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Luglio 2013 III – Arte, successi, lotte, nascite

1 Ago 13

A cura di Luca Ribolini

Narcisisti senza speranza? Innamoratosi della sua immagine riflessa, Narciso, nel tentativo di abbracciarla, si gettò nell’acqua e annegò. Eppure l’amore a volte può fare miracoli
di C.B. , Umberto Galimberti, D-Repubblica, 20 luglio 2013

Ho letto nella sua rubrica su D l’articolo Quelli che si amano troppo e non sanno amare. Il tema mi interessa e mi riguarda da vicino, non solo perché sono uno psicologo e uno psicoterapeuta, ma anche (e soprattutto) perché mi ritengo chiamato in causa personalmente da ciò che lei dice a proposito dei narcisisti. Ritengo infatti di essere portatore in una buona misura di questa “nevrosi”. Inutile dire che, presa la strada di questo difficile mestiere, mi sono sottoposto a psicoterapie lunghe, faticose e anche di natura diversa, con lo scopo di prepararmi a un lavoro che richiede quanto meno una profonda consapevolezza di sé e dei propri nuclei problematici, mosso anche dalla percezione delle difficoltà che queste caratteristiche causavano, soprattutto nella mia vita di relazione.
Ho fatto sicuramente dei passi avanti, ho incontrato la sofferenza e il dolore inespresso, ho preso più confidenza con le mie emozioni, ho aumentato la mia tolleranza alle frustrazioni e migliorato la capacità di gestire sentimenti scomodi, ma il mio narcisismo di fondo è rimasto intatto, come testimonia una vita affettiva sempre precaria e tormentata. La domanda che le pongo prende spunto dalle ultime righe del suo articolo, dove parlando dei narcisisti, lei suggerisce che da loro «bisogna stare lontani, perché costituzionalmente non sanno amare. E dal narcisismo non guariscono mai». 
Ora le chiedo: se lei fosse uno di questi narcisisti, che cosa farebbe? Come si comporterebbe, sapendo di essere una persona «da trattare con cautela», soprattutto da parte delle donne in cerca di legami affettivi stabili? E se dovesse dare un consiglio a quanti hanno imparato a essere consapevoli e a non farsi prendere troppo la mano cosa suggerirebbe loro? Visto il suo pensiero, secondo cui dal narcisismo non si guarisce (e francamente non so darle torto), forse non li inviterebbe ad andare in terapia. Ma allora non c’è proprio nulla da fare per queste persone, tutto sommato infelici?  C.B. ramonberger14@yahoo.com

La sua lettera, che non ho potuto pubblicare interamente per l’insopportabile tirannia dello spazio, mi ha molto commosso per la sua ricerca sincera di una via d’uscita dal narcisismo. E anche se questa via d’uscita fosse preclusa, il fatto di non smettere di cercarla significa già attenuare gli aspetti più sgradevoli e anche infelici del narcisismo. Tutti nasciamo narcisisti che amano solo se stessi, e gli altri limitatamente alla loro capacità di soddisfare i nostri bisogni. Questo amore di sé è alla base dell’istinto di conservazione ed è particolarmente evidente nella primissima infanzia, dove il bambino ama la madre unicamente perché questa soddisfa le sue necessità. Crescendo, il bambino rivolge la sua libido agli oggetti esterni e alle persone altre da lui. Nel caso del narcisista questo passaggio non avviene o, se avviene, la libido che temporaneamente ha investito gli oggetti esterni viene ritirata e rivolta a sé. Questo processo è definito da Jung: «introversione della libido», che si riscontra anche nelle persone non narcisistiche quando sono in uno stato di malattia o di vecchiaia. Non mi chieda che cosa farei io se fossi narcisista. Probabilmente mi rassegnerei come chiunque è costretto a fare se ha una menomazione. E il narcisismo è una menomazione perché, nello sviluppo psichico, non si è riusciti a investire la libido sugli oggetti esterni, e se ci si è temporaneamente riusciti, la si è subito ritirata per rivolgerla a sé. Non mi chieda neppure un consiglio, perché non so a quale tipo di narcisismo lei appartiene. Infatti, a sentire Freud, le patologie narcisistiche sono molto diverse a secondo che la libido sia rivolta a) al proprio io, b) a quell’io sperimentato nell’età infantile in ogni suo aspetto gratificato, c) a quell’io che si vorrebbe essere (ideale dell’io), d) o addirittura alla persona che si ama unicamente perché percepita come parte di sé, o perché possiede le prerogative che mancano al proprio io per raggiungere il suo ideale. Esiste una terapia? A questo proposito Freud scrive che: «Al progetto terapeutico si frappone naturalmente l’incapacità di amare del narcisista, che si sottrae alla prosecuzione della cura, per affidare alla persona amata l’ulteriore processo di guarigione, con tutti i rischi connessi alla pesante dipendenza del malato da colei che si è prestata a questo estremo salvataggio». A questo punto non resta che sperare che l’amore faccia miracoli, e qualche volta li fa.

http://periodici.repubblica.it/d/
 

La bellezza del tempo che passa, l’emozione dove nasce l’arte
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 21 luglio 2013

