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Ottobre 2013 III – Utopie e civiltà, storia e… calcio

23 Ott 13

A cura di Luca Ribolini

LUIGI ZOJA, L’EROE PICCOLO PICCOLO DISARMA CHE GUEVARA. Dopo il fallimento delle grandi idee è tempo delle utopie minimaliste: “Guardarsi dentro e agire in modo più cosciente, giusto, compassionevole”
di Francesco Manacorda, lastampa.it, 15 ottobre 2013*

«La “generazione impegnata” degli Anni ’60-’70 aveva qualcosa di maniacale nella sua contestazione, nel chiedere tutto e subito. Un’utopia che chiede di realizzarsi immediatamente è una contraddizione in termini. Quando mi ritrovai a un corteo dove si gridava “Padroni borghesi/ancora pochi mesi” rimasi sconcertato. Ero sufficientemente cosciente di appartenere a una famiglia di borghesi; i miei erano piccoli imprenditori e quindi padroni. Ma a mio padre non auguravo certo pochi mesi di vita, bensì una lunga esistenza. In effetti è morto centenario». Anche per questo il laureato in Economia alla Bocconi Luigi Zoja lascia quelle contestazioni sessantottine in salsa milanese e parte per Zurigo, dove studierà all’Istituto Jung diventando poi uno psicoanalista e saggista di fama internazionale.
Tornano alla mente adesso, quegli slogan, nel raccontare il fallimento delle utopie massimaliste del XX secolo – quasi sempre finite nel segno della violenza, «nella distruzione dell’uomo vecchio prima dell’ipotetica creazione di un uomo nuovo, che poi regolarmente non si è realizzata» – alle quali Zoja contrappone le Utopie minimaliste, come si intitola il suo libro appena uscito per Chiarelettere. «Non possiamo affidarci a nessuna utopia – scrive – sperare in nessun cambiamento, se prima non ci fermiamo un attimo, non ci guardiamo dentro e non cerchiamo di agire in modo più cosciente: più giusto, più compassionevole verso gli altri e verso noi stessi».
Sono utopie minimaliste, racconta, quelle di chi sceglie di limitarsi nei consumi, di essere vegetariano, di chi difende l’ambiente, di chi vuole affermare diritti come quello all’aria pulita, al silenzio, alla luce naturale. Non una rivoluzione individuale, «perché la rivoluzione porta la sua richiesta di cambiamenti immediati, ma un lavoro su sè stessi, ciò che in linguaggio junghiano si chiama “individuazione”», ossia un processo di crescita in cui l’individuo si differenzia dal suo gruppo e si costruisce poi una propria identità. «A differenza di quello del XX secolo – scrive ancora – il vero “eroe” del XXI non lotta più sapendo cosa il mondo vuole da lui, ma per sapere cosa vuole da se stesso».
Se bisogna scegliere esempi concreti per rappresentare la dicotomia tra le utopie massimaliste e quelle minimaliste, la scelta cade su Che Guevara e Olof Palme: il primo «altruista assoluto» che «fu in sostanza egocentrico», icona rivoluzionaria che trova una morte «eroica» ma finisce per diventare «uno stereotipo irreale quanto Tarzan»; il secondo che trasforma invece politiche concrete gli ideali della socialdemocrazia scandinava e «perde la vita anche lui, ma da “eroe borghese”», ucciso mentre va al cinema con la moglie e non mentre cerca di esportare la rivoluzione.
Ma c’è anche un percorso logico e cronologico che lega la «generazione impegnata» che ha spesso sognato e talvolta praticato le utopie massimaliste, a quella che Zoja chiama «la nuova generazione critica», che sceglie invece utopie di segno opposto. «La vecchia “generazione impegnata” – spiega – aveva due anime: una di stampo sociale, che cercava la giustizia; l’altra legata alla liberazione del desiderio. Si tratta però di anime asimmetriche: per ottenere la giustizia devi lavorare ogni giorno; per liberare il desiderio invece no. Nel conflitto tra queste due anime ha vinto la liberazione del desiderio, che ha aperto inconsciamente le porte al consumismo. In termini junghiani, con l’aiuto del consumismo il “puer” ha vinto sul “senex”, il volere tutto e subito e l’utopia istantanea hanno trionfato, segnando però in questo modo la vittoria del capitalismo». Un trionfo che passa per una generazione di mezzo che si guadagna la definizione di «indifferente»: «Il consumismo è il contrario di un’utopia, che è un progetto nel quale uno include anche i propri figli. Con il consumismo, invece, divoro il futuro, l’ambiente, anche l’economia visto che aumentano i debiti, e dunque mangio anche quello che spetterebbe ai miei figli».
Sono proprio quei figli che adesso si interrogano in modo critico su temi come la distribuzione del reddito o il rapporto tra l’uomo e la natura, mettendo in atto comportamenti concreti e coerenti: «Il minimalismo non è affatto minimalista. Anzi, è qualcosa di radicale perché chi aderisce a questo senso critico generale non lo fa solo per un problema di giustizia sociale, ma anche di giustizia verso le altre forme di vita e verso l’ambiente. È un impegno trasversale, ma anche longitudinale, che guarda verso il futuro».
Ma le utopie minimaliste possono davvero mirare a cambiare la società? E possono farlo anche in assenza di movimenti collettivi come quelli del secolo scorso? «Certo, ci vorrebbe una maggiore aggregazione. Io sono troppo in là con gli anni e troppo poco tecnologico per capire quanto le aggregazioni virtuali possano sostituire quelle reali. Però, mentre la “generazione dell’impegno” è stata sopravvalutata anche perché molto rumorosa, penso che la “nuova generazione critica” sia invisibile ma potenzialmente più numerosa di quella passata, composta da un’infinità di giovani che fanno scelte concrete pagandole anche a livello personale».
 
http://www.lastampa.it/2013/10/15/cultura/tuttolibri/luigi-zoja-leroe-piccolo-piccolo-disarma-che-guevara-JP6bcJcYfF0ODnaXm77UUM/pagina.html
 
*Il pezzo è apparso anche su Tuttolibri – La Stampa il 12 ottobre 2013

QUELLA DEDICA DI FREUD AL DUCE… di Roberto Festorazzi avvenire.it 16 ottobre 2013

Il 25 aprile 1933, Sigmund Freud ricevette nel suo studio viennese due personaggi italiani, venuti per un consulto: si trattava dello psicoanalista ebreo triestino Edoardo Weiss e del drammaturgo Giovacchino Forzano.

