‘Si occupano di questioni volgarmente alimentari o aperitive; bevono, fumano, mangiano, (…) Si abbuffano dieci volte più del necessario, bevono dieci volte di più di quanto dovrebbero; non sono altro che apparecchi digestivi’.
L.F. Celinè
Due anziani signori salutano dal cartellone pubblicitario mentre si godono l’assolato panorama di una spiaggia sudamericana nella quale sono arrivati grazie ad un premio della loro formula assicurativa. Non meno vivaci della coppia di pensionati che, fiera, mostra una dentatura marmorea indistinguibile da quella dei loro nipoti. La pubblicità che accompagna le nostre giornate, il linguaggio del capitalismo contemporaneo ( un Altro più conservatore per alcuni aspetti del neo liberismo anni ottanta), testimonia quanto il concetto di salute fisica si sia modificato e dilatato nel corso di poche generazioni. Dai manifesti che ci accompagnano al lavoro e colorano la via delle vacanze sono scomparsi gli acciacchi dell’età, gli uomini stanchi, i nonni finalmente a riposo. Un vigore fisico innaturale sembra essersi impossessato di quella che era chiamata ‘terza età’.
Soltanto una generazione fa le medesime insegne spronavano a consumare in maniera indiscriminata beni che oggi sono pressoché banditi, visibili a mala pena nelle pubblicità serali da fascia protetta, quella del ‘proibitissimo’ di Fantozzi per intenderci. A quel tempo c’era ostentazione di alcolici, superalcolici, sigarette di ogni marca e tipo, viatico necessario per una vita migliore, più completa. Il godimento attraversava i media in maniera trasversale e garantiva uno status sociale, un posto nell’Altro che ancora non si era scoperto cagionevole di salute e pertanto salutista.
Ma non è questa la società del godimento straripante e diffuso che tanti si affannano a denunciare, magari mentre presenziano a sontuosi congressi foraggiati dalle cattive multinazionali spesso messe sul banco degli imputati? Non è questo il tempo del senza legge che fa cadere le dighe che devono proteggere la città dal troppo? Non è questo il tempo del capitalismo selvaggio grondante di merci e cibo che ci ipernutre e ci ricopre a più strati? Lo è sempre meno.
Solo nelle fasce serali, di solito nelle emittenti locali, gli anziani riprendono il loro posto da vecchi: vasche con apertura laterale, trabiccoli elettrici per deambulare e andare a fare la spesa, apparecchi acustici, case di riposo medicalizzate e, finalmente, prive di piscina o istruttori di fitness muscolari.
Nelle sue basse frequenze la lingua del capitalismo riprende gli antichi codici per i vecchi consumatori, ma in modo quasi cifrato, seminascosto. Come nelle bettole nelle quali ancora si usa il dialetto. Quel che prima era ostentato, ora si irradia come i messaggi di Radio Londra: si dice a chi deve sapere, che sa quando sintonizzarsi, senza che si faccia troppo rumore.
La società del capitalismo avanzato ha compreso infatti che il consumatore, per restare tale ad libitum, deve conservarsi il più possibile in buona salute. Da qui nasce l’impulso alla decelerazione del godimento da market, la decafeinizzazione della pubblicità. Messaggi goderecci di aperitivi, tabacchi nazionali senza filtro, salumi piccanti, dolciumi colorati per bambini, sono stati attraversati da una massiccia opera di bonifica ed epurazione dalle forme più vistose del godimento. Le etichette della birra ammoniscono a berla con moderazione o, in alternativa, ne decantano le virtù analcoliche. La scatola di sigarette reca inciso il monito ‘memento mori’, ricordando che il godimento può uccidere. Il dolce, un tempo portatore di zuccheri, è ‘light’. La Cola, della quale mai nessuno ha conosciuto gli esatti ingredienti, si è autodefinita ‘diet’, con implicita ammissione di essere stata un tempo calorica. Il pane è privo di qualcosa, i succhi di frutta mancano di quel tale additivo. Gli insaccati sono senza ‘polifosfati aggiunti’. Mancano cioè di un quid che veniva siringato di default, sino a considerarlo nativo del salume. E oggi, che si vende la mortadella al suo stato naturale, si evidenzia la mancanza di ciò che era aggiunto artificialmente. Il latte manca di lattosio, senza che mai qualcuno si fosse premurato di annoverarlo tra i suoi componenti principali. Interi reparti del supermercato sono zeppi di ingredienti che si connotano in chiave di non : non hanno questo, sono privi di quell’altro. Dedicati a categorie che mangiano privandosi di qualcosa. E il tutto, per garantire una miglior salute, un’assicurata longevità, un po’ di godimento in meno. Questo per una generazione che dovrà mantenersi il più possibile magra, depurata , vispa grazie agli omega tre, rimpinzata di calcio che allontana sempre più la decalcificazione ossea, relegandola al momento della sepoltura quando le ossa potranno finalmente sgretolarsi. Leggera, con intestino libero e adesivo per la dentiera sempre in tasca.
