(articolo uscito su Plexus, n. 6, Maggio 2011)
Introduzione
La formazione di uno psicologo o psicoterapeuta è l’incerto esito dell’incontro tra almeno due desideri.
C’è il desiderio dell’allievo formando che si àncora su motivazioni personali (sempre), che si tramuta in una proficua inquietudine (spesso), che a sua volta si trasforma in curiosità e desiderio di conoscenza (talvolta).
Deve esserci però anche il desiderio dei suoi formatori, di cui poco o niente sappiamo, e che risulta necessario affinché il processo formativo sia generativo.
Sullo sfondo di questi due desideri troviamo i sistemi economici che presiedono alle organizzazioni formative. Tali sistemi non sono scindibili dal desiderio degli attori della scena, ma di fatto, come vedremo in seguito, ne condizionano e ne limitano l’espressione.
Vogliamo qui provare ad argomentare alcune possibili traiettorie di questo incerto incontro tra i desideri dell’allievo formando e del formatore all’interno delle attuali istituzioni formative in psicologia e psicoterapia per individuare le migliori condizioni d’intenzionamento che consentono ad un gruppo di psicologi (formandi e formatori) di realizzare il comune desiderio di apprendere il “lavoro psicologico” e di applicarlo proficuamente assieme. E, infine, vorremmo provare a capire come tale desiderio possa trovare nuove codificazioni nell’organizzazione economica dell’attuale mondo della formazione.
In altre parole, vorremmo qui provare ad esplicitare come il desiderio di formandi e formatori può rendere a sua volta virtuoso e desiderante anche l’assetto socio-economico della formazione professionale dello psicologo.
Alcuni elementi di contesto
L’attuale realtà italiana della formazione in psicologia e psicoterapia possiede delle criticità che ne fanno una sorta di caso unico al mondo, con condizioni di difficoltà che costituiscono una sorta di “microclima” inverosimile, selettivo e inflazionistico che, per queste stesse caratteristiche, appare destinato, giocoforza, a cambiare nel giro di qualche anno.
Ci riferiamo alle condizioni demografiche della professione che vedono l’Italia possedere probabilmente la più alta densità non solo di psicologi (rapporto psicologi/popolazione, che in alcune aree metropolitane supera ormai 1/400), ma anche di studenti in psicologia, e soprattutto il più alto numero di enti formatori del mondo, enti formatori pubblici (ben 26 corsi di laurea), privati accreditati (oltre 350 sedi di specializzazione in psicoterapia riconosciute dal MIUR), e ancora altre innumerevoli agenzie formative private di imprecisata provenienza e qualità. Purtroppo però tale efflorescenza di psicologi e di istituti formativi non si giustifica con una maggiore richiesta da parte del mercato del lavoro, o con un incremento proporzionale della domanda sociale in benessere e/o cura psicologica, ma sembra rispondere alla necessità di occupazione degli psicologi e, più a monte, può essere spiegata come assenza di pianificazione da parte degli organi garanti in questi anni, dalla nascita della professione ordinata ad oggi. Risultato: una quantità che è diventata fatalmente nemica della qualità.
Accade quindi, alla luce di queste politiche speculative, che il mercato del lavoro degli psicologi sia costituito in una buona misura (per alcuni colleghi in misura prevalente) dalla formazione di altri colleghi [1]. Colleghi che formano colleghi che a loro volta formano altri colleghi, o al limite che formano, spesso impropriamente, altri pseudo-operatori della cura in concorrenza diretta, in una catena insensata, dove però manca, in un’epoca di contrazione progressiva del welfare, una vera e proporzionale committenza sociale. Manca cioè nella società italiana in particolare, una politica del benessere e della cura psicologica, e dunque manca una domanda sociale effettivamente esplicitata e riconoscibile in questo senso (casomai esiste una domanda sommersa o latente tutta da verificare e intercettare). In poche parole, il lavoro di psicologo in Italia è una scommessa, o forse più propriamente una lotteria, dove però non è la fortuna che conta, ma la capacità di muoversi su scenari di mercato del lavoro di difficile interpretazione per tutti, e a maggior ragione per un neo laureato o per un giovane formando o specializzato, spesso del tutto digiuno di elementi e linguaggi adeguati per orientarsi su questa sempre cangiante mappa (vedi in Bibiliografia la sezione dedicata al mercato del lavoro in psicologia).
Chi vince e chi perde
Su questa scena darwiniana appena descritta, la maggior parte dei colleghi, quando non getta la spugna prima, galleggia per anni, sopravvive a stento o è costretto a fare altri lavori. Solo qualcuno va avanti, e alcuni dati recenti (D’Elia L., 2009, rif. Melgiovanni S.) dimostrano come già oggi solo un terzo circa (35,7%) degli iscritti all’Ordine riesce a svolgere effettivamente (cioè con una significativa retribuzione) la professione, gli altri due terzi, dato destinato a crescere, sono ben al di sotto della soglia di povertà.
