Tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo, negli imperi coloniali europei si svilupparono lo studio e la cura dei disturbi mentali degli «indigeni», dei «nativi», quello che chiamiamo «psichiatria coloniale». Anche medici e psichiatri italiani si occuparono dell’argomento lavorando o meno in colonia e comunque fuori dall’Europa, e lasciando tracce del loro lavoro e delle loro riflessioni.
L’importanza della conoscenza della psiche indigena*
Giuseppe Penso, medico dell’Istituto Superiore di Sanità, docente d’Igiene tropicale e subtropicale nella Regia Università di Roma, pubblicò sul n. 2 de la «Rassegna Sociale dell’Africa Italiana», 1942, un articolo intitolato La psiche dell’indigeno nello studio medico dell’ambiente coloniale.
In premessa egli afferma che “lo studio psicologico degl’indigeni dovrebbe costituire la premessa indispensabile a ogni intrapresa coloniale” perché “agire in colonia significa agire accanto agl’indigeni, coll’aiuto degli indigeni e, in un certo qual modo, anche a beneficio degli’indigeni”.
Le difficoltà nascono dal fatto che “L’indigeno non pensa come noi, non vede come noi, non mangia come noi; non si creda, per questo che’gli non pensi, non veda e non giudichi. Tutt’altro! I popoli primitivi riflettono su ogni fatto e su ogni avvenimento, anche se nella loro riflessione è semplice e superficiale, ed emettono il loro giudizio sempre logico, se pure di una logica puerile”. […] “il medico […] è chiamato a penetrare nell’intimità della famiglia, deve profondamente conoscere la psiche del nativo per potergli divenire amico ed esercitare, così, con maggiore proficuo la sua missione umanitaria […], facilitare l’applicazione di quelle norme profilattiche indispensabili alla salvaguardia o al miglioramento della salute pubblica. Nello studio medico dell’ambiente coloniale, infatti, l’indigeno ha una importanza fondamentale: esso costituisce la principale fonte di contagio per il bianco e il principale ostacolo alla bonifica sanitaria delle colonie.
*I corsivi sono del redattore.
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