Al termine dell’incontro, i due visitatori donarono al padre della psicoanalisi un volume contenente la traduzione tedesca di una raccolta di drammi dello stesso Forzano scritti in collaborazione con Benito Mussolini. Freud contraccambiò con una copia, diretta al Duce, del suo Warum Krieg? (Perché la guerra?), scritto a quattro mani con Albert Einstein.
La dedica, vergata dall’autore, era assai impegnativa e recitava testualmente: «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà». Ignoriamo se il Duce lesse mai il libro inviatogli in omaggio da Freud, che si conserva tra i resti della sua biblioteca, all’Archivio Centrale dello Stato di Roma. Quel che è certo, è che, due mesi più tardi, uscì sul Popolo d’Italia un articolo dello stesso Mussolini, nel quale si definiva la psicoanalisi un’impostura. Quindi, quella dedica all’«eroe della civiltà» non fece colpo sul destinatario.
Le parole usate da Freud vanno di fatto oltre la mera espressione di cortesia formale e sono state variamente interpretate, dai molti studiosi e biografi che ne hanno scandagliato la vita e l’opera. C’è chi ha colto in quella manifestazione di deferenza la prova di una presunta ammirazione del fondatore della moderna teoria dell’inconscio, nei confronti del dittatore, mentre altri hanno tentato di minimizzare la portata della dichiarazione, vedendovi null’altro che il riconoscimento delle benemerenze del Duce nel campo dell’archeologia, sfera che stava particolarmente a cuore al medico neurologo austriaco.
Ora interviene nella disputa lo storico Roberto Zapperi, che in un agile libro di Franco Angeli (Freud e Mussolini, 144 pagine, 18 euro), in libreria nei prossimi giorni, sembra propendere per una via di mezzo, tra le posizioni dei colpevolisti e degli innocentisti. Zapperi, in sostanza, pur negando che Freud nutrisse qualche forma di simpatia nei confronti di Mussolini e del suo regime, ritiene fondata la tesi di coloro che hanno voluto ricollegare la dedica entusiastica del padre della psicanalisi alla sua speranza che il Duce potesse impedire l’Anschluss, ossia l’annessione dell’Austria al Reich tedesco.
Una prospettiva, questa, che Freud aborriva, anche per una ragione squisitamente personale: era ebreo. Il padre della psicoanalisi non era il solo ad appellarsi alle virtù politiche del condottiero dell’Italia: anche la leadership austriaca, in primis il cancelliere Engelbert Dollfuss, destinato a perire per mano di agenti nazisti nell’estate del ’34, riponeva i propri voti augurali nell’intervento del dittatore di Roma. Dollfuss capì che l’antidoto alla brutale nazificazione dell’Austria consisteva nella fascistizzazione del Paese transalpino. Ma si trattò di un’illusione di breve durata. Se Mussolini, ancora nell’estate del ’34, inviò due divisioni dell’esercito al Brennero per dissuadere Hitler dal compiere l’Anschluss, appena due anni più tardi cominciò a cedere alle pretese del Führer avviando la politica dell’Asse. E, nel marzo del ’38, l’annessione divenne un fatto compiuto.
È comunque nelle pieghe del pensiero intimo di Freud, specie nei suoi carteggi familiari, che l’autore rintraccia gli elementi che consentono di collocare l’inventore della psicanalisi nello spazio politico del suo tempo. Esercizio non facile, perché l’uomo di scienza non amava manifestare le sue idee politiche, che erano quelle di un liberale piuttosto conservatore. Zapperi, nel suo studio, a mio modo di vedere, esagera nel sottolineare l’avversione di Freud verso i fascismi in generale, e in particolare verso la figura di Mussolini. In realtà, noi non possediamo elementi in grado di stabilire, senza ombra di dubbio, che il celebre neurologo fosse apertamente antifascista. Semmai, la sua duttilità pragmatica lo conduceva, quali che fossero le sue intime convinzioni, a considerare il Duce e il suo modello politico, come un male minore, di fronte alla minaccia nazista.
Anzi, Freud faceva speciale affidamento sul cattolicesimo nazionale austriaco, considerandolo un argine naturale contro la marea nazista. È quindi sulla base di un calcolo strettamente realistico, che il papà della psicoanalisi espresse giudizi estremamente benevoli, nei confronti del regime filofascista di Dollfuss, ritenendolo l’unica alternativa agli opposti estremismi che avrebbero condotto l’Austria a perdere la propria indipendenza: da una parte, il bolscevismo, dall’altra il nazionalsocialismo.
Ma Zapperi va oltre tutto ciò e ci offre un vero scoop. Occupandosi, invece, dell’atteggiamento che il regime fascista riservò alla psicoanalisi e al fondatore della teoria dell’inconscio, l’autore ha scoperto che, nel 1930, la questura di Roma emise contro Freud un provvedimento di fermo, che sarebbe scattato nel caso in cui lo scienziato della psiche avesse messo nuovamente piede in Italia, dove mancava dal ’23. Non c’è dubbio che il fascismo non approvasse la psicoanalisi, che considerava un prodotto dell’ebraismo internazionale. Ma, anche qui, occorre evitare conclusioni improprie.
Diversamente da quanto accadde in Germania, dove i seguaci di Freud vennero perseguitati, e le loro istituzioni smantellate, in Italia l’opposizione fu alquanto più sfumata. Altrimenti, non si spiegherebbe la ragione per la quale Giovanni Gentile consentisse allo psicoanalista di religione israelita Emilio Servadio, di redigere alcune voci dell’Enciclopedia Treccani, come quella su Freud. Non solo: Servadio, che fu membro della redazione dell’Enciclopedia fin dal 1928, fu protetto da Gentile almeno fino al varo delle leggi razziali. Quanto a Freud, dovette, suo malgrado, abbandonare l’Austria, dopo l’Anschluss, per stabilirsi in Inghilterra. Morì a Londra, nel settembre del ’39, pochi giorni dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale.
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/quella-dedica-di-freud-al-duce.aspx
 