Va anche aggiunto che la formazione dello psicologo in Italia coincide sciaguratamente quasi del tutto con quella dello psicoterapeuta, e che la formazione identitaria dello psicologo avviene quasi sempre dopo e al di là dell’Università, in piccoli gruppi di appartenenza coincidenti con le scuole private in psicoterapia, talora connotati da una forte autoreferenzialità e da una scarsa propensione alla ricerca e al confronto, e quindi l’un contro l’altro armati.
Questa situazione preclude ai giovani psicologi in formazione la possibilità di esplorare i numerosissimi ambiti applicativi non-clinici delle scienze psicologiche e di ricavarne attività professionali altrettanto nobili, attraenti, o strade complementari a quelle cliniche. Ma tutto ciò blocca anche, in un clima degno della peggiore Babele (dove vige una competitività esasperata), lo stimolo alla sperimentazione, il desiderio di incontro e la ricerca di nuovi metodi e linguaggi integrabili nella stessa attività psicoterapeutica.
Ed allora, ci domandiamo, chi vince e chi perde? Innanzitutto perdono la psicologia e la psicoterapia, la qualità, l’efficacia-efficienza, la credibilità sociale della professione di psicologo-psicoterapeuta, ma perdono anche tutti quei colleghi per i quali il bagaglio di competenze professionali maturato risulta troppo spesso sguarnito, alcune volte persino di competenze di base e/o specialistiche, ma soprattutto di competenze abilitanti [2], cioè di tutti quegli strumenti comuni a tutte le professioni, e che riguardano il modo specifico di essere al mondo di un professionista.
Vincono, viceversa, tutti coloro che riescono ad uscire dall’accerchiamento e dall’isolamento costituito dalle proprie lacune formative originarie, dalla cultura autoreferenziale delle scuole e dal portato culturale prevalente mercificante, riuscendo ad integrare, nella propria pianificazione professionale, le competenze necessarie per costruire progetti concreti.
Occorre allora accedere radicalmente ad un assetto cooperativo/collaborativo contrario al clima iper-competitivo e frammentante esistente, e tra le competenze che uno psicologo deve poter sviluppare diventa, a nostro parere, centrale e prioritaria la sua capacità di costruire, partecipare e collocarsi in gruppi di lavoro, la sua capacità di condividere e collaborare, la sua capacità di affrontare e superare le inevitabili fatiche e gli immancabili conflitti che ogni gruppo di lavoro comporta. La capacità dei singoli professionisti di diventare esperti nella partecipazione a gruppi di lavoro e nella risoluzione dei conflitti che tali gruppi necessariamente suscitano, diventa allora una delle principali competenze abilitanti dello psicologo.
Ci sono di conforto, riguardo queste nostre considerazioni, le prime elaborazioni applicative e in presa diretta di un possibile modello formativo che qui stiamo descrivendo (si veda Materdomini M., Dragonetto A., et al., 2009), ed i primi risultati concreti che vedono una parte dei nostri formandi e neo specializzati già orientati alla progettazione comune e operativi nel lavoro, attraverso una serie piuttosto ricca di iniziative professionali in start-up o già consolidate.
Quanto stiamo dicendo, però, contrasta fortemente con un implicito culturale attuale, molto comune anche tra gli psicologi, secondo il quale si confonde e si sovrappone la responsabilità individuale dello psicologo/psicoterapeuta con la solitudine del professionista. Si confonde altresì l’unicità individuale, patrimonio personale e formativo di ogni psicologo, con l’individualismo, portato culturale decadente della post-modernità. L’esito di questi schiacciamenti concettuali, operativamente declinati in alcuni comuni e noti atteggiamenti anti-gruppali, isolazionistici e narcisistico-onnipotenti degli psicologi, si traduce in una lacuna formativa talora inestirpabile durante il percorso di specializzazione. Aggiungiamo a questo quadro anche il costrutto privatistico, coltivato e promosso, fuori da ogni analisi di realtà del mercato, dal sistema formativo stesso pre-settato nel formare psicoterapeuti con lo studio privato nella testa (un tempo avremmo detto con il lettino nella testa), del tutto impreparati, tra l’altro, ad affrontare le sfide che la contemporaneità lancia agli operatori della salute psicologica, dove si assiste a vere e proprie mutazioni antropologiche in atto, ben al di là della capacità di lettura degli attuali modelli psicoterapeutici.
