' I malati non vogliono guarire, vogliono curarsi.'
G. Simenon
Vorrei dare il via, con queste righe, ad una riflessione sul tema della guarigione e / o remissioni dei sintomi in un percorso psicoterapeutico.
Un tema che interessa tutti gli operatori del mondo psy.
Un argomento da tempo dibattuto, non scevro da contrasti e posizioni a volte radicalmente differenti.
Un dibattito a più voci che non può fare a meno della convergenza di saperi diversi ma non antagonisti, in una prospettiva clinica oggi più che mai multidisciplinare.
Uno degli elementi più frequenti nei racconti degli uomini e delle donne ai quali un clinico apre la porta, è la constatazione inequivocabile che qualcosa si è rotto. Rotto nel senso di interrotto, spezzato, staccato. Un momento a seguito del quale un senso di oppressione, asfissia dei sentimenti, ansia, dolore che attanaglia lo spirito e invalida il corpo, fa il suo ingresso nella vita del soggetto.
E’ il tempo dell’angoscia.
Si tratta di relazioni d’amore che finiscono di colpo, mariti o fidanzate che muoiono d’improvviso. Lavori persi in una mattina, imprevisti che si abbattono sul capo e sull’animo.
Amicizie che si sciolgono, ideali che si frantumano come cristalli. Figli che si allontanano.
In altre parole è la trama dei legami sociali che, in un momento particolare della vita di un uomo, non tiene più. Non riesce più a tendersi come un filato che sostiene, avvolge e culla la persona. Da un luogo che si riteneva sicuro e tranquillo, si avvertono i rumori di lacerazioni imminenti, scudisciate di capi di corda tesa mozzata con la sciabola. E quando parlo di legami sociali non voglio intendere le sole relazioni tra uomini e donne, ma mi riferisco anche al rapporto con le cose, gli oggetti, le abitudini alle quali, per un motivo o per l’altro, si era affidata la debole certezza di un’esistenza serena. Punti di appoggio che, come una imbracatura legata malamente, cedono di colpo. Sono distacchi che, avvenuti nel tempo, tornano poderosamente a far sentire i loro dolorosi effetti nel qui ed oggi, manifestandosi attraverso un sogno, un lapsus, un atto mancato. Qualcosa si è dunque rotto all’inizio di queste storie. Da questa incontrovertibile frattura di un legame nasce la spinta a percorrere quel periglioso cammino teso a cercare un filo sospeso capace di ricucire alla meglio quello strappo.
Compito arduo che, chi più chi meno, ognuno di noi cerca di portare a termine nel corso della vita.
'Guariro '? Domanda consuenta che mette alla prova, ogni volta, la pratica di anni.
Il momento simbolico nel quale si inizia a fare questo lavoro non coincide quasi mai col tempo cronologico. Iniziare a ricevere persone e dedicarsi all’ascolto del discorso del soggetto, vestito dei suoi mille paludamenti e fangoso nell’incedere, sono due tappe ben distinte. Fasi separate da un periodo di latenza nel corso del quale accadono eventi che sono cruciali nel decidere se darsi da fare seriamente con tale professione, oppure scegliere altre vie. Un periodo che ha visto lo stemperarsi dello stupore iniziale, che è poi andato al suo posto. Ancora fresco di pura preparazione accademica, mi stavo convincendo che la tripartizione nevrosi, psicosi, perversione, mi avrebbe portato ad aprire la porta ad individui i quali, da manuale, si sarebbero mossi in maniera identica e prevedibile, secondo una invarianza degna dei cloni di “Star Wars”. E che, ascoltando gli insegnamenti di fior di docenti e firo di manuali, sarebbero poi guariti.
E invece no: ho scoperto che dietro la maschera dell’ossessivo, del fobico, o del folle, si celano decine di uomini e donne che hanno scelto il sintomo come strategia esistenziale per tirare avanti come meglio era loro possibile. Un sintomo che aveva il colore dell’irriducibile particolarità del singolo, delle sue caratteristiche e del suo ritmo di vita.
Solo in quel momento ho intuito l’essenza di questo lavoro, e ho fatto mio questo concetto dell’“uno per uno”.
Il sintomo è sovente uno stratagemma capace di supplire a questa perdita, trasformando il malessere in compagno di vita. Un sintomo che fa da tappo all’angoscia, e che non vuol scomparire.
Guarire. Quante volte ho sentito questo termine ronzarmi nelle orecchie, letto o pronunciato da colleghi. Il termine “guarire” implica l’assunzione di un potere nelle proprie mani, che spesso e volentieri mal si addice a questo tipo di lavoro. Ho impiegato molto tempo a far mia questa lezione.
Quanto è lunga una vita? Poco, molto poco. Quanto impiega quell’intreccio di corpo, pensiero e sentimento che noi chiamiamo “sintomo” a crescere, sedimentarsi, divenire il fedele compagno dei pazienti? Il tempo della vita stessa sino a quel momento vissuta. E mi domando, quand’anche la psicoanalisi insegna che il compito dell’analista è quello di tendere una mano al soggetto nel momento in cui il sintomo comincia a fare troppo male, arrivando a minare l’equilibrio del soggetto, sino a che punto ci si può spingere? In base a quale tavola della Legge abbiamo il diritto, concordemente col paziente, di fare campo bruciato attorno al sintomo, affinché svanisca?
Vale la pena ricordare cosa Sigmund Freud scriveva in “Vie della psicoterapia psicoanalitica ” :
“ Noi ci siamo decisamente rifiutati di fare del malato che si mette nelle nostre mani in cerca di aiuto una nostra proprietà privata, di decidere del suo destino, di imporgli i nostri ideali e, con l’orgoglio del creatore, di plasmarlo a nostra immagine e somiglianza per far piacere a noi stessi.'
In nome di cosa, dicevo, possiamo pensare di far cadere la ritualità ossessiva in un soggetto che la porta avanti da 20 anni? Cosa mai lo aspetta dopo? Quando un individuo bussa alla porta per domandare un aiuto, si deve sempre essere ben consapevoli che quel malizioso pensiero che spesso compare, “io lo guarirò”, vada rintuzzato sino al punto, se incapaci di farlo, di dubitare che questo sia davvero il mestiere che si vuole fare.
I sintomi sono una strategia esistenziale ingeniosamente studiata e meticolosamente messa in atto, che spesso diventa un’appendice dell’individuo, capace di sostenerlo e pacificarlo. Il sintomo è messaggio, metafora e godimento, come ha insegnato Jacques Lacan.
Il luogo di analisi non deve mai tramutarsi nella bottega della facile guarigione, ma fungere da palestra di compromesso all’interno della quale il terapeuta è il custode dello spazio simbolico del soggetto. L’affidatario della stanza addobbata dai quadri dei suoi avi, dalle scene pregnanti della sua vita faticosamente recuperate nel tempo. Un tempo percorso a ritroso tra quelle pareti. Egli deve fornire un ascolto che possa indirizzare l’individuo a gestire come meglio può la vita con un sintomo, magari grave e persistente. Aiutarlo a destreggiarsi alla meno peggio in quell’atelier inconsapevole.
Vorrei che questo incipit desse al via ad una discussione su tale tema, partendo da un concetto lacaniano secondo il quale molte volte il sintomo è ‘un elemento riparatore’, qualcosa che “ non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso”.
Parte iniziale con frasi tratte dal 'Il Posto del panico, il tempo dell'Angoscia', da me pubblicato nel 2009
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