 
BOCCACCIO ERA IL PORTIERE. SIGMUND FREUD, UN GIOCATORE DA SOGNO
di Silvano Calzini, quasirete.gazzetta.it, 17 ottobre 2013
 
Soprannominato “la sfinge di Vienna”. Centromediano metodista della grande Austria e giocatore simbolo della leggendaria scuola danubiana. Inconfondibile con il numero 5 sulla maglia, barba sempre curata, l’aria severa, silenzioso: un leader naturale, in campo e fuori. Professionista ineccepibile, per tutta la sua lunga carriera si è diviso tra lo stadio del Prater e la sua abitazione viennese in Berggasse 19, davanti alla quale spesso stazionavano tifosi isterici. Nel tempo libero collezionava statuette antiche e aveva un debole per i sofà.
È considerato l’inventore del Traumfussball, il “calcio onirico” perché fu il primo a rendersi conto che i giocatori di calcio non sono altro che dei bambinoni viziati e soprattutto nevrotici. Intuì che bastava lasciarli parlare a ruota libera e osservarne attentamente i tic e le manie per capire le loro vere pulsioni calcistiche. Fu lui a svelare che la scelta del ruolo nel calcio ha un significato ben preciso e trae origine da un trauma infantile. Così i difensori sono tutti dei repressi con il complesso di castrazione, i centrocampisti degli sfrenati onanisti e gli attaccanti mascherano dietro la  spasmodica ricerca del gol il loro complesso di Edipo.
Caratteristico il suo modo di giocare. Freud entrava in campo, si piazzava davanti alla propria area di rigore e diventava un muro invalicabile. La sua straordinaria capacità di interpretare le vere intenzioni degli avversari lo metteva in grado di intercettare tutti i palloni. Non c’era finta che lo ingannasse. Poi nel corso della partita cominciava ad avanzare lentamente, attraversava la linea mediana del campo, si avvicinava sornione all’area di rigore, analizzava lo schieramento avversario, ne individuava tutti i meccanismi difensivi ed era abilissimo a smantellarli uno a uno. A quel punto per gli attaccanti era un gioco da ragazzi andare in gol a difesa praticamente sguarnita.
http://quasirete.gazzetta.it/2013/10/17/boccaccio-era-il-portiere_sigmund-freud-un-giocatore-da-sogno/

LA SOCIETÀ PSICHIATRICA
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 19 ottobre 2013
 
Secondo dati forniti dall’Università di Atene l’incidenza della depressione grave nella popolazione greca è passata dal 3,3% del 2008 a un allarmante 12,3% nel 2013. La depressione colpisce due volte di più i disoccupati (19,8%) e le donne (15,6%) rispetto agli occupati (9,8%) e agli uomini (9%). I più vulnerabili di tutti sono i soggetti scarsamente scolarizzati. L’evidente correlazione tra l’epidemia depressiva e la crisi economica e sociale se da una parte testimonia l’importanza dei fattori ambientali nella determinazione delle malattie psichiatriche, dall’altra fa risaltare il silenzio totale della politica e delle istituzioni sulla peggiore conseguenza dell’impasse economica. Da tempo la psichiatria (sotto la spinta propulsiva degli psichiatri americani in gran parte ideologicamente, culturalmente e economicamente collusi con l’industria farmaceutica) si è assestata su una metodologia repressiva che non include più lager manicomiali e camicie di forza ma si basa sul molto più sofisticato, e invisibile, uso di psicofarmaci a largo spettro adoperati disinvoltamente per ogni forma di disagio possibile. La psichiatria di oggi è l’esempio più eloquente di una scienza deviata dalla sua evoluzione, sempre più accampata sullo sviluppo tecnologico e sempre più lontana dalla ricerca vera, che ha soggiogato possibilità reali di alleviamento del dolore psichico ai processi di adattamento e di conformazione al funzionamento patologico dell’attuale sistema economico, che tende a riprodurre a sua immagine e somiglianza l’intera organizzazione sociale. Anestetizzare la sofferenza (cancellando la sua domanda), snaturare la soddisfazione dei bisogni e dei desideri (producendo merci dall’effetto calmante/eccitante), neutralizzare i conflitti (trasformando la loro energia vitale in inerzia) è un processo stabilmente avviato e costantemente oliato in cui l’arbitrio dei mercati e la psichiatria deviata si riflettono a vicenda, al punto che si potrebbe definire il mondo in cui viviamo «società psichiatrica». L’anarchia dei mercati, la mancanza di principi regolatori (che sostituisce la libertà con la confusione), porta inesorabilmente verso la repressione (la norma come unico luogo di convivenza possibile) che è tanto più pericolosa quanto è meno rozza e si diffonde come modo di pensare e di vivere. Non ci illudiamo di poter spiegare il degrado attuale (che se non sarà arrestato porterà alla dittatura e alla barbarie) e l’inevitabile depressione forte dei nostri desideri e delle nostre emozioni, come prodotto consapevole di un soggetto sociale che segue con chiara volontà un disegno preciso. È il modello capitalistico (diventato mentalità anonima collettiva) che gira a vuoto, incapace di garantire le condizioni minime di una vita psichica serena: la disponibilità di tempo e di spazi per la vita privata, la stabilità e la creatività del lavoro, la regolarità e la parità degli scambi sociali sul piano dell’espressione e della soddisfazione del desiderio, l’accesso a attività culturali e luoghi solidali che aiutino a elaborare il dolore e a convertire la precarietà che accompagna le trasformazioni in sperimentazione di nuove forme del vivere. La politica ha smarrito il contatto con la qualità della vita (il buon vivere dei cittadini) e sforna nuneri in cui annega il senso stesso del suo esistere. Prigioniero della sedia in cui siede e della matita che tiene in mano questo automa contabile che gestisce i nostri interessi è sotto l’effetto del più efficace dei tranquillanti: l’assenza di memoria e di desiderio.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20131019/manip2pg/14/manip2pz/347416/manip2r1/thanopulos/