Il modello formativo vincente: comunitarismo e convivialità
Diventa urgente allora, per chi si pone l’obiettivo di un’alta formazione in psicologia e psicoterapia, provare ad invertire alcuni fattori di rischio che ostacolano il processo formativo, facendo appello a tutte le risorse culturali, e diremmo anche morali, che il nostro patrimonio di conoscenze ci mette a disposizione.
La storia della Gruppoanalisi, o se vogliamo uno dei suoi miti fondativi, ci viene in soccorso per illuminare la strada a chi immagina di applicare strumenti e metodi gruppali alla formazione di gruppi professionali.
Ci riferiamo al fatto che molti dei padri del pensiero gruppoanalitico, afferenti alla Tavistock Clinic, si ritrovarono durante la seconda guerra mondiale a svolgere il ruolo di ufficiali medici. I due esperimenti di Northfield ad opera di Bion e di Foulkes (Foulkes S.H., 1948) segnano questa saldatura originaria tra nascita del movimento delle comunità terapeutiche e gruppoanalisi. In tale mito fondativo comunitario intravediamo il primo fattore d’inversione culturale auspicabile, convinti che una formazione gruppoanalitica debba necessariamente prevedere in primis, per essere autentica, una ricca vita gruppale degli stessi professionisti non solo in ambito formativo, ma anche lavorativo-operativo.
Non sembra affatto una casualità l’associazione storica guerra-gruppo-comunità terapeutica: il conflitto mondiale, la crisi collettiva delle coscienze, la possibilità di un olocausto totale, le ideologie che come fantasmi primordiali prendono vita e trascinano le folle, la minaccia alla democrazia; tutto ciò pare abbia attivato esattamente le tendenze opposte e contrarie della cooperazione, della circolazione fruttuosa delle idee e degli affetti, di leadership non oppressive, che facilitano la crescita e l’individuazione delle risorse individuali al servizio del gruppo e viceversa (…). Un mito di fondazione, quello dei gruppi terapeutici e delle comunità terapeutiche, che trae dal caos – dall’equazione folla=follia – la sua forza ordinatrice, in un ideale passaggio dal gruppo acefalo e distruttivo al gruppo terapeutico (D’Elia L., 1998).
Il comunitarismo e lo studio delle risorse costruttive dei gruppi sono allora tentativi di risposta alla distruttività umana e alle situazioni di crisi. Sarebbe artificioso suggerire una traslazione pedissequa tra la situazione bellica di 70 anni fa e la situazione attuale. La minaccia alla civiltà e alle sue fondamenta alla quale si assiste oggi non è ad opera di bombe e totalitarismi, bensì di altri agenti dissipativi della condizione umana, in primis la frammentazione dei legami sociali, ad opera della attuali tendenze della nostra dolente civiltà postmoderna.
Estrapoliamo e decontestualizziamo questo concetto di comunitarismo dalle pratiche delle comunità terapeutiche (Rapoport R.N., 1960), concetto che s’intreccia in quel contesto con i fattori terapeutici de-istituzionalizzanti delle strutture curative, per ri-contestualizzarlo nella formazione, come principio forte dell’apprendimento interpersonale, della partecipazione, del coinvolgimento diretto del formando al gruppo di lavoro.
Per comprendere meglio cosa intendiamo occorre affiancare un altro concetto a quello di comunitarismo, ovverosia quello di convivialità, che qui indichiamo a complemento dell’assetto comunitario del gruppo di formazione. Per convivialità non ci riferiamo al semplice piacere di ritrovarsi assieme tra amici e ospiti, ma ci riferiamo all’idea di convivialità suggerita da Ivan Illich: “il rapporto conviviale, sempre nuovo, è opera di persone che partecipano alla creazione della vita sociale” (Illich I., 1973), dove ciò che s’intende per conviviale corrisponde all’uso egualitario degli “strumenti” che si utilizzano per gli scopi comuni e dove il passaggio è quello da una dimensione tecnico-utilitaristica ad una dimensione etica.
In un altro contesto, parlando della formazione in gruppoanalisi e delle funzioni dell’osservatore gruppoanalitico (D’Elia, 2004), abbiamo utilizzato, per esplicitare operativamente l’idea di comunitarismo e convivialità, la metafora della bottega artigianale rinascimentale e dello stare a bottega dell’allievo formando, come quella più vicina al modello formativo del nostro modus operandi: arte, mestiere e tecnica mescolati in un unico luogo di apprendimento a diretto contatto con l’opera [3]. Il senso della metafora dello stare a bottega corrisponde essenzialmente alla possibilità di condividere con i terapeuti più esperti lo stesso identico campo osservativo, tale per cui ben poco c’è da riferire ed apprendere in maniera indiretta o astratta.
