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Novembre 2013 I – Drammi, tensioni, gioventù, donne

11 Nov 13

A cura di Luca Ribolini

BONI-HABER: «FACCIA A FACCIA CON DIO»
di Angela Calvini, avvenire.it, 1 novembre 2013
 
«Ci piacerebbe molto che questo spettacolo lo vedesse papa Francesco, un uomo davvero contemporaneo, capace di aprire con semplicità e schiettezza un dialogo tra fede e ragione». Lo dicono all’unisono Alessandro Haber e Alessio Boni, prima di salire sul palco del Teatro Acacia di Napoli dove ieri sera hanno interpretato una delle primissime rappresentazioni de Il visitatore di Éric-Emmanuel Schmitt, che vedrà il debutto in grande stile il 6 novembre al Teatro Franco Parenti di Milano cui segue tournée.
I due attori si sono lanciati in quella che, a loro parere, «è una vera sfida. Portare i temi alti come la fede, il mistero, il destino a un pubblico il più ampio possibile», sfruttando anche la loro popolarità cinematografica e televisiva. Attraverso un faccia a faccia nientemeno che tra Freud e Dio. Sono loro i protagonisti del “duello” teatrale rappresentato sinora in ben 15 Paesi, dove Schmitt è considerato uno dei capisaldi del teatro contemporaneo, e qui curato dal regista Valerio Binasco, produzione Goldenart. «Io interpreto Freud alla fine della vita – racconta Haber –. Vecchio e malato, nella Vienna occupata dai nazisti nel 1938, lo psicanalista attende con ansia le notizie della figlia Anna portata via da un ufficiale della Gestapo. Quando ecco, che spunta dalla finestra un inaspettato visitatore. Potrebbe essere un malato, un pazzo, un barbone, ma Freud si rende conto di avere davanti Dio, quel Dio di cui ha sempre negato l’esistenza». Si avvia, così, un dialogo serrato, appassionato, le domande riguardano il senso della vita, ma anche il Male, incarnato in quel momento dal nazismo, con un linguaggio a tratti anche ironico e divertente che scava in fondo alle debolezze umane.  «Le certezze di quest’uomo che con la sua intelligenza e il suo studio ha negato Dio per tutta la vita vanno sgretolandosi – aggiunge Haber –. Freud comincia a credere, anche se il finale resta a mio avviso aperto. A vincere è l’amore, la luce del bene che deve illuminare credenti e non credenti».
Ad Alessio Boni, il non facile ruolo di interpretare Dio, attraverso una figura istrionica e vitale. «Il regista Binasco ha scelto di rappresentare questo Dio come uno di noi, come uno che si mescola alle nostre sofferenze, ai nostri dubbi, al nostro desiderio di assoluto – spiega appassionato l’attore bergamasco –. Ho aderito fortemente a questo progetto perché c’è bisogno di ritornare a interrogarsi sull’uomo in questo profondo momento di crisi, non solo economica, ma morale. Siamo fagocitati da una società che ci travolge con i suoi ritmi, che ci spinge a correre, lavorare e comprare senza lasciare il tempo per riflettere su chi siamo. Si resta in superficie, abbagliati da tronisti e Grandi fratelli vari e soli davanti a un ipad o davanti a una consolle». «Questo è un testo che ti fa fare i conti con te stesso – spiega Boni –. Lo stesso Freud che credeva che la psicanalisi potesse dare risposte a tutto, senza contemplare il mistero, la spiritualità, il destino,  qui comincia a guardare se stesso e ad aprirsi verso l’Alto. Sa qual è il vero problema del nostro secolo? La superbia. Da lì nascono tutti i mali».
Il teatro, quindi, come ultimo palco su cui parlare dell’uomo con verità. Ne è convinto Boni. «Magari a teatro mi verrà a vedere qualcuno perché ho fatto Caravaggio o Tutti pazzi per amore. Ben venga: la mia intenzione è portarlo per mano a pensare alla sua vita, con un linguaggio intenso ma comprensibile a tutti». E per concludere, cita padre Turoldo: «Ai suoi allievi il primo giorno di scuola, la prima cosa che chiedeva era “chi vuoi diventare tu da grande?”. Tutti gli rispondevano citando un mestiere, nessuno rispondeva quello che lui sperava: “Voglio diventare un uomo”».
http://www.avvenire.it/Spettacoli/Pagine/Boni-haber-faccia-a-faccia-con-dio.aspx
 