La nostalgia è una risorsa o una malattia dell’anima? Dal punto di vista della psicoanalisi la nostalgia non deve essere confusa con la tristezza cronica che affligge la vita del depresso. Nella depressione noi assistiamo a un’alterazione profonda del senso soggettivo del tempo: il passato diventa un incubo che occupa il presente e che risucchia l’avvenire rendendolo impossibile. Per il depresso tutto è già avvenuto, la vita è vita morta, senza futuro, senza speranza, priva di slancio, pietrificata nel passato, divenuta come una stazione ferroviaria, secondo un’immagine efficace proposta da Binswanger, dove non passano più treni.
Diversamente dalla depressione, la nostalgia non rende la vita prigioniera del passato. Quando siamo colpiti dal guardare anche dei semplici oggetti che hanno accompagnato la nostra vita in una stagione passata, o quando ripercorriamo luoghi un tempo frequentati o evochiamo nella memoria immagini di persone che non fanno più parte della nostra vita, siamo presi da un sentimento nostalgico che però, diversamente dall’affetto depressivo, non chiude la porta della vita. La nostalgia ci fa certamente affondare nel passato e da questo punto di vista implica sempre uno sguardo che si rivolge all’indietro. Ma questo sguardo non svuota la vita né del suo presente, né del suo futuro. Mentre per il depresso tutto è già accaduto ed egli resta letteralmente incatenato all’ombra di un passato che sbarra la strada a ogni possibile avvenire, nella nostalgia c’è ancora fame di vita.
Non c’è rifiuto della vita, ma amore insaziabile della vita. Di tutta quella vita che si è sedimentata nelle cose, nei luoghi, nei volti, nei profumi, nei suoni, nelle immagini del nostro passato.
La nostalgia non è una malattia – come forse vorrebbe farci credere il recente DSM V lestissimo a tradurre in forme patologiche tutti gli aspetti non chiaramente performanti della nostra vita – ma una risorsa. È un modo positivo di afferrare il senso della caducità della vita che, come affermava Freud, non rende una rosa meno bella per il solo fatto che è destinata a sfiorire*. La nostalgia è questo sentimento della bellezza della vita che sa conservarsi nonostante sia destinato ad essere corrotto dalla caducità fatale del tempo.
Per questa ragione la psicoanalisi associa frequentemente (Melanie Klein, Jacques Lacan) la nostalgia alla sublimazione propria di ogni creazione artistica.
L’artista lavora attorno alla memoria – quella propria e quella del mondo – per aprire all’inedito, al non ancora visto, al non ancora conosciuto. Mentre la vita depressa è vita bloccata dal passato, vita fissata ad un tempo che è per sempre morto, l’azione nostalgica dell’artista – come quella che vibra potentemente nelle celebri bottiglie di Giorgio Morandi – consiste nell’elevare la polvere del tempo alla dignità di un mistero, alla forza di un assoluto. Non si tratta di rimanere incollati passivamente ai nostri ricordi ma di attingere ai ricordi attivamente per fare emergere un nuovo senso della realtà. Le bottiglie di Morandi non sono più allora solo cose, ma indici di un altrove, di una trascendenza che abita il mondo.
È il grande insegnamento che troviamo in Cézanne: «Tutto quello che vediamo dilegua; la natura è sempre la stessa, ma nulla di essa resta. La nostra arte deve dare il brivido della sua durata, deve farcela gustare eterna». La nostalgia sottrae le cose del mondo dalla loro dissoluzione rendendole per sempre vive, anche se perse in una lontananza che non possiamo ridurre. È quello che realizza forse in modo insuperabile la poetica di Giorgio Morandi, ma che accade più in generale nel miracolo dell’arte:i fiori, le bottiglie, le caffettiere, le teiere, le strade impolverate diventano immagini senza tempo, eterne, presenze silenziose sullo sfondo di una assenza.
È lo stesso paradosso che circonda l’esperienza più comune del lutto. La persona a noi cara non c’è più, è scomparsa, ma prima di poter accettare psichicamente la sua assenza siamo costretti ad un lavoro doloroso della memoria. Ripensiamo a lei, la ricordiamo, percepiamo il vuoto che ha lasciato. Nondimeno al termine di questo lungo e doloroso lavoro, la sua assenza non paralizza più la nostra vita – come invece accade negli stati depressivi che indicano sempre un fallimento del lavoro del lutto – perché siamo riusciti, per così dire, a incorporare l’oggetto perduto,a farlo nostro. La nostalgia sarà allora il sentimento positivo che senza annientare la nostra vita, la manterrà in un contatto invisibile con quella di chi ci ha lasciato.
 
*L’Autore si rifà a Caducità di S. Freud: il testo è leggibile e scaricabile utilizzando il link qui sotto (L. R.)

http://www.studiumcartello.it/Public/EditorUpload/Documents/PRIMA_PAGINA%20LINK/SFreud-Caducita.pdf 

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/07/21/la-bellezza-del-tempo-che-passa-lemozione.html?ref=search


Paura del futuro
di Frei Betto, liberazione.it, 23 luglio 2013

Quando l’essere umano abbandona l’immaginazione creatrice, il suo futuro gli appare come minaccia. Il nuovo gli fa paura. Quindi si rifugia nella nostalgia, come se nel passato stesse il migliore dei mondi. E’ una sorta di ritorno all’ Eden biblico, al “paradiso perduto” di Milton, alla sicurezza dell’utero materno diagnosticata da Freud.

http://www.liberazione.it/rubrica-file/Paura-del-futuro.htm
 

Rimozione e pacificazione 
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 23 luglio 2013

La recente condanna di Berlusconi e l’insostenibile leggerezza ancora più recente del ministro dell’Interno Alfano, entrambi impegnati a negare anziché assumere le proprie responsabilità, hanno definitivamente fatto scoppiare la bolla della “pacificazione”.
Siamo chiari: la tesi che il governo delle larghe intese avrebbe inaugurato un nuovo tempo politico, quello, appunto, della cosiddetta pacificazione, che coincideva, tra le altre cose, con la riabilitazione di Berlusconi come statista ponderato, si fondava su quello che in termini strettamente psicoanalitici si chiama “rimozione della realtà”.
Ovvero l’esatto contrario di quel “principio di realtà” che era apparso carico di promesse sincere nel discorso inaugurale del presidente Letta alla Camera dei deputati. Di cosa si tratta quando in psicoanalisi parliamo di “rimozione della realtà”? Accade esemplarmente nella psicosi. Prendiamo una storia clinica narrata da Freud: una madre colpita dalla tragedia della perdita prematura di una figlia la sostituisce con un pezzo di legno che avvolge in una coperta che tiene amorevolmente in braccio sussurrandogli tutte quelle parole dolci e affettuose che la figlia morta non potrà più sentire. Questa sostituzione implica la negazione delirante di una realtà troppo dolorosa per essere riconosciuta come tale. Il pezzo di legno cerca di supplire pietosamente al buco scavato dalla realtà dal trauma della morte prematura della bambina. Quella figlia così teneramente amata non esiste più, se n’è andata, è morta.
L’idea della pacificazione non assomiglia forse a questa sostituzione delirante? Essa non può aspirare ad alcuna dignità politica, non può essere la base di un nuovo patto politico, perché si fonda su una negazione delirante della realtà. Di quale realtà? La realtà della morte in Italia di una destra autenticamente liberale, capace di fare gli interessi generali del Paese anziché essere uno strumento al servizio di un uomo che avendo notevoli problemi con la giustizia da un ventennio utilizza la politica per difendere strenuamente i propri interessi personali. Nell’esempio raccontato da Freud il delirio consiste nel rifiuto della realtà e nella sostituzione della realtà con qualcosa che non esiste. L’idea della pacificazione si fondava su un vero e proprio accecamento di questo genere: la figura di Berlusconi statista appare a tutti gli uomini ragionevoli, di destra come di sinistra, una affermazione delirante, cioè completamente scissa dalla realtà. All’indomani delle elezioni la sua forza rappresentativa si era oggettivamente assai ridotta e non si era esaurita irreversibilmente solo grazie alla scelta scellerata del Pd di non candidare Matteo Renzi. Eppure questo governo si è realizzato ancora alla sua ombra ed è ostaggio del suo capriccio.
L’idea della pacificazione vuole sostituire la dimensione politica del conflitto con la negazione delirante della realtà. La realtà è che in Italia destra e sinistra non possono governare insieme non perché, come ritiene un’altra forma di rimozione della realtà qual è il catarismo grillino, sono uguali ma perché sono profondamente diverse. Se su queste pagine ho frequentemente ricordato come il ruolo nobile e alto della politica consista nella sua capacità di comporre dialetticamente le diverse istanze di cui è fatta la vita dellapolis, mi pare altrettanto fondamentale oggi ricordare che in una democrazia non bisogna avere paura del conflitto perché il conflitto politico è il sale della democrazia. Soprattutto se la negazione del conflitto comporta l’idea di una falsa unità, di una convergenza solo apparente tra le opposizioni. Tra l’altro è proprio la possibilità che il conflitto politico trovi delle adeguate rappresentazioni democratiche e parlamentari ad essere la prevenzione più efficace ad ogni forma di violenza irrazionale.
Come la povera madre che anziché affrontare il dolore per la morte della propria figliola, la rimpiazza con un pezzo di legno, il governo Letta sembra insistere nel credere – sfidando davvero ogni principio di realtà – che sia possibile governare con una destra pronta ad occupare le sedi dei Tribunali e a far cadere il governo se il suo capo non verrà messo al riparo dall’azione della giustizia.
In psicoanalisi esiste una legge del funzionamento mentale che vale la pena oggi ricordare perché si presta a leggere anche i fenomeni della vita collettiva: quello che si vuole cancellare dalla memoria – nel nostro caso il ventennio berlusconiano – ritorna sempre nella realtà e ha spesso la forma dell’incubo. Per generare cambiamento autentico, nella vita individuale come in quella collettiva, è necessaria innanzitutto la memoria della nostra provenienza. Non è un caso che tutti i tiranni tendano a cancellare il rapporto con la memoria e a falsificare i libri di storia. In 1984 il Grande Fratello orwelliano rende come prima cosa impossibile il pensiero storico perché sa che quel pensiero è sempre pensiero critico, pensiero che sa fare obiezione alla falsificazione. Come accade alla povera madre delirante raccontata da Freud si vorrebbe trasformare la bimba morta e perduta per sempre in una bimba viva e sorridente. Ma un pezzo di legno non fa una bambina, così come Berlusconi non fa uno statista. La pacificazione rischia allora di essere una pura falsificazione. È questo, in fondo, il suo peccato originale.
 