Si tratta di un paradosso solo apparente: il neo capitalismo con le stive zeppe di oggetti e beni di consumo accatastati, ha bisogno di uomini che vivano più a lungo e dunque possano consumare sino a 80 anni e passa. Parafrasando uno slogan di un celebre gruppo musicale ormai non più in auge: produci, consuma ( tanto), crepa ( il più tardi possibile).
Magri, liftati, attivi e tonici con carta di credito: sono questi i figuri che hanno scalzato i nonni dalle loro seggiole di legno, sostituendo bastone e pipe con mazza da golf e sigaretta elettrica, il giornale con tablet.
Il legame sociale tuttavia è ancora ammalato nelle sue fibre, nei suoi gangli. Ma cosa ha preso il posto degli acciacchi fisici? In che modo il capitalismo contemporaneo si sostiene, continuando in quell’opera di saturazione di quel vuoto che deve saper mantenere tale, per poter vendere gli oggetti con i quali saturarlo? Se siamo più sani, cosa possiamo comprare ed ingurgitare? Altri integratori?
Parallelamente a questa opera di bonifica del godimento culinario, tabagistico e lipidico, assistiamo oggi ad una bulimia psico – farmacologia di massa. L’incremento esponenziale dell’uso di psicofarmaci, specie antidepressivi ed ansiolitici, costituisce la diversificazione della modalità di penetrazione del capitalismo in un mercato ormai saturo di oggetti consueti. Creare un bisogno che si chiude sull’oggetto, fabbricare l’oggetto, venderlo. Le pillole per la mente sono il mezzo attraverso il quale si dovrà curare l’ondata di nuove ‘malattie mentali’ che il DSM e Big Pharma stanno per imporre a livello mondiale. Nel DSM V, ultima edizione del celebre ‘manuale statistico e diagnostiche delle malattie mentali’, le patologie saranno triplicate rispetto alla prima edizione.
Dunque, più sani ma più pazzi?
Per meglio capire verso quale via ci stiamo avviando, basti un esempio. Nei villaggi artigiani delle grandi città, si trovano magazzini particolari. Non sono centri commerciali, e nemmeno discount. Sono luoghi di stoccaggio di merci per le stagioni ancora da venire. Ai primi di Settembre, all’interno di uno di questi mastodontici capannoni alla periferia di Bologna, ho visto tutto quello che ci sarebbe servito per il natale prossimo venturo. Confezioni regalo, babbi natale che si arrampicano fabbricati in zone remote della Cina. Fuochi di artificio provenienti dal Vietnam. Con le loro forme, le loro scansioni di esplosione già previste e predeterminate da chi li ha progettati e pre gustati. Lo stesso discorso vale per le collezioni autunno inverno delle grandi firme dell’abbigliamento, già pronte ed accatastate in grandi magazzini una stagione prima. I colori, le stoffe e il taglio di cappotti per i quali ci saremmo messi in fila perché ‘di nostro gusto’, già erano stati definiti a nostra insaputa. Mi si dirà che in questo campo non ci può essere alternativa alla diffusione di modelli che devono essere disegnati con largo anticipo e ai quali, al netto delle nostre preferenze, ci dobbiamo giocoforza adeguare. A meno di non costruire ciascuno il proprio abito.
La costruzione del ‘proprio abito’, del proprio punto nel mondo rispetto all’Altro, è esattamente ciò che la psicoanalisi cerca di mettere in luce. E’ quel ‘soggettivo irriducibile’ che funge da testa di motore di ogni singolo individuo nel legame sociale. Un irriducibile che confligge, per sua stessa natura, con la standardizzazione e l’omologazione. E’ il sinthomo che non si cura, ma si adatta alla vita di ciascuno. E’ la propria strada da prendere. Oggi è sempre più difficile estrarre il proprio punto di tenuta attraverso la parola, vista la abnorme quantità di rimedi pronto uso che promettono di curare, lenire, smussare ogni minima increspatura dell’incedere umano.
Il rumore di fondo è superiore alla melodia sottotraccia. Tutto è ‘malattia’ è il messaggio ridondante che si incontra prima di decidere di mettere in parola i propri affanni.