SE BENEDETTO APRE IL MONDO AL NUOVO SECOLO
di Roberto Mussapi, Avvenire, 19 ottobre 2013
 
Le dimissioni di Papa Benedetto, l’elezione del nuovo pontefice, Francesco, oltre alla straordinaria importanza intrinseca rappresentano un segno potente di scossa e potenziale rigenerazione nel mondo non solo cristiano. Un libro sviluppa questo tema con grande originalità e profondità, L’atto la storia. Benedetto XVI, Papa Francesco e la fine del Novecento di Giancarlo Ricci (Edizioni San Paolo, pp. 94, euro 9). Ricci è uno psicanalista “laico”, cioè non dogmatico, il suo metodo di indagine sul mondo è inscindibile dalla prospettiva filosofica, antropologica; il mondo della religione, del mito, della poesia sono presenze forti, generanti, non accidentali nel suo percorso. Ha pubblicato anni fa un libro interessante in senso anche letterario, Le città di Freud (Jaca Book), poi saggi di interesse più strettamente psicanalitico. Ora scrive una delle più libere e acute riflessioni che io abbia letto di recente sul senso del sacro, della vita e della loro necessaria resistenza nel nostro mondo occidentale cristiano. Occidentale e cristiano a parole, anticipando l’esito del saggio, essendo stati erosi i valori etici fondanti dell’Occidente e del Cristianesimo. Da sempre sostengo la dannosità della lettura rigidamente psicanalitica del mondo, delle letteratura e dell’arte, ma la mia critica riguarda il fondamentalismo, il dogmatismo di tanta, troppa cultura psicanalitica, imperversante per decenni. Quando gli strumenti psicanalitici interagiscono con altri, come ad esempio in Starobinski, allora è tutta un’altra storia. Come in questo caso, dove il titolo non mente: si parla di un atto che segna e modifica la storia, le dimissioni di papa Benedetto XVI. E il sottotitolo sintetizza un’epopea in due nomi e un concetto: il nome del papa che si ritira, quello del nuovo pontefice che giunge “dalla fine del mondo”, e la conseguente fine del Novecento, secolo del dominio relativistico, della desacralizzazione, di conseguenza dell’angoscia.
Libro denso e fascinoso, ricco e quindi difficile da sintetizzare. Proviamo a riassumerlo, al volo, rapiti dalla felicità delle immagini, dalla lucidità adamantina dello stile, dalla mercurialità wildiana delle intuizioni. Soprattutto dall’eticità da cui nasce questa difesa dell’Homo religiosus, qui e ora. Le dimissioni: Ricci vive come un’offesa l’attribuzione di queste a pure ragioni personali, stanchezza e salute, pur riconoscendo che possono concorrere. Ma la loro essenza è quella di un atto capitale, coraggioso, esemplare: la rinuncia al potere, l’umiliazione del proprio io di fronte alla comunità dei viventi. Dimettendosi Benedetto si umilia, si manifesta servitore eroico della fede. In un mondo che razionalisticamente irride ogni manifestazione del sacro e si genuflette al profitto, il Papa mette in opera la potenza dell’Atto.  Svuota il vuoto, crea una rottura, uno spazio: Francesco, presentandosi, afferma di venire da lontano, “dalla fine del mondo”. Ma da una terra oltreoceano, sottolinea Ricci, terra di esilio, battuta da venti, estrema. Sì, viene dalla fine del mondo e nella benedizione inizia a parlare nella sua lingua argentina, il gesto più naturale, viscerale, intimo: sa che questa benedizione non è spiegabile, sarebbe comunque incomprensibile al vaglio del razionalista. Il mondo, scrive Ricci, non sarà più lo stesso: con metafore da narratore di razza: il “Crollo” (Babele, il muro di Berlino, le Twin Towers) il “Collaudatore” (che valuta la struttura e la tenuta dell’edificio, non gli ornamenti, e se necessario lo fa evacuare), il “Farsi zolla”, il “Non scendere dalla croce”: una vena lucidamente visionaria anima questo breve e compiuto libro scritto da un laico in difesa del sacro e dell’anima, e in onore di due grandi figure della cristianità.
http://giancarloricci.blog.tiscali.it/?doing_wp_cron

