità di voci: Jung fece luce sulla nostra natura intimamente plurale, superando il monoteismo materialista della sessualità d’impostazione freudiana. Il pluralismo è dunque, ad un tempo, un concetto politico e psicologico: al pluralismo della nostra psiche corrisponde, o potrebbe corrispondere, uno spazio politico, quello europeo, intimamente polifonico e politeista. Nella mia personale esperienza di vita, ho potuto apprendere a fondo il valore di un autentico pluralismo vivendo e lavorando come psicanalista nel paese federalista per eccellenza, la Svizzera. Negli anni di Zurigo ho capito come per gli svizzeri l’esperienza stessa della cittadinanza rechi con sé un’idea di appartenenza molteplice. Qualcosa di analogo, in fondo, accade anche per il concetto di cittadinanza negli Stati Uniti. Ma in molti altri paesi europei le cose vanno diversamente, perché il feticcio delle identità nazionali cresciuto nel secolo scorso gioca ancora un ruolo di primo piano. È il caso di noi italiani, che siamo stati tra i più convinti europeisti solo finché ci è convenuto dal punto di vista economico, mentre oggi, di fronte alla complessità della globalizzazione e al continuo superamento dei confini che essa impone, ci spaventiamo. E così, di fronte ad un’Unione Europea che è una sorta di sperimentazione su scala ridotta e controllata della globalizzazione, non rispondiamo promuovendo un pluralismo di stampo federalista. Al contrario, reagiamo provando una gran paura, che ci fa chiudere le porte e ripiegare sui localismi e sugli interessi privati. Ebbene, questa chiusura, magari in nome della difesa della sovranità nazionale dalle misure di politica economica imposte dall’esterno, costituisce un problema anche dal punto di vista psicologico: rifiutare di sentirsi pienamente europei corrisponde, sul piano politico, al rifiuto di accettare che anche ciascuno di noi è molteplice, pieno di desideri che, come scriveva Platone, lo tirano in direzioni contrarie. L’intuizione junghiana è che il sintomo nevrotico deriva proprio da una riduzione della nostra complessità. Ciascuno di noi, ad esempio, è naturalmente androgino: ci pensano poi la cultura e l’educazione a incanalare e arginare le nostre pulsioni, portando i maschi a esprimere più aggressività rispetto alle donne, un dato che è ancora vero per l’Italia di oggi e che il femminismo con tutti i suoi sforzi contro le differenze di genere non è riuscito a modificare. La sofferenza e la depressione si generano così, sono un sintomo di parzialità, di riduzione della nostra natura.
Il rifiuto della pluralità dentro e fuori di noi, prodotto in Italia e altrove dalla paura di un mondo complesso, ci chiude a un rapporto autentico e appagante con gli altri uomini e donne che attraversano la nostra vita. Se la morte di Dio annunciata da Nietzsche fece risuonare lo spirito di fine ‘800, oggi è giusto decretare anche la fine di un altro comandamento biblico: l’amore del prossimo. Il prossimo è scomparso, frammentato dalle tecnologie di comunicazione e allontanato come una minaccia. In questo scenario, i cittadini europei immemori della loro pluralità originaria si rendono sempre più disponibili a seguire le sirene dei populismi, che fanno leva sulla chiusura e sulla riduzione della complessità. Ma anche il populismo è legato a una patologia psichica dell’Europa: la paranoia, la follia lucida che ha pervaso il ‘900 e che, semplificando all’eccesso, oggi spinge a dar tutte le colpe agli altri, a inesistenti complotti di Berlino o di Bruxelles.
Un’Europa politicamente più unita potrebbe forse costituirne la terapia, ma oggi ci appare troppo conservatrice e basata sul primato dell’economia.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/06Jun2013/06Jun20139233ed921fdab839bf1dbf2af3f721dc.pdf 

Salvate il dottor Freud. Difendere la psicoanalisi anche dagli psicoanalisti
Dopo il Manifesto di Repubblica, esce un libro firmato da Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia e Zoja
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 6 giugno 2013