Quando Big Pharma progetta e mette in cantiere un nuovo psicofarmaco, già ha in mente verso quale patologia è indirizzato. E se questa patologia non esiste, la si crea ex novo.
Camminiamo dunque inconsapevoli su questo doppio binario: da un lato L’Altro che vuole preservare la nostra salute fisica ma al contempo ci ammala.
La predeterminazione delle modalità consentite di ‘ammalarsi’, non è certo un invenzione del nostro tempo, né del DSM. Semplicemente oggi c’è chi sa trarre un buon guadagno da un meccanismo consolidato. Le popolazioni cosiddette “primitive” hanno elaborato anch’esse diverse modalità di supporto del singolo che si esprimono attraverso patologie definite sindromi ‘culture bound’, che fungono da strumento di riscatto e di riabilitazione dell’individuo, permettendogli un reinserimento nel legame sociale.
“E’ molto diffusa la sindrome da dipendenza da internet”? “Si guarisce dal disturbo da dolore prolungato”? “ Come affrontare la nuova emergenza del bambino iperattivo”?E’ ormai usuale venire interpellati, da diversi “pazienti”, attraverso il filtro di una diagnosi preconfezionata riguardante le questioni sopra elencate. Siamo in poco tempo passati dalla posizione della domanda generica: “mi sta succedendo questo, di cosa soffro”?, al più attuale: “ soffro di questa patologia, mi può dare qualche consiglio per uscirne”?Sono molteplici i canali pseudo-informativi dai quali poter trarre queste etichette, pari soltanto ai rimedi farmacologici proposti per la loro cura.Quali sono le conseguenze di questa proliferazione di oggetti diagnostici alla portata di tutti? Gli operatori che lavorano nel campo della salute mentale seguendo le linee della psicoanalisi devono saper correre il rischio di rottura che, in questa circostanza possiamo tradurre con: non essere alla moda. Se da un lato è necessario confrontarsi con questo processo di diagnostica totale, bisogna saperne lambire i confini senza farsi intrappolare. Chi si occupa di psicoanalisi deve essere demodè: deve perseguire una pratica della singolarità e rinunciare a categorie onnicomprensive che nascondono il soggetto e schiacciano l’inconscio e le sue produzioni, non facendo proprie le strade tracciate dal DSM. Strade lastricate da nuove patologie, neo nominate, che da questa nominazione traggono legittimità e dunque un conseguente percorso di cura. Che posto dare ai cosiddetti ‘nuovi sintomi? E, soprattutto: esistono? Si tratta di formazioni dell’inconscio trans-storiche attualizzate o, piuttosto, neo classificazioni con capacità attrattiva per soggetti disinseriti, figli cioè di un tempo iper rifocillante che promuove il disabbonamento dall’inconscio e favorisce quindi una ricerca di posizioni immaginarie? Non sono forse zone di sosta con l’insegna luminosa ‘malattia’, poste sulla strada che va in direzione contraria al percorso di rettifica soggettiva? Non siamo forse al menu che diventa cena? Queste ‘patologie’ in Italia sono oggetto di studio intensivo, anche da parte di diversi psicoanalisti. Prendiamo lo IAD ( Inernet addiction Disorder), una nuova malattia europea ( simile allo hikikikimori giapponese) che interesserebbe il mondo giovanile che si starebbe “ammalando” secondo proporzioni rilevanti. Legittimare questo ‘nuovo sintomo’ (curarlo addirittura! Poco tempo fa venne lanciata una campagna 'preventiva' con titolo sui quotidiani : ' Gli adolescenti? Studiamoli prima che si ammalino ) apre una lunga e feconda strada di produzione diagnostica. Saranno ben presto individuate nuove patologie, rinnovabili con i tempi che il mercato pretende. Dalla ‘dipendenza da internet’ si passerà alla malattia da dipendenza da “tablet”, passando per la sindrome da I Phone, per arrivare a isolare e ‘patologizzare’ ogni forma di legame con i nuovi media. Quale si riterrà essere il tempo di connessione sufficientemente lungo da giustificare un ingresso nel campo dell’ ‘anormalità’? Ancora, quante persone sono scivolate dentro al disturbo da attacco di panico ( dap) dopo essere state ripetutamente ricoverate con procedura di urgenza in ospedale e aver ricevuto quale diagnosi: “è solo un attacco di panico”? Non passa giorno che la parola angoscia non sia citata negli ambiti più disparati del contemporaneo: da quello medico a quello sociologico, passando per l’agone politico. Un parlarne che non sempre corrisponde a farle un posto. L’angoscia è l’affetto