IL RECINTO MENTALE CHE ESCLUDE GLI ALTRI. UNA RIFLESSIONE SUI DISAGI DELLA CIVILTÀ 
di Daniele Giglioli, Corriere della Sera – La Lettura, 20 ottobre 2013
Le immagini dei migranti annegati al largo di Lampedusa ci turbano in modo diverso da quelle di un terremoto o di un disastro aereo. Stavano venendo qui, stavano venendo da noi. Tentavano di attraversare le nostre frontiere; e le frontiere non sono solo esterne, ma anche interne. Se li piangiamo, significa che in minima parte il loro sbarco è riuscito — la parte ahimè peggiore, quella che ci induce a solidarizzare con gli altri solo nella misura in cui sono vittime. Un piccolo pezzo di loro ha preso posto nella geografia di ciò che definiamo «noi». Ma un posto inerte, scollegato, non connesso con ciò che pensiamo di potere e dover fare. Infatti non sappiamo che fare, e l’invocazione all’Europa perché ci aiuti ha più il sapore di uno scongiuro che di una scelta razionale. Il «noi» non è arrivato all’Europa. Alzi la mano chi si sente nell’intimo europeo. Non solo perché non c’è, diceva sarcasticamente Henry Kissinger, un numero di telefono dell’Unione europea, ma nemmeno un sentire comune, un simbolo in cui riconoscersi, lo straccio di una squadra di calcio.
Commozione senza agency, senza soggetto, senza decisione. Per risultare efficace, la ristrutturazione del «noi» dovrà essere ben più radicale. Perché nemmeno il più accanito fautore dei respingimenti può dire «non solo non li voglio, ma non mi importa nulla di loro» senza entrare in contraddizione con se stesso, con la sua umanità, con la sua capacità di empatia. La nicchia culturale che ci ospita non potrà proteggerci ancora a lungo.
Nicchia, empatia, frontiere interne, trasformazione antropologica sono termini che ricavo da un bel libro uscito da Einaudi, Nuovi disagi nella civiltà (pagine 202, € 19,50), curato da Francesca Borrelli in dialogo con due psicoanalisti, Francesco Napolitano e Massimo Recalcati, e un filosofo, Massimo De Carolis. Senza la pretesa di riassumere un intreccio di voci molto composito, ne traggo qualche spunto per il dibattito attuale.
Inevitabile è per l’animale umano vivere in nicchie artificialmente costruite che svolgono la funzione di quello che per le altre specie è il loro ambiente. L’uomo non dispone di un ambiente prestabilito, è povero di istinti che guidino automaticamente la sua condotta (autunno: vola a sud), ed è ricco invece di pulsioni plastiche e indeterminate. Incapace di distinguere a priori tra quanto nel mondo esterno è segnale (pertinente alla sopravvivenza) e rumore (ciò che non lo è), è strutturalmente aperto alla contingenza illimitata del cosmo. Sia la creazione di nicchie sia il continuo trascenderle fanno parte della sua dotazione di specie. Naturale gli è altrettanto tracciare confini e oltrepassarli. Ciò che lo definisce è il suo essere indefinito, l’impossibilità di dire «noi» una volta per sempre. L’umanità si coniuga al futuro, e non per afflato avventuroso o virtuoso, ma per ragioni biologiche in cui ne va della sua sopravvivenza. Suo destino è il progetto, e universale è il problema di quanto aprire e chiudere ogni volta le frontiere psichiche, culturali e istituzionali. Un problema non drammatico per epoche stabili (ma sono mai esistite?) e particolarmente angoscioso per quelle in cui le nicchie esibiscono la loro impossibilità a durare in eterno.
La nostra è tra queste. Se il mercato è globale, anche le migrazioni sono un tutto integrato, che non prevede la possibilità di isole o fortezze più o meno felici. I capitali viaggiano liberi, uomini e donne vogliono fare lo stesso: questione di fatto e non di diritto. Prima ne prendiamo atto e meglio è. A quale bussola rivolgerci allora, che non sia la paura o la commozione post festum?
Le neuroscienze spiegano che gli umani condividono con le scimmie superiori un apparato cerebrale dotato di neuroni cosiddetti specchio, che fondano la possibilità dell’empatia, del sentire ciò che l’altro sente incorporando i suoi stati mentali (gioia, dolore) attraverso il coinvolgimento di aree del cervello che servirebbero a mettere in moto le nostre reazioni qualora ci trovassimo nella sua situazione. Ma la mera empatia è insufficiente sia a riparare le nicchie sia a fabbricarne di nuove — altrimenti lo saprebbero fare anche le scimmie. A differenza di loro, l’uomo dispone di uno strumento che ha come sua prima prestazione, al contrario di quanto si potrebbe pensare, di sospendere l’empatia invece che di rafforzarla: il linguaggio verbale, che possiede la virtù di distaccarsi dalla contingenza immediata attraverso una serie di dispositivi, il più importante dei quali, ha mostrato Paolo Virno nel suo Saggio sulla negazione (Bollati Boringhieri, pagine 203, € 16), è la parola «no». Un nazista ha sempre la possibilità di sentire il dolore che infligge a un ebreo (osservandone la mimica, sentendone il pianto), ma anche di accantonarla dicendo: non è un uomo, non è uno di noi. Il linguaggio dissolve il «noi» originario. Non ci cibiamo forse di animali? Ma prestazione specifica del linguaggio è anche quella di ricostituire una sfera pubblica che nega la negazione, include, negozia, ridefinisce di continuo lo spazio del «noi», in modo non sempre pacifico e senza soluzioni predeterminate.
Linguaggio e politica, diceva Aristotele, sono il proprio dell’uomo. Anche altre specie vivono associate, anche loro sono dotate di voce. Con essa, però, sono in grado solo di esprimere piacere o dolore, non di deliberare insieme sul giusto e sull’ingiusto. Ed è proprio questo che ci manca, quando contempliamo le tragedie di coloro che chiedono accesso al nostro spazio politico: non la compassione, ma la capacità di includerli nel recinto della deliberazione. Non ci sarà soluzione fino a quando da vittime non li riconosceremo come soggetti (dotati di desideri e non solo bisogni), decidendo e non piangendo con loro. Che a ciò fungano ancora le nicchie in cui a tutt’oggi viviamo — stati nazione, accordi di Schengen —, cioè il «noi» in cui ci riconosciamo, ecco il punto in sospeso.
Un problema complesso. Contrariamente a quanto si dice, i problemi complessi chiamano spesso soluzioni drastiche, e il Novecento ne è testimone. Il razzismo di stato fu una, un’altra l’internazionalismo proletario presto smentito da regimi che non permettevano ai loro cittadini di lasciare il Paese. E diciamoci la verità: funzionavano, sul piano sia logico che pratico. Se non funzionano oggi è perché con il «noi» che implicavano non vogliamo avere più nulla a che fare, il che è un bene. Tutto da reinventare, insomma, ma non del tutto senza bussola: non è la morale, è la specie che lo chiede, e lo rende possibile. Solo così la politica può tornare a essere un’etica, nel senso originario del termine: non la ricerca del bene e del male, ma di cosa sia razionalmente desiderabile per una «buona» vita in comune.
http://foglianuova.wordpress.com/2013/10/20/domenica-20-ottobre-2013-lettura/
 