Quando sulle pagine di questo giornale nel febbraio del 2012 appariva, grazie ad una iniziativa illuminata di Luciana Sica, un Manifesto in difesa della psicoanalisi sottoscritto da quattro autorevoli rappresentanti delle principali correnti storiche della psicoanalisi (Simona Argentieri, Stefano Bolognini, Antonio Di Ciaccia, Luigi Zoja), un vento di primavera sembrava prendere corpo. Finalmente gli psicoanalisti mostravano di saper fare squadra per difendere la loro disciplina di fronte alle critiche che le venivano mosse, in quella circostanza a partire dalla sua inaffidabilità scientifica e terapeutica nella cura dei bambini autistici.
Si trattava di una polemica feroce che era rimbalzata nel nostro paese dalla Francia. La psicoanalisi veniva schernita, ridotta a una specie di rituale superstizioso o a un ferro vecchio dell’Ottocento e i suoi maestri (in particolare Lacan) ritratti come degli impostori. Non era il primo attacco alla nostra disciplina e non sarà certo l’ultimo, ma, soprattutto, non conteneva niente di nuovo rispetto alle invettive critiche che sin dal momento della sua nascita l’hanno accompagnata nella sua storia: la psicoanalisi non è una scienza, non è una cura efficace, agisce tramite la suggestione, colpevolizza i genitori, imprigiona i pazienti in un legame di dipendenza infinito, non può trattare casi gravi, ecc.
La novità non consisteva dunque nei contenuti della polemica, ma di come — grazie all’intuito di una giornalista attenta alla psicoanalisi —, si potesse utilizzare questo ennesimo attacco per aprire finalmente un dibattito all’interno dei vari orientamenti sul futuro della psicoanalisi nel nuovo secolo. Come lettore interessato avevo accolto con entusiasmo questa novità: finalmente si parlano, provano a cogliere che cosa ci accomuna più di quello che ci divide, finalmente l’occasione per entrare in un nuovo tempo della storia della psicoanalisi italiana, vista l’autorevolezza scientifica e istituzionale dei firmatari del Manifesto.
Quando ho iniziato la lettura dei loro interventi successivi a quella polemica, raccolti ora sotto il titolo In difesa della psicoanalisi da Einaudi, mi aspettavo di trovare un avanzamento del dibattito se non nella prospettiva di una riunificazione critica della famiglia psicoanalitica, almeno di una pacificazione feconda in grado di aprire un confronto su ciò che è ancora davvero vivo nella nostra disciplina e su cosa invece esige di essere rinnovato profondamente.
In realtà in questo libretto non ho trovato molto in questa direzione. Piuttosto una ricapitolazione dei temi già presenti nel Manifesto: rivendicare la psicoanalisi come scienza a statuto speciale, centrata sulla singolarità irriducibile del soggetto, precisare l’importanza dell’intervento clinico della psicoanalisi anche nel trattamento delle patologie gravi come l’autismo, avvertire sui rischi del dilagare dell’ideologia scientista. Solo Stefano Bolognini e Antonio Di Ciaccia si affacciano — anche se lateralmente e solo per un attimo — sul tema che mi aspettavo fosse messo in gioco con più coraggio. Il primo quando afferma che «una certa idealizzazione della psicoanalisi ha nuociuto in primis proprio alla psicoanalisi»; il secondo quando si chiede se «il pericolo maggiore per il futuro della psicoanalisi non venga proprio dagli psicoanalisti».
Ecco finalmente un’apertura critica che ci spinge ad affrontare la responsabilità che ci concerne come psicoanalisti nella crisi attuale della psicoanalisi. È evidente a tutti noi o quasi a tutti, sicuramente agli autori di questo libro, che la psicoanalisi deve poter rispondere con forza persuasiva a un esercito agguerrito e composito di suoi detrattori che va da un certo uso delle neuroscienze alla psicologia cognitivo-comportamentale, dall’egemonia dell’ideologia della valutazione e della misura che vorrebbe rendere tutto calcolabile compresa la vita psichica, alla montata dilagante di psicoterapeuti abilitati all’esercizio della professione senza un valido training personale.
Ma forse è meno evidente riflettere su come la psicoanalisi stessa ha chiuso gli occhi sulle trasformazioni epocali che hanno investito la nostra società, sulle rigidità anacronistiche relative al percorso di formazione dei suoi candidati, sui costi della terapia, sulla possibilità di prendere parola e intervenire attivamente nella vita della città, sulla risposta che può dare alla crisi etica della nostra vita civile, sulle azioni istituzionali per rispondere terapeuticamente ai sintomi provocati dalla precarietà sociale che la crisi economica ha enfatizzato, sulla necessità di creare un fronte culturale comune per difendere la nostra disciplina dal dilagare delle scuole di specializzazione, per lo più sponsorizzate dalle Università, ad indirizzo cognitivo- comportamentale, sul destino dei giovani che si rivolgono a noi per iniziare un processo di formazione lungo e dagli esiti incerti, sulla necessità di vivificare la dottrina attraverso contributi nuovi e originali che non si limitino a ripetere il verbo dei padri.
Chiediamocelo davvero: non c’è forse qualcosa da “rottamare” anche nelle Scuole di psicoanalisi?
In difesa della psicoanalisi di Argentieri, Bolognini, Di Ciaccia, Zoja (Einaudi pagg. 112 euro 10)

http://tortora.iobloggo.com/736/chiediamocelo-davvero-non-ce-forse-qualcosa-da-rottamare-anche-nelle-scuole-di-psicoanalisi

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

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