Questo assetto gruppale rende l’osservazione e l’apprendimento immediatamente fruibili e trasmissibili, e per quanto vi siano differenze di prospettive, competenze e responsabilità tra i partecipanti all’opera in corso, il campo osservativo ed il campo osservato convergono nello stesso territorio d’indagine. La naturale evoluzione del significante “partecipazione”, riguardo gli assetti osservativi, formativi e terapeutici, appare dunque l’accesso ad assetti esplicitamente e radicalmente comunitari o conviviali. Mentre il “partecipante” può essere un iscritto, un socio, un cliente, un passante, uno spettatore, un sottoposto, un curioso, il “conviviale” può essere solo un “invitato” ed è in qualche modo “sacro” per tale motivo; convivialità inoltre richiama il significato di convivere, ovvero di condividere la medesima esistenza
L’assetto conviviale è quello che si realizza nel momento in cui tutti i partecipanti di un incontro, qualunque sia il suo scopo, percepiscono la condivisione equa delle “risorse” a disposizione da suddividere, siano esse il pane, la conoscenza o la salute.
Questo assetto è quello che maggiormente costituisce il minore attrito alla circolazione delle idee ed il minore spreco di energie mentali. Ci rendiamo conto di aver allestito un buon clima conviviale solo dopo che esso si sia realizzato e ce ne accorgiamo verificando, post hoc, la quantità e la qualità dello scambio emotivo, affettivo e di pensiero ottenuto (D’Elia L., 2004).
Cooperazione versus Competizione. Orizzontale versus Verticale
Il modello competitivo, ormai modello didattico trasversale ai diversi ambiti professionali, trova terreno fertile anche tra gli psicologi e gli psicoterapeuti, sempre più preoccupati di essere in troppi sul mercato, e per tale motivo sempre più sospettosi verso i colleghi vissuti come potenziali concorrenti. Questa diffidenza, non di rado, condanna lo psicologo/psicoterapeuta ad una solitudine che prende le mossa dal timore di condividere progettualità specifiche con i colleghi (“per paura che il collega mi rubi l’idea”, frasi, ahinoi, spesso ascoltate proprio all’interno dei contesti formativi!) e dall’idea di dover quindi agire da soli, o al massimo con qualche stretto e fedele alleato, insomma in una sorta di piccolo gruppo di eletti.
Questo modello competitivo contribuisce ad alimentare la frammentazione e le scissioni (che hanno sempre fatto parte della storia della psicologia fin dalla sua fondazione e che vengono costantemente riproposte, in svariate forme, sotto il mantello dei diversi approcci/orientamenti psicoterapeutici), e ad inficiare i tentativi di costruzione di un’identità professionale condivisa, risorsa che tanto invidiamo ad altre professioni da noi, a torto o a ragione, percepite come più “forti”.
Al modello competitivo vogliamo contrapporre il modello partecipativo/cooperativo. Esso attiene alla dimensione del fare e mira a sviluppare un sistema di relazioni virtuoso tra colleghi, che superi le contrapposizioni teoriche, non facendo finta che esse non esistano, bensì capendo se la loro integrazione (magari anche parziale) sia effettivamente così nefasta per le sorti della psicologia o se, al contrario, possa diventare fertile contaminazione.
Il paradigma partecipativo/cooperativo rappresenta per il mondo della psicologia una sfida prima di tutto “culturale”, perché obbliga a cambiare pelle, sistema di valori, modalità di comportamento ma, in fondo, questa sfida rappresenta anche la naturale realizzazione di modalità operative più rispondenti e coerenti con gli obiettivi stessi che la nostra professione si propone.
Vogliamo anche contrapporre al modello verticale un modello in cui l’orizzontalità delle relazioni prevale sull’organizzazione verticistica.
L’adozione di un modello formativo orizzontale implica un mutamento dello stile comunicativo: al tradizionale modello uno-molti si aggiunge quello del tipo molti-molti, che rende possibili scambi comunicativi non solo fra docenti e allievi, ma anche fra gli stessi allievi.
In esso la conoscenza è sempre più una costruzione personale, che si struttura tramite un processo esperienziale attivo, e per tale motivo l’importanza del contesto in cui si situa l’apprendimento, per esempio di una “comunità di pratica”, diventa centrale (Dell’Aquila P., 2004).