http://www.liberazione.it/rubrica-file/Rimozione-e-pacificazione.htm


Bolognini, primo italiano all’Ipa
di Redazione, l’Unità, 23 luglio 2013

Per la prima volta lo psicoanalista un italiano, Stefano Bolognini, sarà a capo della storica Società Psicoanalitica Internazionale, l’Ipa, fondata a Norimberga nel marzo del 1910 per volontà di Freud. La cerimonia per la nomina ufficiale del nuovo Presidente si terrà il 4 agosto all’Hilton di Praga, nell’ultima giornata del congresso mondiale biennale dal titoloFacing the pain. A distanza di oltre cento anni dalla sua origine l’istituzione tuttora prestigiosa conta dodicimila iscritti, più duemila allievi in formazione, in tutto il mondo: dal Nord America all’Europa, dall’India al Giappone, dal Sudamerica con punti di forza in Argentina, come noto, fino al Brasile. Medico e psichiatra Stefano Bolognini, è stato presidente della Spi, la Società Psicoanalitica Italiana dal 2009 fino al 2013 e membro del comitato editoriale dell’International Journal of Psychoanalysis. 
 
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=3713:bolognini-un-presidente-italiano-all-ipa&catid=425:rotante&Itemid=373
 

Eri forte papà. Massimo Recalcati e Christian Raimo a confronto in un libro sui figli di una patria rimasta senza padri
di Massimo Panarari, europaquotidiano.it, 27 luglio 2013