LA MILANO DI MUSATTI IL PADRE DELLA PSICANALISI. UN’EREDITÀ DI LIBRI. La politica. Anche in campo politico-culturale Musatti ha lasciato più di un segno
di Arturo Colombo, corriere.it, 20 ottobre 2013
 

Cesare Musatti, il simbolico papà della psicoanalisi italiana, era arrivato a Milano nel 1940 come insegnante di filosofia al liceo Parini. Era nato nel 1897 a Dolo, in provincia di Venezia, da padre ebreo, grande amico di Matteotti, e da madre cattolica. Si era laureato all’Università di Padova, e subito aveva cominciato a lavorare nel Laboratorio di psicologia sperimentale con il professor Vittorio Benussi, che però dopo pochi anni si era suicidato. Diventato, a sua volta direttore, Musatti è stato uno dei primi a far conoscere in Italia le teorie di Freud, malgrado l’opposizione del fascismo al potere. Peggio ancora: nel 1938 le famigerate leggi razziali colpirono anche Musatti, costringendolo a abbandonare l’attività accademica, e a «declassarlo» come docente liceale. Milano divenne allora, fino alla morte, nel marzo del 1989, la città in cui Musatti – una personalità dai molteplici interessi – non si limitò a svolgere attività didattica all’Università Statale, dove le sue lezioni, che illustravano il significato e il valore della psicoanalisi, erano sempre gremitissime, anche perché venivano a seguirle parecchi allievi di altre facoltà. Da poco, per l’esattezza dal 1949, aveva dato alle stampe il suo Trattato di Psicoanalisi, e dal 1955 era diventato il direttore (ma anche il factotum?) della Rivista di Psicoanalisi. Inoltre, si era assunto l’onere di curare l’edizione italiana delle Opere di Sigmund Freud: ben dodici volumi editi da Bollati Boringhieri fra il 1976 e l’80, accompagnati dal suo Leggere Freud, presso lo stesso editore. Ma anche in campo politico-culturale Musatti ha lasciato più di un segno. Amico di Lelio Basso, fin dal 1943 si era impegnato a ricostruire il partito socialista, e era riuscito a sfuggire al rischio di finire in prigione, trovando rifugio a Ivrea, presso Adriano Olivetti. Finita la guerra e tornato a Milano, veniva eletto due volte consigliere comunale nelle file del PSUP. Non solo: io stesso ricordo di averlo sentito varie volte intervenire – insieme a Banfi, a Bauer, a Valiani – ai dibattiti che si tenevano alla Casa della Cultura, dove tuttora parecchie fotografie ne ricordano la presenza. Ha scritto vari libri, che testimoniano anche la ricchezza dei suoi svariati interessi, come sa chi ha letto Il pronipote di Giulio Cesare (1979), che gli valse il Premio Viareggio 1980, oppurePsicoanalisti e pazienti, a teatro, a teatro! (1988), o ancora Mia sorella gemella la psicoanalisi o – forse più brillante di altri testi –Curar nevrotici con la propria autoanalisi (Mondadori).
http://archiviostorico.corriere.it/2013/ottobre/20/Milano_Musatti_padre_della_psicanalisi_co_0_20131020_2702728e-3949-11e3-ae68-6b1213e1c760.shtml
 