Questo modello implica anche la capacità del formatore di “rinunciare” ad un ruolo “forte” e “direttivo”: il docente non è più l’unico detentore della sapienza/conoscenza, ma diventa il promotore ed il coordinatore di un processo. Cambiano radicalmente i compiti e le mansioni dei formatori, che risultano meno depositari di verità preconfezionate e sempre più promotori di riflessioni e dibattiti (ibidem). Si scopre il valore delle comunità di apprendimento e della cooperazione sociale come mezzo per far nascere il sapere. Bianca Maria Varisco enuncia così i principi che regolano l’apprendimento «considerato come “pratica culturale situata”:
o L’apprendimento è una pratica fondamentalmente sociale;
o La conoscenza è integrata e distribuita nella vita della “comunità di pratica”;
o l’apprendimento è un atto d’appartenenza alla comunità
o L’apprendimento è coinvolgimento nelle pratiche della comunità;
o Il coinvolgimento è legato alla possibilità di contribuire allo sviluppo della comunità
o stessa;
o Non si impara quando ci è negata la partecipazione a una comunità
(Varisco B. M., 2002).
Un processo formativo, e quindi di apprendimento, fondato sul principio di orizzontalità dovrebbe essere funzionale al costituirsi di una comunità di apprendimento, intesa come spazio di co-costruzione dei processi di apprendimento. Questo tipo di comunità, definibili “comunità di pratiche”, sono sottese da una concezione del sapere come risultato di un processo nel quale i soggetti mettono reciprocamente a disposizione le loro esperienze. La conoscenza diviene quindi un fenomeno sociale, fortemente integrata in una rete di valori, credenze, linguaggi e stili di vita (Wenger, McDermott e Snyder, 2002). La comunità di pratica unisce inscindibilmente il processo di apprendimento ed il senso di appartenenza ad essa.
Il gruppo-équipe come incubatore elettivo dell’identità professionale
Chi abbia avuto l’occasione di far parte di équipe terapeutiche oppure d’intraprendere, già in fase formativa, iniziative professionali a partire da un background gruppoanalitico, sa bene che un gruppo curante ha, in misura esponenziale, maggiori possibilità rispetto al singolo terapeuta di elaborare sia i processi di appartenenza, sia di sciogliere le rigidità formative ed i fondamentalismi ideologici derivanti dall’inesperienza e dalle singole matrici formative. In sostanza, chi si forma dentro gruppalità professionali orientate al lavoro cresce più “forte” e formato e con la mente più aperta di chi si confina in ambientazioni formative individualistiche, frammentarie, isolate, accademiche, carismatiche, monoculturali (D’Elia L., 2008).
Il gruppo-équipe per sua natura, quando non è l’appendice di leadership suggestive, affiliative o carismatiche, consente un lavoro profondo sulle proprie matrici socio-professionali e sull’identità professionale, che in genere altri approcci più tecnicistici, dogmatici o solo più individualistico-verticistici, non consentono.
Vediamo perché.
La professione dello psicologo-psicoterapeuta obbliga preliminarmente, per chi decida d’intraprenderla, ad una vasta e profonda elaborazione sulle matrici personali di tipo motivazionale. Tale elaborazione riguarda l’identità professionale ed avviene all’interno di contesti formativi, scientifici, culturali, a stretto contatto con “maestri”, analisti, colleghi, pazienti, gruppi istituzionali, tradizioni istituzionali. Uno stare a bottega, come detto, dove l’allievo è di fatto inserito, fin da giovanissimo, nella famiglia allargata dei docenti e da loro apprende il mestiere. Certo, se questa famiglia è a matrice satura ed endogamica, il futuro dell’allievo appare segnato; se questa famiglia è viceversa anche una comunità scientifica a tutti gli effetti, aperta al mondo e con un profilo etico elevato, per l’allievo la bottega è un’occasione imperdibile per apprendere.
L’identità professionale, che include, tra le altre cose, la visione del ruolo sociale dello psicologo-psicoterapeuta, è lo sfondo dal quale si sviluppano le metodologie, le tecniche, gli approcci, lo stile e l’etica professionale, ed è essa stessa vero e proprio strumento di lavoro. L’identità professionale sviluppa, perciò, il suo percorso di ricerca all’interno di appartenenze gruppali e l’esito di questa lunga elaborazione (in un certo senso mai conclusa) è decisiva per lo sviluppo della personalità professionale.
La nostra esperienza c’insegna che i lavori delle équipe terapeutiche o di gruppi operativi (anche in altri ambiti non strettamente clinici) approfondiscono enormemente il potenziale elaborativo della formazione della personalità del singolo professionista, specie laddove convergano su queste équipe le multiculturalità delle diverse scuole di pensiero che, se divise, tendono fisiologicamente a diventare autoreferenziali.
Probabilmente, allora, la personale domanda sull’identità professionale passa attraverso una serie di altre domande che riguardano non solo il percorso formale o disciplinare nell’apprendimento di tecniche psicologiche, ma anche la collocazione etica e sociale della professione e la sua declinazione nella pratica quotidiana.