 
Sventurata la terra che ha bisogno di eroi, diceva il drammaturgo Bertolt Brecht. Chissà se la considerazione vale anche per i “padri” che non mollano, impedendo l’acquisizione di responsabilità da parte dei figli, condannati a una sempiterna condizione di minorità (che i sociologi hanno preso da qualche tempo a questa parte a chiamare adultescenza, e in Italia raggiunge i suoi picchi planetari). Il padre mancante alla nostra (a volte, sciagurata) patria, di cui scrive Massimo Recalcati nel suo libro Patria senza padri. Psicopatologia della politica italiana, è un fulcro (e un feticcio) della psicanalisi. Ed è, soprattutto, una di quelle figure nelle quali più profondamente si è espressa l’intersezione tra la dottrina psicanalitica (e le sue scuole) e la politica.
Un intreccio che ruota attorno a temi quali la massa, l’autorità, la (nietzscheana) volontà di potenza, l’influenza (quasi “ipnotica”) sugli altri e il narcisismo (spesso, se non sempre, presente in chi decide di fare politica, e stato psicologico assai più frequente, negli ultimi tempi, della chiamata e della “vocazione” di weberiana memoria). E, ovviamente, il desiderio, a metà tra “normalità” (ammesso e non concesso che essa esista…) e psicopatologia, connaturato alla politica come alla vita, e che, anche sull’onda delle trasformazioni sociali della fine degli anni Sessanta, ha finito per dilagare nelle generazioni di donne e uomini pubblici giunti al potere e oggi al centro della scena.
I precursori di quello che potremmo chiamare il “paradigma psicopolitico” sono, naturalmente, gli psicologi delle folle Gustave Le Bon e Gabriel Tarde, i quali, tra leggi dell’imitazione e insorgenza di un’anima collettiva che fa perdere ai singoli il controllo di sé, si rivelano piuttosto atterriti, come vari intellettuali nella crisi di fine secolo, dal mutamento profondo che viveva l’Europa al suo ingresso nella società di massa. Studiosi imprescindibili per i loro successori e coevi, tanto che, quando a far sdraiare la politica sul lettino ci pensa lo stesso capostipite, Sigmund Freud, occupandosi giustappunto della questione molto “calda” delle moltitudini, decide di partire proprio dai lavori dei due sociologi (e da un libro di William McDougall, La psiche collettiva).
La Società Psicoanalitica di Vienna, in quegli anni, rappresentava una koinè molto fertile per le discussioni sulla psicologia politica: vi si svolgevano seminari sulla “psicologia della rivoluzione” e, nel 1922, ospitò uno dei futuri monumenti del diritto costituzionale liberaldemocratico, Hans Kelsen, che tenne una conferenza sul Concetto di Stato e la psicologia sociale con particolare riferimento alla teoria delle masse di Freud. Nel ’21, infatti, il fondatore della psicanalisi aveva dato alle stampe la Psicologia delle masse e analisi dell’Io(uscito per i tipi di Einaudi, a cura di Davide Tarizzo, pp. 86, euro 16), con la quale voleva inserirsi, col suo precipuo armamentario teorico, tra complesso di Edipo e totemismo, nel dibattito poc’anzi richiamato sulle folle, e cercare di penetrare i segreti psichici del dispotismo che paralizza l’autonomia e conduce i gruppi all’obbedienza cieca.
Lo fece distinguendo tra la “massa organizzata” e quella “disorganizzata”, e ravvisando il desiderio latente della modernità nell’edificazione di una società senza padri, capace di azzerare le gerarchie, o, come direbbe qualcuno oggi, di “orizzontalizzare” i rapporti di potere, argomento destinato a significativa, e controversa, fortuna, come noto, di lì a qualche decennio.
Ma l’individuo massificato, specialissima forma patologica del Novecento, fa sì che questo anelito si rovesci nel suo opposto, con l’irruzione sulla scena di un “Padre primordiale” e violento che piega le folle (ovvero la massa primaria, con la sua pulsione gregaria) ai propri voleri. Il totalitarismo fornirà molti tragici spunti alla psicanalisi che si dà da fare per interpretare la politica, come nel caso dell’eretico Wilhelm Reich, il quale, negli anni Trenta, pubblicava la Psicologia di massa del fascismo (Einaudi) – fonte di ispirazione per Adorno e Fromm – dove il regime dittatoriale diveniva la concrezione politica realizzata di una mentalità che «nella sua forma più pura, è la somma di tutte le reazioni irrazionali del carattere umano medio», mentre l’ideologia razzista rimandava per direttissima all’impotenza sessuale di chi la professa.
Anche sull’onda dell’influsso dell’eterodosso e bislacco alfiere della famiglia come “peste emozionale” e dell’energia sessuale “orgonica”, si moltiplicarono i tentativi di sintesi tra psicanalisi e marxismo, fino all’esplosione del Sessantotto. Uno dei più attivi su questo versante, mentre il movimento metteva sul banco degli imputati l’autorità e la repressione sessuale, fu il “francofortese” Herbert Marcuse: non soltanto Eros e civiltà e l’uomo monodimensionale, ma anche Psicanalisi e politica (Manifestolibri), che si riprometteva programmaticamente «la discussione della teoria freudiana dal punto di vista della scienza politica», effettuando una durissima disamina della “civiltà del dominio” e del lavoro alienato. E alla sintesi tra comunismo e freudismo, per fare un altro esempio tutto italiano, si dedicava anche Giovanni Bollèa, sodale di Pietro Ingrao.
Nel 1972, bell’e pronto a convertirsi (sebbene, per certi versi, suo malgrado) in manifesto del Settantasette, esce, scritto dalla “premiata coppia” Gilles Deleuze e Félix Guattari, l’attacco “da sinistra” per antonomasia alla psicanalisi. Vale a dire, lo zibaldone de L’anti-Edipo (Einaudi), libro profondamente politico e vessillo dell’antipsichiatria à la française, a cui si sarebbe affiancato il rizomatico Millepiani. Capitalismo e schizofrenia (Castelvecchi), apparso nell’anno della vittoria di Ronald Reagan e dell’irresistibile ascesa della rivoluzione neoliberista.
Già, perché la nemesi storica fece sì che proprio il secondo bersaglio polemico e decostruttivo, dopo la psicanalisi, del complesso lavoro teorico dei due, ovvero il neocapitalismo, una volta fattosi libidinale si appropriasse della carica sovversiva del desiderio contro la Legge, e lo trasfigurasse a vantaggio di quella potenza illimitata del mercato che si voleva invece demolire. E di cui, a ben guardare, anche l’“egotismo” berlusconiano e il grillismo “adolescenziale”, che Recalcati scandaglia nel suo volume, risultano, in certo qual modo, figli, in una patria, per l’appunto, rimasta orfani di padri.
 
@MPanarari
 
http://www.europaquotidiano.it/2013/07/27/il-padre-mancante-della-nostra-patria/
 
 

His Majesty the Baby
di Saranthis Thanopulos, ilmanifesto.it, 27 luglio 2013

In Introduzione al narcisismo Freud fa alcune considerazioni sulla tendenza dei genitori a rivivere nei loro figli il narcisismo della loro infanzia. Essi si comportano come se il destino del bambino non dovesse sottostare alle limitazioni che ha conosciuto il loro: «Malattia, morte, rinuncia al godimento, restrizioni imposte alla volontà personale non devono valere per lui, le leggi della natura al pari di quelle della società devono essere abrogate in suo favore, egli deve ridiventare il centro e il nocciolo del creato, quel His Majesty the Baby, che i genitori si sentivano un tempo». L’amore per il bambino «così commovente e in fondo così infantile», dice Freud, non è altro che l’antico narcisismo dei genitori travestito in amore oggettuale. Proiettandolo nei figli e nel futuro i genitori difendono il proprio narcisismo nel punto in cui è maggiormente vulnerabile: l’immortalità dell’Io. L’investimento narcisistico del bambino, che Freud coglie nei suoi aspetti essenziali, svolge due funzioni importanti: da una parte spinge i genitori a rinnovare attraverso i figli il loro legame con la vita in termini di speranza per l’avvenire e di impegno costruttivo nella società; dall’altra permette al bambino di crescere in un ambiente che favorisce la libertà del suo sviluppo (esaltando le sue innate qualità e i suoi desideri) e lo protegge da frustrazioni precoci che lo porterebbero più verso l’adattamento alle condizioni oggettive della sua esistenza che verso l’espressione creativa della sua soggettività. L’amore narcisistico nei confronti del bambino ha, tuttavia, un risvolto morboso molto insidioso: se il narcisismo dei genitori è stato gravemente ferito nella loro infanzia, l’amore narcisistico che essi rivolgono al figlio è altrettanto gravemente deformato. L’amore di sé, l’investimento libidico della propria esistenza che si espande come amore per il mondo circostante e per le persone che lo abitano, diventa un sentimento rigido che si attacca a oggetti ideali dal carattere magico, tanto importanti sul piano della consolazione quanto morti sul piano di una reale relazione di desiderio. Il bambino è amato come oggetto ideale, consolatorio da parte dei genitori e deve compiacere le loro aspettative irreali pervertendo la propria ragione d’essere. L’amore parentale narcisistico per il bambino si diffonde nella società: tutti partecipano a questa «luna di miele» nei confronti dei nuovi arrivati, in special mondo se sono figli di parenti, di amici stretti, di vicini, degli attori o dei cantanti preferiti e, perché no, anche se sono figli privilegiati di un re. Tuttavia l’eccesso di attenzione nei confronti del neonato principe inglese, in un momento in cui il futuro dei bambini e dei giovani appare nero, segnala uno stato d’animo collettivo vischioso e preoccupante: lo spostamento dalla ricerca di soluzioni adeguate ai mali che ci affiggono all’attesa messianica di risposte tanto rassicuranti quanto improbabili. Per una volta l’interesse di un bambino “nato con la camicia” e quello dei diseredati coincidono. Per il bene di tutti che si lasci in pace il royal baby a crescere in modo sano, nella pienezza del suo diritto, senza proiettargli addosso le attese dell’umanità.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20130727/manip2pg/14/manip2pz/343735/manip2r1/thanopulos/

