Una certa psicoanalisi applicata al lavoro istituzionale ha per troppo tempo ignorato il fatto che per lavorare con pazienti ignari del compito da perseguire, il silenzio del terapeuta e l'assenza di prescrizioni diverse dai limiti spazio-temporali del setting, avrebbero generato soltanto stupore, timore, confusione e mutismo.
Poiché non fu facile per me uscire dalle rigide prescrizioni impartitemi durante gli anni della mia formazione, ed essendo le mie capacità di improvvisazione e di adattamento a situazioni inesplorate piuttosto misere (e per di più scoraggiate dal sistema formativo), ebbi la possibilità di percepire che il mio linguaggio era incomprensibile a chi mi stava di fronte per mere ragioni culturali e non già a causa di resistenze inconsce, quando mi capitò di lavorare con bambini, con giovani, e, soprattutto, con pazienti provenienti dal Terzo Mondo. Che significato poteva avere, infatti, per un giovane africano andarsi a sedere una volta la settimana di fronte a un dottore senza camice né strumenti, che non prescriveva farmaci e per di più rimaneva in silenzio?
E qual era la posta in gioco di fronte a tale tipo di scacco? La pronuncia di un'ennesima diagnosi di "inanalizzabilità" o la sconfessione in blocco della psicoanalisi come strumento psicoterapeutico?
Eravamo stati con qualche ragione educati a "non inquinare il campo", mantenendolo vuoto di qualsiasi nostra produzione (che, lo avremmo capito molto tempo dopo, si sarebbe manifestata ugualmente in forme non verbali e inconsapevoli), per consentire all'inconscio del paziente di manifestarsi sotto la spinta dell'angoscia da frustrazione, ma tale risultato richiedeva per lo meno un minimo di consapevolezza del compito e un grado di alleanza di lavoro almeno embrionale. Invece, così comportandomi, mi capitò di perdere per strada moltissimi pazienti.
I testi di Irvin Yalom ("Momma and the Meaning of Life: Tales of Psychotherapy", non tradotto in italiano. Per i lettori francofoni: "La Malédiction du chat hongrois. Contes de psychothérapie". Disponibili online anche come e-book), dovrebbero essere usati per formare i giovani psicoterapeuti ben prima di quelli di Bion (che invece fu pane e companatico della nostra intimorita gioventù professionale, mentre la sua opera grandiosa può essere più proficuamente messa a frutto durante la maturità), data la loro attitudine pratica a rappresentare una psicoterapeutica che, paradossalmente, vorrei definire "senza memoria né desiderio", proprio perché capace di inventarsi ogni volta a partire dalla realtà del paziente, sia esso ambulatoriale o ricoverato in un reparto ospedaliero o in una comunità terapeutica, pur tenendo ferme alcune indicazioni di metodo che fungono da stimolo all'uso della fantasia, e che guardano all'introspezione come un obbiettivo da raggiungere e non necessariamente come un punto di partenza.
Sono d’accordo con quanto hai
Sono d’accordo con quanto hai scritto e con l’idea che una impostazione troppo rigida e dogmatica così come talvolta viene insegnato sia estremamente deleteria. Tuttavia, e prendendo spunto dal titolo, penso anche che l’improvvisazione in seduta , con i pazienti, sia necessaria e imprescindibile solo se inserita all’interno di un processo che improvvisato non è.
Come in musica , anche classica, e per di più jazz, la parte lasciata alla improvvisazione non è mai casuale, ma segue precisi schemi. La creatività analitica , penso, non sia frutto del puro andar a caso, ma in sinfonia, linea con i temi del paziente rielaborati, creativamente dal terapeuta.
Il tema comunque è affascinante e complesso.
Stefano Pozzoli