L’immagine dell’esperto psichista che pontifica nel chiuso del suo studio turris eburnea, forte del suo bagaglio tecnico o del sapere travasato dal suo personale guru, è sicuramente da archiviare a favore di altre interpretazioni della professione meno difensive e più calate nella quotidiana realtà di vita. Siamo altresì convinti che nessun processo trasformativo (intervento efficace o di cura) possa aver luogo se non all’interno di precise cornici storiche, antropologiche, sociali, teoriche, e che l’appartenenza del professionista ad orizzonti di senso culturalmente determinati coincida in larga parte col suo potenziale di efficacia.
Molta dell’efficacia del nostro lavoro è data dunque, a parer nostro, dalla consapevolezza che ciascuno psicologo o gruppo-équipe ha delle proprie appartenenze “istituzionali” e culturali, e che gli stessi processi di cura “funzionano” sulla base delle appartenenze.
Intendiamoci, il lavoro delle équipe e la semplice “convivenza” nei gruppi di lavoro sono maledettamente difficili e faticosi, sottopongono ognuno di noi ad una continua quanto faticosa mediazione con l’altro, che però nel lungo periodo è enormemente ripagante (D’Elia L., 2008).
Creare un’équipe: alcune coordinate operative
È possibile dunque cominciare ad utilizzare i contesti formativi come occasione di contatti con colleghi (indipendentemente dalla contiguità modellistica). L’incontro tra colleghi di generazioni anche differenti veicolato dal “pre-testo” formale dell’apprendimento alla psicoterapia, può e deve diventare occasione per intrecciare relazioni professionali durature e fruttifere.
Noi sappiamo, come esperti di gruppalità, che ogni gruppo di psicologi che si riunisce per agire con pensiero e strategie operative su un oggetto di lavoro fonda un campo mentale psicologicamente orientato.
Se poi questi psicologi lavorano assieme in maniera continuativa e periodica in un medesimo contesto operativo, questo campo mentale si struttura e va a costruire un assetto istituzionale, cioè un intreccio-matrice portatore di determinate coordinate, quella che qui stiamo appunto definendo come unacomunità di apprendimento e lavoro.
Si costruisce nel tempo, dentro questa nuova matrice professionalmente orientata, una autoriflessività che consente una facile introiezione del campo gruppale. In altre parole, il flusso e le caratteristiche di questo campo mentale diventano oggetti di lavoro dell’équipe psicologica, cioè la capacità del campo mentale di riflettere su se stesso e di correggere flessibilmente il proprio assetto diventano peculiarità distintive del lavoro dello psicologo. Dunque: riflessione, verifica e revisione in ogni momento.
Noi sappiamo che il pensiero condiviso di un campo mentale gruppale è più produttivo, più ampio, più articolato, del campo mentale individuale del singolo professionista e col tempo questo pensiero condiviso diventa ineludibile punto di riferimento interno a ciascun membro.
Per fondare un’équipe diventa essenziale (secondo la nostra esperienza diretta nella fondazione di diverse équipe terapeutiche e non) andare ad individuare la costruzione dei confini che segue queste direttrici:
· Fattore Lavoro Comune e Motivazione: se non c’è questo “collante”, diventa difficile immaginare la fondazione di un’équipe. Importante dunque un’iniziale selezione naturale del gruppo in modo tale che esso risulti alla fine formato dalle persone maggiormente focalizzate sugli obiettivi di lavoro.
· Fattore Tempo: per costruire un’équipe che funziona ci vogliono molti mesi; è un vero e proprio investimento che può durare anni (e più si comincia prima e più solida è la “casa”).
· Fattore Periodicità, Set e Regole: un’équipe ha senso se si dà degli appuntamenti regolari e frequenti e delle regole-base di collaborazione ed un modus operandi condiviso (vedi co-visione)
Diventa centrale il clima lavorativo delle riunioni, che naturalmente non dipende solo dalle buone intenzioni dei singoli partecipanti, ma anche da alcuni accorgimenti organizzativi come il decidere un inizio ed una fine certi delle riunioni, la capacità dell’équipe di prendere decisioni prima di congedarsi, la capacità di quel gruppo di non “affossarsi” in dinamiche interpersonali competitive o simili, ma anche, vorremmo aggiungere, la capacità di un gruppo di non escludere dal proprio stile lavorativo una certa leggerezza di base ed un piacere condiviso all’incontro: un’équipe “seria” scherza moltissimo!
Allo stesso tempo, è importante saper gestire un’economia comune con estrema chiarezza ed equità, come è centrale saper affrontare la sfida continua della divisione dei compiti pratici.