Eva contro Eva, la psicologia della donna invidiosa
di Barbara Collevecchio, ilfattoquotidiano.it, 30 luglio 2013

 
Joseph L. Mankiewicz nel bellissimo film Eva contro Eva, con una superba Bette Davis e un’apparizione fugace di una giovanissima Marilyn Monroe, delinea un ritratto psicologico raffinato e caustico delle relazioni femminili competitive.
Un gruppo di donne è spesso un “covo di serpi”? Perché si arriva a odiare un’altra donna anche solo per via di un bell’aspetto fisico? Lo psicoanalista Adler, che tra l’altro ebbe in cura Anais Nin, figura fragile e superba della letteratura femminile del ‘900, afferma che il senso di inferiorità dà origine a sforzi per raggiungere la sicurezza psicologica che non può prescindere da un’autoaffermazione spesso livorosa.
Chi ha un complesso di inferiorità, spende la vita nello “sforzo di valere” per trovarecompensazione ai complessi ma questo può assumere anche la forma di “supercompensazioni” a carattere patologico. In Conoscenza dell’uomo, Adler scriveva: “Possiamo già renderci conto che i bambini trattati dalla natura come da una matrigna sono inclini ad assumere verso la vita e gli uomini un atteggiamento diverso da coloro ai quali sono state elargite fin da principio le gioie dell’esistenza. Si può porre come principio che tutti i bambini affetti da inferiorità organica si trovano facilmente impegnati in una lotta colla vita, che li devia verso un soffocamento del loro senso comunitario, cosicché assumono con facilità il comportamento di chi si occupa sempre più di se stesso e dell’impressione che desta nel mondo, che degli interessi degli altri.”
Questo porterebbe a credere che l’invidia, la competizione, nascano sempre da chi è deprivato, anche fisicamente.
Ma la regola “se sei bruttina, sei invidiosa”, funziona sempre? Tempo fa nella mia scuola di specializzazione in analisi junghiana, mi chiesero di elaborare il concetto di invidia integrando le diverse visioni junghiana e freudiana: possiamo far risalire a Sigmund Freud la prima elaborazione del concetto di invidia. Nella teoria del complesso edipico negativo, il bambino, prova invidia per la femminilità e la sua capacità generativa. L’invidia, come sentimento a sé, svincolato dalla gelosia e dalla rivalità, prese piede e acquistò importanza sino al punto di diventare causa dell’analisi interminabile nelle donne.
Anche Melanie Klein, nello scritto “Invidia e gratitudine”, ritiene che l’invidia sia uno degli affetti più precoci e fondamentali.
La gelosia e l’invidia a mio avviso, sono sentimenti più complessi, non solo basati sulla rivalità edipica: l’odio nei confronti di qualcuno è davvero sempre legato alle nostre mancanze. Svilire qualcuno ha una valenza difensiva perché si devastano le qualità dell’oggetto invidiate. Distruggere e deturpare equivale dunque a una manifestazione palese dell’invidia e a una difesa contro la sofferenza di sapere di non poter possedere tali qualità.
Quante donne con la corazza di Amazzoni, che si identificano nel principio maschile, sviliscono e devastano il loro lato più fragile e dipendente? Donna non è fragilità quindi perché aggredire le fragilità altrui? Perché proiettiamo nell’altro le nostre debolezze.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/07/30/eva-contro-eva-psicologia-della-donna-invidiosa/671663/
 
 
Se il made in Italy ora ha successo nella psicoanalisi
di Luciana Sica, repubblica.it, 30 luglio 2013