 
LA DOLCE STANCHEZZA

di Pigi Colognesi, ilsussidiario.net, 21 ottobre 2013
 
Riprendo il filo dell’editoriale della settimana scorsa*. Ero partito dalla definizione che di noi dà una recente indagine sociologica: fragili e iperconnessi. Un altro sociologo ha usato una parola diversa e simile per descrivere la nostra epoca: stanchezza. Anche in questo caso, come osserva Massimo Recalcati in un articolo su la Repubblica del 6 ottobre**, siamo di fronte a un paradosso: le nostre vite sono attraversate da una «corrente eccitatoria permanente» – superlavoro, divertimenti diventati obbligatori, risultati da ottenere, capacità personali da dimostrare in continuazione, prestazioni da offrire – e nel contempo sono svogliate, stanche in partenza, in fondo senza un motivo adeguato che giustifichi tutta quella eccitazione. Come prima esemplificazione Recalcati porta il disagio giovanile che «non si caratterizza più per il conflitto vitale tra le generazioni, ma per uno spegnimento del sentimento della vita».
Infatti «i sintomi attuali degli adolescenti che si rivolgono allo psicanalista non scaturiscono più dalla dissonanza tra il desiderio e la realtà, ma da una specie di affaticamento del desiderio stesso». Tornano alla mente le profetiche parole di Teilhard de Chardin: «Il pericolo maggiore che possa temere l’umanità oggi non è una catastrofe che venga dal di fuori; è invece quella malattia spirituale, la più terribile perché il più direttamente umano tra i flagelli, che è la perdita del gusto di vivere».
Di fronte a una crisi tanto grave, Recalcati pone la domanda radicale: «La stanchezza che ci affligge oggi non mostra la corda del sogno narcisistico di diventare padroni di noi stessi, di realizzare il nostro nome a prescindere da quello dell’Altro?». L’iniziale maiuscola di quest’ultima parola non è certo un refuso tipografico; per scavalcare la palude della stanchezza non è sufficiente moltiplicare le connessioni con tutti gli altri, che sono stanchi come noi; occorre attingere ad una fonte di energia inesauribile. Inesauribile non perché elimini la naturale stanchezza di chi lavora, ma perché non lascia spegnere, anzi rinfocola sempre, il desiderio e il gusto di vivere.
Per questo il secondo esempio di stanchezza portato da Recalcati – le dimissioni di Benedetto XVI – è sbagliato. Riconoscere l’indebolimento delle proprie energie fisiche e mentali e quindi la loro inadeguatezza a svolgere il compito che si ha è un gesto di grande energia, è esattamente il contrario della eccitazione permanente di chi pensa di dover mettere a posto tutto con le sue forze e dimostrarsi in ogni circostanza come una specie di Superman. È la sicurezza di poter affidare il proprio nome e il proprio compito ad un Altro – e quindi ad un altro – che permette di riconoscere e accettare tranquillamente le proprie inadeguatezze.
Non tutte le stanchezze, infatti, sono distruttive. C’è anche quella – dolcissima e quasi desiderabile – di cui parla Eliot: «L’uomo che durante il giorno ha costruito qualcosa, quando cala la notte ritorna al focolare: per essere benedetto dal dono del silenzio, e prima di dormire si assopisce».
http://www.ilsussidiario.net/News/Editoriale/2013/10/21/La-dolce-stanchezza/436660

Antonio Di Ciaccia parla del Lacan posteriore alla fase strutturalista in occasione dell’uscita degli Altri scritti
di Felice Cimatti, il manifesto – Alias, 20 ottobre 2013

Sono appena stati tradotti e pubblicati in italiano gli Altri scritti di Jacques Lacan (Einaudi, pp. 624, 34 euro), un libro importante, forse ancora più degli Ècrits del 1966, perché mentre la stagione dello strutturalismo è passata, quella della psicoanalisi, forse, è ancora di là da venire. La psicoanalisi di cui leggiamo in questi Altri scritti è interessata al reale, al campo dell’esperienza che si colloca oltre e dopo il linguaggio. In questo senso la nozione, forse più sorprendente e enigmatica, di questi lavori è quella di «inconscio reale», che supera quella ormai tradizionale e un po’ usurata dell’inconscio «strutturato come un linguaggio». Se dalla finanza ai social networks tutto ci dice che è quello del reale il problema del nostro tempo, la psicoanalisi lacaniana è un compagno di strada che stavano aspettando. Ne parliamo con Antonio Di Ciaccia, uno dei più eminenti psicoanalisti italiani, analizzato da Lacan, e traduttore di questi scritti e dei Seminari.

Come le è stato possibile tradurre Lacan?

Per molto tempo il testo di Lacan, e quello della redazione dei suoi Seminari per mano di J.-A. Miller, è stato trattato come un testo sacro, immutabile. A un certo momento mi sono accorto che per Lacan un testo più è sacro più è interpretabile, ossia richiede al lettore non tanto una traduzione sulla carta ma una traduzione sulla carne. Bisogna far rivivere il testo e farlo pulsare. Evidentemente questo comporta che il testo rimane aperto ad altre letture, che sicuramente verranno e che saranno ampiamente giustificate. Da parte mia, nella traduzione ho cercato d affidarmi a un corrimano che guidasse i miei passi incerti, e l’ho trovato in quello straordinario insegnamento sull’opera di Lacan che Jacques-Alain Miller svolge ormai da più di trent’anni. Sulla traduzione, Lacan aveva una prospettiva tutta sua. In un seminario (nel Rovescio della psicoanalisi) si lamentò di come fosse tradotto: non intendeva da una lingua a un’altra, ma da un discorso a un altro. Tutti sanno che la psicoanalisi non consiste nei libri che ne parlano poiché essa si veicola essenzialmente in una nuova posizione etica del soggetto.

È evidente che a Lacan non importa nulla di «comunicare» qualcosa: vuole rendere la vita difficile al suo lettore. Posto che in questione non è solo lo stile, le domando: quanto è necessario questo stile a Lacan?

Lo stile di Lacan è il modo personale in cui ha incarnato, nel suo lavoro e nelle sua opera, e direi anche nella sua vita, il desiderio dell’analista. È uno stile singolare che non invita a nessuna imitazione. Mi viene in mente la sua frase: «Fate come me, non imitatemi». Ossia, il nucleo essenziale del suo stile può trovarsi solo nel travaglio individuale che intreccia costantemente le esigenze della struttura dell’inconscio con la propria questione soggettiva. In altri termini lo stile è l’etica in atto.

«Non sono un poeta», scrive di sé Lacan, «sono un poema». Questa raccolta permette di seguire passo passo come Lacan arrivi a costruire la sua voce, affatto inconfondibile e unica…

Lei chiama «voce» ciò che Lacan chiama «stile». Come Lacan è stato un poema del suo inconscio, così ognuno ha il compito di essere poema del suo inconscio.

Estrema oscurità ma anche massima chiarezza: leggere Lacan comporta una continua oscillazione fra questi due stati d’animo. Cos’è che li lega?