Occorre imparare prestissimo a superare le eventuali crisi interpersonali che dovessero insorgere attraverso un’incrollabile volontà al dialogo pur di arrivare ad una mediazione. Ma soprattutto de-personalizzare gli inevitabili dissidi, rendersi conto che essi sono l’esito di una difficoltà legata ad un“altrove”, al compito istituzionale e non a fattori personali. Ansie, preoccupazioni, timori, legati ai compiti che ci si è posti. Solo quando si coglie il timore di fondo sotteso al dissidio che si può andare oltre.
Nella fondazione di un’équipe inoltre, è fondamentale curare attentamente l’aggiornamento continuo, e farlo in maniera comune è più economico e produttivo. È anche consigliabile utilizzare l’équipe per condividere sia letture ed interessi professionali (possibilmente legati all’operatività), sia supervisioni e steps formativi. In questo modo si costruisce un linguaggio comune.
Ovviamente è altrettanto importante mantenere l’assetto gruppale sia sul lavoro operativo con i multisetting (utilizzando laddove necessario setting individuali, familiari e di gruppo), sia prevedendo riunioni di équipe periodiche in assetto di co-visione (o intervisione), sia svolgendo sistematicamente supervisioni di équipe.
Conclusioni: per un’organizzazione desiderante della formazione psicologica
Riassumendo, abbiamo ipotizzato come vincente, cioè efficace/efficiente, un assetto formativo fondato sulle seguenti dimensioni:
1. comunitarismo
2. convivialità
3. cooperazione
4. orizzontalità
5. incubazione gruppale dell’identità professionale
Ma per rendere queste dimensioni realmente operative è necessario prevedere alcuni pre-requisiti. Tali pre-requisiti riguardano da un lato quello che abbiamo chiamato il desiderio del formatore, dall’altro occorre intervenire direttamente sul modello economico che sovraordina la cultura e il sistema formativo.
Il primo pre-requisito ci riporta alla figura del formatore di cui, come accennavamo all’inizio, ben poco si sa, se non che si tratta di un collega, generalmente più “anziano”, e che spesso ha seguito lo stesso percorso formativo del terapeuta in formazione. In tal senso, il formatore spesso appartiene alla comunità nella quale anche il giovane psicologo si va formando e ne condivide principi, riferimenti teorici e metodologici, regole e vincoli. La prima cosa che ci sembra importante evidenziare è quindi che il formatore passa al suo allievo – nel senso che gli metacomunica – innanzitutto il sentimento di appartenenza o, detto in altri termini, la propria istituzione interna. Qui risiede, a nostro parere, la sua responsabilità in quanto formatore.
Affinché sia in grado di sviluppare un processo formativo che poggi sulle dimensioni prima ampiamente descritte (cooperativismo, comunitarismo, ecc.) è necessario allora che il formatore sia riuscito a trasformare il bisogno di appartenenza, inteso come rassicurante e acritico rifugio all’interno di un gruppo chiuso, autoreferenziale e settario, in un vero e proprio desiderio di appartenenza, fondato invece sulla partecipazione a quella stessa comunità di apprendimento che egli ha il compito di promuovere e sollecitare presso i colleghi in formazione. Una comunità di apprendimento che trova l’applicazione più genuina del principio di convivialità, prima richiamato, quando vede sedere allo stesso tavolo e mangiare le stesse pietanze, formatori e formandi. La metafora della tavola e del cibo non è casuale, dal momento che pensiamo non si possa scindere in questo discorso l’aspetto teorico-specultativo da quello economico-organizzativo. Ciò significa, in altri termini, che il vero obiettivo formativo si realizza quando formatore e formando sono animati dallo stesso desiderio di dare vita ad una progettualità professionale condivisa, con una ripartizione equa delle risorse che da essa derivano.
Ed ecco allora il secondo dei pre-requisiti, il cambiamento del modello economico sovraordinato dell’organizzazione formativa e della sua cultura istituzionale, a nostro parere necessario affinché una cultura formativa sia realmente efficace e autenticamente calata nella realtà dei processi sociali, in questo caso quelli che presiedono alla formazione alla professione.
Mettere mano nella sostanza economica che presiede ai modelli formativi significa transitare coraggiosamente verso pratiche di partecipazione e condivisione conviviale dei progetti professionali. Solo così l’economia può diventare desiderante, solo così una comunità di apprendimento può diventare al contempo una comunità di apprendimento e lavoro, introducendo cioè l’idea che una formazione in psicoterapia che risulti efficacemente orientata al mercato del lavoro, poggia su una solida identità professionale frutto dell’appartenenza ad una comunità, la cui matrice conviviale consente fin da subito una progettazione comune e professionalmente finalizzata.