Sembra che il made in Italy funzioni nella psicoanalisi. Decisi ad "affrontare il dolore" in ogni angolo del pianeta, i freudiani di tutto il mondo si riuniscono oggi a Praga per il loro congresso (Facing the pain). E quelli di casa nostra un qualche motivo di orgoglio ce l'hanno, visto che sabato prossimo Stefano Bolognini terrà il suo discorso ufficiale da presidente dell'International Psychoanalytical Association, l'autorevolissima Ipa fondata da Freud nel 1910. In una storia tanto lunga, è la prima volta che tocca a un italiano e Bolognini rischia una punta di enfasi: «Siamo entrati d'autorità in "fascia A" grazie a una presenza sempre maggiore sulle riviste internazionali, nei convegni e nelle pubblicazioni di libri all'estero. La caratteristica degli analisti italiani – non di tutti, ma neppure di pochissimi – è la creatività, associata a una solida cultura teorico-clinica… Possiamo dire a chiare lettere che ne siamo fieri?». L'orgoglio di ritrovarsi al vertice del tempio freudiano dipende anche dalla diffusione della psicoanalisi ad ogni latitudine. Ma il sapere fondato da Freud avrà davvero un valore universale? C'è da chiederselo, e c'è chi lo fa seriamente: un altro fiore all'occhiello di casa nostra è il gruppo di ricerca internazionale – Geografie della psicoanalisi, si chiama – diretto da Lorena Preta: «Si tratta di confrontare le diverse culture su temi come la sessualità, il rapporto uomo-donna, le varie forme che assume la dipendenza, più in generale la concezione della vita e della morte. È importante che il progetto sia italiano, ma soprattutto che siano già coinvolti tanti qualificatissimi analisti dell'Ipa: un buon segno della sensibilità culturale e sociale della nostra comunità sempre più allargata». Boom freudiano nel mondo, analisti italiani finalmente promossi: soffia un vento favorevole per la psicoanalisi? A dispetto delle apparenze, la mutazione antropologica che segna la nostra epoca non consente nessun trionfalismo. Lo "spirito del tempo" sembra poco conciliabile non tanto con la Babele delle teorie analitiche, ma proprio con la clinica, con la disponibilità dei pazienti a sottoporsi a una cura così lunga e impegnativa. Anche i paladini dell' atemporalità dell' inconscio ammetteranno che l'iperconnessione, la molteplicità simultanea delle cose che pensiamo e facciamo, i ritmi forsennati che segnano il nostro vivere non incoraggiano l'introspezione. Potrà non piacere, e non solo agli epigoni di Freud, ma non serve litigare con lo Zeitgeist della contemporaneità, «multare il tempo per eccesso di velocità», per dirla con un aforisma di Valentino Zeichen. In altre parole: le stanze dell' analisi non rischieranno di svuotarsi? Ma no, assicura Bolognini, saranno anche diminuiti i pazienti "in analisi vera e propria", però c' è ancora tanta gente che si rivolge a lui e ai suoi colleghi per terapie a orientamento analitico: «I pazienti di Freud erano nobili o ricchi borghesi che disponevano di tempo e risorse economiche. Oggi il danaro scarseggia anche nella middle class e il tempo anche di più. Questo potrebbe chiudere il discorso: l'analisi è un lusso che la gente non può più permettersi. La verità in molti casi è un'altra: il baricentro tra sé e l' altro (noi diciamo "tra il soggetto e l'oggetto") si è spostato, per un fenomeno epocale, verso il soggetto stesso. L'altro è tenuto a debita distanza, può essere "usato", ma in assenza di un vero legame. "Io non dipenderò da te": è questo il motto che attraversa il nostro tempo». Ma l'analisi è quella di una volta? Fernando Riolo, tra gli studiosi più autorevoli del mondo freudiano, ex presidente della Società psicoanalitica italiana, reagisce così: «Ecco ogni volta riunirsi apocalittici e integrati nell'annunciare che la psicoanalisi è giunta alla fine: liquidata o, per dirla con un eufemismo tanto alla moda, liquefatta.E invece l'analisi è anche più necessaria, proprio oggi che la nuova realtà costruita dalla tecnologia determina il progressivo spossessamento del soggetto. Se agli oggetti tecnologici deleghiamo sempre più funzioni umane – le nostre memorie, il lavoro della ragione, le relazioni sociali e affettive – , se scorporiamo da noi una parte di noi, fare un'analisi è certamente una scelta controcorrente rispetto ai modelli della realtà. Ma tra l'articolazione del lavoro analitico e il nostro tempo mostruosamente accelerato non c'è incompatibilità: c'è conflitto, come sempre del resto, poiché si tratta del conflitto tra la coscienza al servizio della realtà e l'irriducibile alterità dell'inconscio… Il tempo dell'analisi è innanzitutto il tempo del desiderio, dell'esplorazione di sé». Peccato però che la progressiva e inesorabile restrizione della dimensione privata sia un fattore assolutamente avverso alla cura sul divano. Lo sanno soprattutto gli analisti più giovani, non certo quelli "di successo" che hanno comunque prestigio e visibilità. «Quel che importa è il rigore, e quindi la credibilità della cura. Richiede apertura mentale, preparazione e molta esperienza»: la ricetta è di Sarantis Thanopulos, brillante analista di origini greche e collaboratore del manifesto: «Più si vive impegnati in attività frenetiche e dispersive, più si resta fuori dal tempo reale della vita, e paradossalmente ci sono pazienti che tendono a vivere l'analisi come un rifugio segreto, col rischio di restare parcheggiati in un presente senza futuro. In questi casi si fatica non poco a farli uscire dalla sospensione della loro vita. Certo, la tendenza maniacale a bruciare i tempi dell'esperienza, che domina una società sostanzialmente depressa, è in fatale e irriducibile contrasto con il nostro mestiere. Senza però dimenticare che la psicoanalisi è sempre stata "intempestiva", sin dall'inizio così dentro e fuori il suo tempo».

http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/07/30/se-il-made-in-italy-ora-ha.html?ref=search

Tutti sul lettino. Un famoso psicoanalista inglese racconta la storie dei suoi pazienti

di Daniela Mattalia, panorama.it, 31 luglio 2013

Questo libro parla di noi. Certo, parla di Lily, di Matt, di Michael, di Sarah, di Jennifer, e di tutti gli innumerevoli pazienti che, in 25 anni, sono stati in analisi da Stephen Grosz, psicoanalista inglese e scrittore. Ma loro sono noi. Le loro angosce, i loro disagi esistenziali, i loro dubbi sono i nostri.
Per questo il libro di Grosz, Una storia che non possiamo raccontare (Mondadori) è appassionante.  Nelle sedute di queste persone così ordinarie, nel senso positivo del termine, riconosciamo esperienze  e comportamenti che ci appartengono. Troviamo risposte impreviste a domande che, magari, non ci eravamo ancora posti ma erano lì, appena sotto la superficie, pronte a emergere.
Matt, per esempio, vive male e in modo turbolento perché anestetizza le emozioni; Daniel riesce a sabotare, inconsapevolmente ma con pervicacia, tutte le occasioni positive che gli si presentano; Jennifer vive ostaggio di un futuro immaginato e idealizzato, e così si aliena il presente; Helen e Mary soffrono di mal d’amore ma, proprio per questo, non riescono ad amare con pienezza; Richard è mortalmente noioso per una forma malcelata di aggressività.
Casi clinici che, uno dopo l’altro, compongono un cerchio sempre più largo, come le onde di un lago in cui qualcuno ha gettato un sasso: l’analisi arriva al centro del problema e allarga le interpretazioni, scopriamo che la vita (e nessuno si senta escluso) procede per malintesi, autoinganni, illusioni. Niente di grave, il più delle volte. Nulla che metta a repentaglio il nostro equilibrio, come succede invece ai pazienti di Grosz. Ma è importante saperlo. Di più: saperlo è obbligatorio.
 