Lacan considerava di essere riuscito, unico a suo dire, a rendere il proprio discorso isomorfo all’inconscio. Per questo esso è caratterizzato dall’estrema oscurità e dalla massima chiarezza, proprio come si presenta a noi il nostro inconscio, per esempio, attraverso le sue formazioni, in primo luogo i nostri sintomi.

Anche chi non sa nulla di Lacan avrà sentito le sue parole «l’inconscio è strutturato come un linguaggio». Qui prevale ancora lo strutturalista, il saussuriano. Ma leggendo questi Altri scritti ci si accorgerà che da un certo punto in poi Lacan cambia idea…

Il Lacan degli Altri scritti mette in primo piano il rapporto tra l’inconscio e il godimento. Certo, il godimento vuol dire il risultato del fatto che l’essere umano è attraversato, nel bene e nel male, dalla pulsione. Ma la pulsione di per sé è muta, si dice attraverso il significante. La grande intuizione di Lacan è stata quella di mettere in primo piano il modo che ha l’inconscio di funzionare. A questo risponde l’aforisma «l’inconscio è strutturato come un linguaggio»: vuol dire che l’inconscio è come una rete, la cui logica è precisa, anche se non è quella del nostro io cosciente. Nella rete è veicolato il godimento, con le sue varie sfaccettature, che ci fanno gioire e che ci fanno soffrire. Per utilizzare una metafora a cui del resto accenna Lacan stesso, la rete è come quella del mercato, della finanza: occorre che funzioni, e in un certo determinato modo. Ma a circolare è il denaro, fonte di gioia per certuni e di disperazione per altri. Con la psicoanalisi l’essere umano arriva a saperne di più della sua propria rete e del modo in cui, inconsciamente, se ne serve.

Un’altra scoperta di questi Altri scritti è che Lacan, molto prima della svolta realista di questi ultimi anni, non fa che parlare di reale, e di come raggiungerlo. Che cos’è per lui il reale?

Ovvio che il reale non è la realtà. In parole povere: il reale è quella cosa oscura che incontri e che si impone nella tua vita e che a volte chiamiamo trauma oppure eccelso piacere. Un orrido trauma o un piacere raffinato si iscrivono nel tuo corpo e nella tua mente con lo stigma dell’insopportabilità: questo insopportabile è il tuo reale.

In particolare, in uno scritto del 1976, Lacan parla di «inconscio reale». Di che si tratta?

Sinteticamente direi così: l’inconscio, in quanto interamente riconducibile a un sapere, è suscettibile di essere interpretato. È questo che viene chiamato l’inconscio transferale. Eppure c’è qualcosa che sfugge al senso e quindi dà scacco all’interpretazione: è questo che egli chiama «inconscio reale». Anche altri analisti lo avevano intravisto, ma le indicazioni di Lacan aprono a prospettive inattese, che riguardano, per esempio, il rapporto tra il sapere e il reale, ma anche il rapporto tra il desiderio e l’amore.

Qual è il valore della figura di James Joyce nell’ultimo insegnamento di Lacan?

Dante ha avuto il suo Virgilio, Lacan si è scelto Joyce per condurlo là dove Freud non era riuscito ad andare.

Per chiudere una domanda politica: Lacan, e la sua psicoanalisi, parteggiano per una ratifica dell’esistente o per un cambiamento radicale? La psicoanalisi è un rimedio consolatorio per atei che hanno paura di morire, oppure è la molla che fa scattare la ribellione?

Lacan non crede alle rivoluzioni, perché porterebbero nuovi padroni a comportarsi come o peggio dei vecchi. Tutto sommato, pensa che la sola sovversione degna di fregiarsi del titolo di rivoluzione è quella che ebbe luogo in Occidente alla fine del medioevo e che preannuncia il rinascimento: parlo dell’amore cortese. Secondo Lacan è stato stupefacente il fatto che a un certo momento della nostra storia la donna, da puro oggetto di scambio, venisse elevata alla dignità di oggetto del desiderio: è un capovolgimento che ha permeato tutta la nostra civiltà. Lacan si è interessato, anche, sebbene a tratti, del fenomeno del capitalismo. Egli riconosce a Marx di avere intuito, meglio di Freud, il sintomo analitico, e di avere disseminato nella vita di ogni contemporaneo la questione del plusvalore, il quale in realtà non si sostiene se non sulla base del plusgodere. Il capitalismo è una cosa seria, dice Lacan. Ma i suoi oggetti sono tutti fasulli. E l’uscita dal capitalismo non sarà prossima. Una pista da seguire? Puntare a diventare dei santi atei (ossia senza l’Altro, comunque si vesta questo Altro) e dotarsi di una gran voglia di ridere. Sarebbe un buon programma per gli psicoanalisti.

https://www.facebook.com/pages/La-psicanalisi-di-J-Lacan/179273612104049?fref=ts

 
Audio – UTOPIE MINIMALISTE, CON LUIGI ZOJA
Dalla trasmissione di Radio Tre Fahrehneit, 14 ottobre 2013
Dopo il fallimento delle utopie massimaliste che hanno dominato il secolo scorso, è questo, secondo Luigi Zoja, saggista e psicoanalista, il momento delle utopie minimaliste: limitarsi nei consumi, esere vegetariano, difendere l’ambiente, affermare il diritto all’aria pulita, al silenzio, alla luce naturale- non rivoluzioni individuali, ma un lavoro su se stessi, per sapere cosa si vuole da se stessi. Potrà la ”nuova generazione critica” riuscire, da queste premesse a cambiare la società? Ne parliamo alle 16.00.
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http://www.radio3.rai.it/dl/radio3/programmi/puntata/ContentItem-0237a08e-5325-4730-baba-e38da1bad1e1.html

 
 
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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