"Se non c'è progressione, allora tutto è inutile", sentenziava il Maestro. Le conseguenze di un principio così drastico sarebbero state la selezione dei casi clinici: i trattabili e i non trattabili. Per questi ultimi non ci sarebbe stata che fine e abbandono.
Ogni psicoterapia necessita di un lavoro in comune fondato sulla sinergia che nasce dal consenso: il loro insieme si chiama "alleanza terapeutica". Perciò, se il paziente rifiuta oppure è incapace di collaborare, insisteva il Maestro, bisogna cessare.
Queste parole mi intimorivano (e, segretamente e a mia insaputa, mi scandalizzavano), perché mi rimandavano l'immagine di Dei il cui tempo non può essere sprecato. Per accedere al Rito, bisogna esserne degni.
Forse non ho mai cessato di essere un paziente, perché a lungo ho sentito su di me la colpa di coloro che non collaboravano. Io offrivo la Conoscenza e quelli non la degnavano di alcuna attenzione. Ma il problema era che, nell'offrire la Conoscenza, sentivo tutto il peso della mia inettitudine.
Matilde fu a lungo silenziosa. Nei suoi confronti provai rabbia per quell'ostinazione che lei oggi non mi perdona di non aver saputo estirpare. Oggi che Matilde, millenni dopo, finalmente parla, mi sento spesso accusato di non averle dato la parola per decenni.
Il silenzio di Sibilla, invece è molto diverso da quello di Matilde: la prima rimaneva muta e corrucciata per tutto il tempo dandomi la sensazione di voler ostentare il proprio rifiuto: di qui la mia rabbia feroce, nettamente distinguibile dall'odio. Quello della paziente era, nel fondo, un silenzio comunicativo, una muta protesta per qualche mio (e altrui) misterioso peccato.
Sibilla rimane in silenzio, affaccendata in compiti solipsistici: canticchiare a bassa voce fra sé, disegnare. Ma sono i compiti di chi è solo in una stanza. Non vuol dirmi niente, dimostrarmi niente: vuol rimanere sola, alla mia presenza negata.
Soltanto al risveglio, mi mostrerà i disegni e scambieremo poche parole. Poi, si reimmergerà nella sua solitudine.
Con lei oggi, per la prima volta ho provato una sorda antipatia, qualcosa che mi ha fatto pensare all'odio. Per molto tempo, mi ero limitato a provare disagio e noia, interrotti soltanto di accessi d'odio omicida per i suoi oggetti, per chi, cioè, aveva tanto orribilmente devastato la sua vita. Ma disagio e noia si accompagnavano a un senso imbarazzante d'ingenerosità, non a rabbia, né a sentimenti consapevolmente ostili.
Non ho mai tollerato di misurarmi con persone chiuse in modi inaccessibili, perché l'atto stesso di curare dev'essere per me fonte di una gratificazione che deriva dal piacere della relazione, e in questo mi sentivo deprivato. Nulla può essere totalmente gratuito; nemmeno ciò che è retribuito dal denaro.
Ma, con buona pace di quello che diceva il Maestro, oggi sento la necessità di ricercare, al fondo dell'assenza di Sibilla con la quale (per motivi a me sconosciuti) ho, nonostante tutto, voglia di misurarmi, un senso. E ciò può richiedere, come nel caso della mia relazione con Matilde, vite intere. Se mi toccherà di prendere il posto del Maestro, non mi stancherò di raccomandare che sia la curiosità (inseparabile dal rispetto), tutto ciò che ci mantiene legati a chi non ne ha alcuna, nemmeno per gli interrogativi che riempiono la mente.
Per questo, il silenzio di chi non si esprime dovrà pure avere un significato. Ed è anche perciò che a tratti si osservano mutamenti inaspettati, persino di fronte a un'apparente immobilità dell'insieme.
Ogni psicoterapia necessita di un lavoro in comune fondato sulla sinergia che nasce dal consenso: il loro insieme si chiama "alleanza terapeutica". Perciò, se il paziente rifiuta oppure è incapace di collaborare, insisteva il Maestro, bisogna cessare.
Queste parole mi intimorivano (e, segretamente e a mia insaputa, mi scandalizzavano), perché mi rimandavano l'immagine di Dei il cui tempo non può essere sprecato. Per accedere al Rito, bisogna esserne degni.
Forse non ho mai cessato di essere un paziente, perché a lungo ho sentito su di me la colpa di coloro che non collaboravano. Io offrivo la Conoscenza e quelli non la degnavano di alcuna attenzione. Ma il problema era che, nell'offrire la Conoscenza, sentivo tutto il peso della mia inettitudine.
Matilde fu a lungo silenziosa. Nei suoi confronti provai rabbia per quell'ostinazione che lei oggi non mi perdona di non aver saputo estirpare. Oggi che Matilde, millenni dopo, finalmente parla, mi sento spesso accusato di non averle dato la parola per decenni.
Il silenzio di Sibilla, invece è molto diverso da quello di Matilde: la prima rimaneva muta e corrucciata per tutto il tempo dandomi la sensazione di voler ostentare il proprio rifiuto: di qui la mia rabbia feroce, nettamente distinguibile dall'odio. Quello della paziente era, nel fondo, un silenzio comunicativo, una muta protesta per qualche mio (e altrui) misterioso peccato.
Sibilla rimane in silenzio, affaccendata in compiti solipsistici: canticchiare a bassa voce fra sé, disegnare. Ma sono i compiti di chi è solo in una stanza. Non vuol dirmi niente, dimostrarmi niente: vuol rimanere sola, alla mia presenza negata.
Soltanto al risveglio, mi mostrerà i disegni e scambieremo poche parole. Poi, si reimmergerà nella sua solitudine.
Con lei oggi, per la prima volta ho provato una sorda antipatia, qualcosa che mi ha fatto pensare all'odio. Per molto tempo, mi ero limitato a provare disagio e noia, interrotti soltanto di accessi d'odio omicida per i suoi oggetti, per chi, cioè, aveva tanto orribilmente devastato la sua vita. Ma disagio e noia si accompagnavano a un senso imbarazzante d'ingenerosità, non a rabbia, né a sentimenti consapevolmente ostili.
Non ho mai tollerato di misurarmi con persone chiuse in modi inaccessibili, perché l'atto stesso di curare dev'essere per me fonte di una gratificazione che deriva dal piacere della relazione, e in questo mi sentivo deprivato. Nulla può essere totalmente gratuito; nemmeno ciò che è retribuito dal denaro.
Ma, con buona pace di quello che diceva il Maestro, oggi sento la necessità di ricercare, al fondo dell'assenza di Sibilla con la quale (per motivi a me sconosciuti) ho, nonostante tutto, voglia di misurarmi, un senso. E ciò può richiedere, come nel caso della mia relazione con Matilde, vite intere. Se mi toccherà di prendere il posto del Maestro, non mi stancherò di raccomandare che sia la curiosità (inseparabile dal rispetto), tutto ciò che ci mantiene legati a chi non ne ha alcuna, nemmeno per gli interrogativi che riempiono la mente.
Per questo, il silenzio di chi non si esprime dovrà pure avere un significato. Ed è anche perciò che a tratti si osservano mutamenti inaspettati, persino di fronte a un'apparente immobilità dell'insieme.
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