Una storia che non possiamo raccontare, di Stephen Grosz, Mondadori, 190 pagine, 17,50 euro
http://scienza.panorama.it/psicoanalisi-libro-mondadori


Bisogna salvare la “madre buona”

di Carlo Priolo, opinione.it, 31 luglio 2013

Ancora sangue; è toccato a Taurisano. Non aveva accettato la separazione, uccide la ex moglie e si suicida. Dalla Toscana alla Puglia le donne cadono per mano dell’uomo che hanno “amato” (o creduto di amare), con il quale hanno costruito una unione stabile, un cammino insieme, spesso uniti dalla gioia di avere avuto dei figli, di aver formato una famiglia; il luogo di elezione dell’amore, della condivisione del respiro della vita, della coabitazione, della solidarietà. La famiglia la cellula staminale della società, il nucleo fondante del sistema sociale. Sotto i colpi di una pistola tutto muore. Abiurato ogni valore per le ferite che non si cicatrizzeranno, per i torti non composti, per gli invendicati insulti, per le angosce che conducono gli animi alla rivolta. La pochezza del luogo comune, il dissidio con un mondo esterno minaccioso non possono interpretare la vastità e la dimensione del femminicidio.
La vittima ed il carnefice sono vicino a noi, forse dentro di noi, sono parte della nostra vita, la ragione non c’è di conforto. Nusquam est qui ubique est (Seneca). È in nessun luogo colui che è ovunque. La raffinatezza del pensiero, le conquiste delle scienze psicologiche e sociologiche non ci aiutano a sopportare il disagio dell’incomprensione. «Sei ancora quello della pietra e della fionda: uomo del mio tempo», dice il poeta. «Hai ucciso ancora, come sempre, come uccisero i padri, come uccisero gli animali che ti videro per la prima volta». Restano silenti gli increduli spettatori degli eventi di morte verso la donna, verso la madre, verso colei che ha generato la vita. Queste donne immolate al totem della gelosia ci lasciano soli nell’abisso del mondo, ci consegnano al delirio dell’umanità, ci rapiscono l’illusione della mitezza dell’uomo onesto. Lanciamo un grido sordo verso il nulla, vacillando su fragili certezze. L’inconscio abita in ciascuno di noi e condiziona tutte le attività umane, culturali, politiche, economiche e religiose, ci suggerisce la scienza della psicoanalisi. Scavare nell’inconscio, andare alle radici, significa arrivare al cuore dell’uomo.
Se il cuore dell’uomo è quello del dolce sapore del sangue, allora il cuore non può guidarci nell’agire, nel comprendere, nell’indagare. L’imponente aggressività intra-specifica dell’uomo, rappresentativa delle pulsioni violente individuali, registra una proliferazione sul piano domestico, mentre subisce un processo di riduzione ideologica come manifestazione macroscopica sul piano della passata esaltazione della guerra. La stucchevole retorica del giorno dopo risulta offensiva verso la dipartita violenta delle vittime dell’odio insensato. La donna perseguitata, minacciata, molestata giornalmente, sa, avverte il pericolo. Non è vero che l’assassinio avviene improvvisamente, un giorno qualunque. L’assassino ha dato molti segnali, indizi potenti della potenziale esplosione della violenza sia in costanza della relazione durevole, sia maggiormente dopo la separazione. E’ come se il carnefice mandasse dei messaggi: aiutatemi sto per commettere un omicidio, una forza dentro di me che non riesco a controllare. Le vittime hanno denunciato, querelato, avvisato, chiesto aiuto, ma irresponsabilmente magistrati, psicologi in pendenza di accertamenti, di perizie, hanno sottovalutato, negligentemente ignorato, pensando erroneamente che quello sottoposto al loro esame non era un caso pericoloso, che non doveva essere attenzionato, vigilato, seguito.
E dopo la tragedia sostenere l’imprevedibilità, la causa di forza maggiore. Correva l’anno 1974 e sulle pagine del quotidiano “Il Tempo” Ferruccio Antonelli, in alcuni articoli a puntate, stimolava i lettori alla conoscenza della psicologia. Forse è la società che è diventata “nevrotica”, sottolineava Antonelli, ma che vuol dire “nevrosi”? Lopez Ibor, spagnolo, uno dei massimi esponenti della psichiatria odierna (1974), ritiene che la nevrosi abbia tre aspetti. Il primo è l’ansia, intesa non come eco di un conflitto, bensì come molecola del tessuto umano, presente e pesante in tutti, almeno potenzialmente, alla pari della fame, della paura, della povertà. Il secondo aspetto è costituito da una serie di meccanismi di difesa contro questa ansia. L’uomo avverte la sua fragilità esistenziale, il suo destino di malattie e di morte e certo non lo sopporta. Allora si difende come può, sviluppando fobie, isterismi, disturbi psicosomatici, crisi d’ogni tipo. Il terzo aspetto della nevrosi è costituito dall’atteggiamento del paziente e cioè dal modo in cui l’uomo vive e guida la sua esistenza.
Il dolore può essere degradante o nobilitante: dipende da come è nato. Le terapie collettive del criticato Massimo Fagioli nella sede della recente nascita della facoltà di psicologia (1972-1978), potevano le basi di una presa di coscienza della forza penetrante ed illuminante della indagine psicologica (il fascismo e il nazismo è stato spiegato anche con la psicologia), avevano, comunque, il pregio di far conoscere, di invitare al viaggio dentro i misteri dei nostri comportamenti. Di fronte ad un grande e gravissimo fenomeno come il “femminicidio” occorre una grande risposta. Tutti gli psicologi, psichiatri, psicanalisti di ogni ordine e grado, di diverse appartenenze, di specifici indirizzi scientifici, debbono superare le divisioni, le diverse competenze ed aprire un dialogo con i cittadini da ogni dove, sostenere un diritto di tribuna per la partecipazione popolare alla conoscenza delle coordinate psicologiche, un diritto ad essere informati per modificare l’agire sociale e le condotte individuali senza distinzioni di sesso e stato sociale.

http://www.opinione.it/politica/2013/07/31/priolo_politica-31-07.aspx

Il virtuale che fa male all’anima. Vita quotidiana. In ogni ingresso al bar c’è una specie di micro-transfert: il rapporto con il barista e la scelta della postazione sono una spia dei nostri desideri. Stefano Bolognini: «Può spingere a un senso di onnipotenza»