Pensiamo agli assetti formativi di co-visione e partecipazione ad un lavoro di équipe permanente; pensiamo alla costruzione di centri psicologici e clinici socialmente orientati e accessibili; pensiamo alla realizzazione di progetti sociali ad ampio spettro e di agenzie associative di professionisti, e ad altre innumerevoli iniziative possibili da mettere in campo, nelle quali la responsabilità del formatore sia calata nel cuore delle pratiche professionali dei formandi.
Oggi, viceversa, riscontriamo una perfetta coerenza culturale tra l’impianto economico-organizzativo della maggior parte degli attuali sistemi formativi e la maggioranza degli assetti mentali che ritroviamo nelle scelte formali, contenutistiche e metodologiche degli enti di formazione. Inevitabilmente un sistema formativo figlio di una cultura economico-politica mercificante e sfruttante, che in altre occasioni abbiamo definito autofagica (D’Elia L., 2009), produce a valle una formazione ideologizzata, standardizzata, schiacciata verso il basso sia in senso tecnicistico-neopositivistica, sia in senso dogmatico-disciplinare. Tende ad abbassarsi drammaticamente, al contempo, il profilo etico e scientifico degli enti formativi, aumenta il rischio di soprusi e di scorrettezze formali e sostanziali, si vendono illusioni e strumenti inapplicabili e anacronistici, fino al rischio di trasformare le scuole di formazione in piccole chie-sette locali. Tutto ciò in diretta osservanza del principio speculativo economico che è a monte dell’intero sistema.
Intervenire sulle regole economiche (e di conseguenza organizzative) significa allora modificare la grammatica ed il linguaggio sottesi ai rapporti sociali che insistono nelle istituzioni formative. Limitare i passaggi e le quantità di denaro al minimo indispensabile, sostituendoli con un’economia basata sullo scambio esperenziale e su un’organizzazione dell’impresa comune, trasforma l’offerta formativa da sterile relazione erogatore/consumatore di servizi a laboratorio gruppale e fucina di iniziative.
Ci siamo qui limitati ad indicare alcuni presupposti teorico-culturali di massima per lo sviluppo di una cultura formativa comunitaria/cooperativa, lasciando ad una successiva elaborazione la possibilità di declinazioni più operative, che devono potersi incarnare nelle diverse esperienze locali.
Bibliografia
o Cipolla C., 1974, Storia economica dell’Europa pre-industriale, il Mulino, Bologna.
o D’Elia L., 1998, La Comunità Psicoterapeutica Residenziale e il suo Campo Mentale, in “Interazioni” 2-1998/12, F. Angeli Editore.
o D’Elia L., 2004, Lo stare a bottega (inquieto) dell’osservatore gruppo analitico, COIRAG, sede di Roma, Giornata di studio sul training, 20/11/2004. Scaricabile qui
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Per chi volesse approfondire sul mercato del lavoro dello psicologo e psicoterapeuta può consultare le seguenti recenti ricerche e pubblicazioni:
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* Psicologo Psicoterapeuta Gruppoanalista del Laboratorio di Gruppoanalisi sede di Roma.
** Ricercatrice, Psicologa Psicoterapeuta Gruppoanalista Laboratorio di Gruppoanalisi sede di Roma
Note
[1] Occorre doverosamente precisare che gli scriventi lavorano nella formazione in maniera del tutto marginale a fronte del prevalente impegno nella professione a contatto di un’utenza di non psicologi.
[2] Le Competenze Abilitanti sono competenze condivise da molte professioni e forniscono strumenti e capacità per muoversi meglio in un contesto di mercato competitivo: gestione progetti, auto-promozione, auto imprenditorialità e marketing, aspetti legali e fiscali, avvio attività, inglese, uso delle nuove tecnologie come il web, ecc.
[3] “Il contratto che in passato prevedeva l’affidamento di un giovane ad un mastro di bottega era piuttosto vincolante per tutti: il ragazzo era tenuto a vivere presso la casa del maestro per molti anni custodendone i segreti, stando gratuitamente a completa disposizione del maestro e rispettandone gli ordini non solo riguardo il lavoro ma anche la propria vita privata (un vero asservimento); il maestro in cambio era tenuto a mantenerlo, ospitarlo e trasmettergli il proprio sapere. Se il giovane era fortunato, trovava una comunità familiare di adozione e la possibilità di apprendere facendosi benvolere come allievo-figlio; se era sfortunato, trovava un gaglioffo che lo sfruttava e maltrattava come infimo lavorante” (D’Elia L., 2004, rif. Cipolla C., 1974).
Articolo molto interessante.
Articolo molto interessante. Grazie