che oggi più di ogni altro permea il legame sociale, alimentato dal senso di precarietà che affligge l’individuo contemporaneo e dal momento di crisi economica attuale. Parlo di quell’ affetto normale che diviene a volte fonte preziosa di ispirazione e, solo al termine di questo continuum, può evolvere in “quell’angoscia eccessivamente intensa (…) tale da paralizzare ogni azione’” Questo è il momento in cui la persona sofferente si rivolge al medico, al farmacista, all’ospedale, portando una richiesta spiazzante: ‘Aiutatemi, sono angosciato’. Il corpus medico risponde cristallizzando il momento d’angoscia insostenibile che il soggetto patisce etichettandola come ”attacco di panico“, chiudendo fuori dalla porta la storia pregressa dell’ individuo, pretendendo di curare il qui ed ora con una strategia anti-panico fatta di farmaci e terapia cognitivo-comportamentale, creando una barriera farmacologia contro la quale va ad infrangersi qualsiasi barlume di interrogazione provenga dall’inconscio. Più che di una diffusione epidemiologica del dap possiamo quindi parlare della distribuzione sistematica di un significante che scoraggia la rettifica soggettiva, e lavora per la segregazione introducendo ad una logica che favorisce il disabbonamento dall’inconscio. Diventare “specialisti dell’attacco di panico”, non significa forse accettare di “curare” una diapositiva immaginaria adagiata sul soggetto impedendo l’accesso alla fonte viva dell’angoscia, cioè l’interrogazione propria dello stesso, il “Cosa vuole l’Altro da me” del seminario X di J.Lacan? L’ultimo (ma ormai non recentissimo) arrivato tra le nuove forme di sofferenza è il bambino ammalato di adhd (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder ). Siamo sulla nuova frontiera del controllo del comportamento del bambino dove la fanno da padrone le TCC e l’industria del farmaco. E anche in questo caso, ci sono sciami di studiosi del mondo psy in fila per ‘curarlo’.
La psicoanalisi deve dunque accodarsi a questa moda? No, o almeno non dovrebbe. Anche se questo è assai remunerativo.
Ethan Watters nel libro “Pazzi come noi’ (Bruno Mondadori, 2010) sostiene che la iper-proliferazione diagnostica null’altro sia che un tentativo di incasellare e normalizzare modalità di espressione che non sono assimilabili con il pensiero occidentale dominante. E che, quindi, passano dalla porta della ‘malattia’ incontrando, loro malgrado, la “cura”. In un tempo in cui Big Pharma lavora per installare un Altro distributore di diagnosi e neo loghi, la psicoanalisi deve dunque ribadire la propria ignoranza e contribuire a porre le condizioni per edificare un Altro del non sapere, un luogo neutro entro il quale cercare di allargare le maglie dell’inconscio. Nel nuovo DSM. moltissimi comportamenti scivoleranno nella zona di ‘anormalità’: “Disordine da ipersessualità”, “sindrome da dolore complicato o prolungato”, solo per dirne alcuni. L’angoscia degli adolescenti e l’eccesso di cibo, saranno riclassificati come disturbi psichiatrici, e i giovani si ammaleranno di “ disturbo provocatorio oppositivo”. Si delineano “nuovi” parametri attraverso i quali milioni di ignari “clienti”diverranno dei ‘malati’ e saranno indotti a credere che queste patologie esistano realmente.Le ‘nuove malattie’ che il DSM sforna vanno ad alimentare quei non luoghi di appartenenza che appiattiscono il soggetto sulla sua sintomatologia fenomenologica, lo congelano nell’involucro delle nuove malattie, impedendo di fatto la circolazione di parola e la riabilitazione legata all’uso dell’inconscio.
Come dire no a tutto questo? Il concetto di salute mentale deve la quale deve restare un entità “contrattabile” e trattabile con il mondo medico e psichiatrico, non una categoria attraverso la quale la psicoanalisi crea le proprie sottodirectory. Secondo Watters : “ Nei periodi di insicurezza o conflitti sociali le culture diventano particolarmente vulnerabili a nuove credenze sulla mente e la follia’ (…) Quali che siano i nuovi disturbi (..) è fuor di dubbio che la gente dimostrerà per essi un forte interesse. Gli esperti interverranno ai talk show e offriranno ai giornalisti commenti. (..) A quel punto tutti gli addetti ai lavori occidentali porteranno in giro lo show’. Lasciamo a Big Pharma questo show: lo fa da tempo, lo fa meglio. E gli compete maggiormente
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