di Franca Porciani, corriere.it, 31 luglio 2013
 
Una «casa comune» per gli psicoanalisti appassionati di Freud che si allunga da un continente all’altro e, di recente, ha inglobato la Cina e la Corea ed è arrivata fino in Iran. È la complessa e articolata realtà dell’Ipa, la Società psicoanalitica internazionale, fondata da Sigmund Freud nel 1910 a Norimberga, con più di 12 mila iscritti, riuniti da oggi in congresso a Praga. Appuntamento che ci riguarda da vicino perché la new administration dell’associazione per la prima volta vede alla presidenza un italiano, Stefano Bolognini, 64 anni, emiliano, laureato in medicina, psichiatra, psicoanalista dal 1980 (vicepresidente la svedese Alexandra Billinghurst). Pressoché sconosciuto al grande pubblico nel nostro Paese, ma notissimo all’estero grazie ai suoi 160 lavori scientifici e ai manuali per gli addetti ai lavori tradotti in varie lingue, iraniano compreso (editi in Italia da Bollati Boringhieri), lo psichiatra, sposato con tre figli (e già nonno) di casa a Bologna ma sempre in giro per il mondo, raggiunto telefonicamente a Praga, non nasconde la soddisfazione.
Professore un riconoscimento importante, ma la scelta di un italiano è una sorta di cattedrale nel deserto, l’eccezione in un panorama mediocre o, al contrario, esprime l’eccellenza dell’Italia in questo campo?
«È assolutamente vera la seconda ipotesi: noi per la ricerca non possiamo contare su fondi statali (pochi per tutti, in realtà) né, men che mai, sugli sponsor (le case farmaceutiche ci ignorano perché le nostre cure riducono il ricorso agli psicofarmaci, o rischiano di ridurlo). Gli studi che realizziamo sono finanziati da noi stessi, dall’attività clinica, nascono dal “lettino”. Una ricerca indipendente e fruttifera: abbiamo pubblicato molto su riviste nazionali e internazionali. E per evitare che quanto edito in italiano sia penalizzato dalla barriera linguistica, ora pubblichiamo anche un Annual, un estratto in inglese degli studi più significativi usciti nel corso dell’anno sulla Rivista italiana di psicoanalisi. Iniziativa che ha avuto un grande successo all’estero. Insomma, l’Italia in questo campo è una voce autorevole».
Come vede l’evoluzione delle varie scuole psicoanalitiche nel mondo nei prossimi anni? Continuerà il predominio di quella americana?
«Il prossimo congresso dell’Ipa (acronimo di International Psychoanalytical Association, ndr) nel 2015 sarà a Boston; l’America conta ancora tanto in questo campo, è vero, ma non dimentichiamo che alle quattro grandi scuole psicoanalitiche del mondo, l’inglese, la francese, la nordamericana e l’argentina, a partire dagli anni Ottanta si sono aggiunte l’italiana, la brasiliana e la tedesca, che hanno espresso e stanno esprimendo una grande creatività. È un mondo in fermento dove cresce la certezza che la nostra epoca offra opportunità positive straordinarie, ma esponga anche a rischi evidenti di confusione identitaria; basta pensare ai vissuti di onnipotenza favoriti dalla dimensione virtuale. Sono inoltre convinto che bisogna investire molte energie nella riapertura di un dialogo fra psicoanalisi e psichiatria; ancora oggi a livello di insegnamenti universitari la presenza psicoanalitica è ignorata».
Lei in Italia è quasi sconosciuto, mentre gode di chiara fama una «rosa» di suoi colleghi che hanno scritto libri divulgativi e sono ospiti fissi di talk-show. Ma questi psicoanalisti televisivi svolgono una funzione positiva?
«Credo che si tratti di buoni divulgatori, più “commestibili” dello psicoanalista classico che fa clinica e ricerca, ma utili perché aiutano a capire che esiste una vita psichica, che una visione psicodinamica degli eventi è necessaria. Sembra un banalità, ma una consapevolezza di questo genere non è ancora diffusa. Il rischio è l’inflazione, l’eccesso di “psicanalizzazione” che diventa banalità: basterebbe imitare l’ottimo lavoro di divulgazione fatto alla fine degli anni Sessanta da personaggi come Antonio Miotto (psicologo, scomparso nel 1997 che collaborò a lungo con il Corriere e con Oggi, ndr)».
Lei ha scritto diversi libri «tecnici» rivolti a chi fa il suo lavoro, tra questi L’empatia psicoanalitica e Passaggi segreti, ma anche due racconti, l’ultimo, Lo Zen e l’arte di non sapere cosa dire, uscito nel 2010 ancora per Bollati Boringhieri. Che cosa lo ha spinto a diventare scrittore?
«Mi piaceva l’idea di aggirarmi in argomenti della vita quotidiana. Sono racconti che scaturiscono dalla mia attività di analista e che parlano di gente comune. Di una normalità che è sempre più complessa di come ci appare. Prendiamo l’esempio del bar, luogo che tutti noi frequentiamo, apparentemente con indifferenza. Ma l’ingresso nel bar non è mai un evento neutro sotto il profilo psichico: c’è l’incontro con il barista che, se funziona, si rivela un vero e proprio micro-transfert, c’è la scelta della postazione, più meno lontana da certe persone, che è spia dei nostri desideri di relazione e di molto altro ancora».
Che cosa cambierà nella sua vita con questa nuova carica?
«Senza dubbio viaggerò più di quanto abbia fatto finora anche perché la realtà dell’International Psychoanalytical Association è sempre più globalizzata: in grande ascesa nel mondo asiatico e nel Nord Africa, soprattutto in paesi di lingua francese, come la Tunisia e il Marocco. Trovarsi a capo di un’istituzione in buona salute non è facile di questi tempi e mi dà una grande carica. Ma al centro del mio lavoro resta l’attività clinica, a contatto con la vita interna dei pazienti e la mia. Con i “passaggi segreti” della psicoanalisi che aprono porte interne e consentono trasformazioni altrimenti impossibili».
Riesce a coltivare qualche interesse al di fuori della psicoanalisi?
«Oltre all’amore sconfinato per i cani? purtroppo adesso non posso averne perché sono spesso via, colleziono disegni antichi, per la precisione dal Cinquecento all’Ottocento. Una autentica passione che è andata crescendo negli anni. La mia raccolta personale oggi ha una certa consistenza e, appena posso, cerco di incrementarla».
 
Stefano Bolognini rimarrà presidente dell’Ipa, carica ricoperta anche da Carl Gustav Jung, insieme alla vicepresidente Alexandra Billinghurst, fino al 2017.
 
http://archiviostorico.corriere.it/2013/luglio/31/virtuale_che_male_all_anima_co_0_20130731_d249eea0-f9a3-11e2-8d40-19731efe341b.shtml

 

AUDIO – Dalla trasmissione Essere e benessere – Mi rintorni in mente, condotta da Nicoletta Carbone

radio24.ilsole24ore.com, 22 luglio 2013
Essere e Benessere si parla di ricordi. I ricordi ci accompagnano nella vita, arrivano dal passato, toccano il presente e sono persino capaci di influenzare il nostro futuro. I ricordi insomma ci fanno compagnia. Nicoletta Carbone ne parla con il dr. Luigi Ballerini, medico, scrittore e psicoanalista freudiano e autore con Benedetta Bonfiglioli di Tutto il cielo possibile (Piemme Editore). Come si crea un ricordo nella nostra mente? Ne parliamo con il prof. Piero Barbanti, primario neurologo all’Istituto scientifico San Raffaele Pisana – Roma. La rete ha buona memoria. Non dimentica. Ne parliamo con il nostro Enrico Pagliarini.

http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/essere-e-benessere/2013-07-22/ritorni-mente-102955.php?idpuntata=gSLAK3gFT&date=2013-07-22
 
Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com

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