 
I FERVORI DELL’AUSTRIA FELICE, GRAND HOTEL SULL’ABISSO. GLI ULTIMI VALZER, POI FREUD. L’Ottocento è alla fine quando a Vienna s’impone un gruppo di innovatori: letterati, pittori, architetti. E la città, già stupefacente scenografia, mette in scena le proprie viscere. Una drammatica seduta psicoanalitica collettiva
di Giuseppe Marcenaro, Il Foglio, 2 novembre 2013
 
Certo, che tutto si svolgesse nei caffè è una leggenda. Eppure l’autobiografia di Vienna non si discosta poi molto dalla dinamica delle sensuali seggiole in legno ricurvo. Le celebrate sedie numero 14 del catalogo Thonet, sulle quali si accasciavano uomini spolpati. Ombre approdate al Café Griensteidl. Almeno fino al 1897, quando venne chiuso. Il Palais Herberstein, in cui si trovava, doveva essere trasformato in casa per appartamenti. L’avvenuta infungibilità del ritrovo fu lo spunto che permise a Karl Kraus, il più geniale scapestrato viennese, di scrivere uno dei suoi vivaci e frizzanti pamphlet, “Die demolirte Literatur”. Un impietoso jeu de massacre compiuto sui letterati della Jung Wien, in dimora stabile al Café Griensteidl. Vienna era allora una città dove si poteva ipotizzare la morte di un gruppo d’intesa letteraria a seguito della chiusura di un caffè. Con la perdita del Griensteidl si spegneva un universo di storie private. Palesi e sussurrate. Ai tavolini del caffè c’era sempre una folla da “spiare” con la lente dell’entomologo. Una umanità alla ricerca di se stessa. Mancando il ritrovo tramontava un clima. Si disperdevano le abitudini. Distrutto il formicaio gli insetti impazziti sciamavano. Si smarriva la saga.
Amleticamente compresi a scegliere tra una fetta di torta di stomachevole delizia, alta un palmo e il tremolar gaudente di una gelatina; dubbiosi tra i cento e passa gusti di caffè, da quello blando e trasparente come un brodetto per ammalati fino al turco dalla sostanza d’un budino, passando tra gli aromatici dal graduale speziato, esplorando l’imperial regia gazzetta Wiener Zeitung, stecchita dalle ortopediche bacchette, i soliti signori Schlemihl sarebbero stati autorizzati a chiedersi, scoprendola con dovuta perplessità, che razza di gente fossero quei tenui tossici che ingombravano a ogni ora l’aura del caffè con le loro fitte ciarle. Uno era Hugo von Hofmannsthal, appena uscito dallo stupefacente balletto di strazi ed equivoci che fu l’incontro con Stefan George. Interrotto, come un amore scolastico, dall’intervento, per quanto comprensivo ma fermo, di papà Hofmannsthal. Aveva rinvenuto febbrili bigliettini che per poco più di un mese i due si erano scambiati: “Hai fatto affiorare cose che in me sono occultate”. Dopo l’isteria della rottura, Hofmannsthal si consolerà passeggiando “tra robinie e gelsomini”, con Hermann Bahr, il fervoroso maggiordomo di tutte le novità del mondo, predicatore d’ogni caffè, dove annunciava il superamento del naturalismo.
Oltre all’inquieto Hofmannsthal sorbivano cordiali al Griensteidl Arthur Schnitzler, Felix Salten, Richard Beer-Hofmann. Poco lontano l’imbronciato Karl Kraus traguardava il gruppo degli affabili. Non ne condivideva la poetica, mal sopportava i loro fatui atteggiamenti. Benché i giovani letterati viennesi si comportassero da “rivoluzionari”, criticoni d’ogni forma estetica antecedente la propria, avevano l’aspetto di chi fosse rimasto sempre legato all’anno passato. Una morgue della décadence. Kraus li squadrava e ringhiava. All’occorrenza addentava. A sangue. Di lui, con tollerante sussiego, Beer-Hofmann diceva: “Amici? Proprio amici non siamo, semplicemente non ci diamo sui nervi”. Le insofferenze però maturarono intense. Oltre i solerti habitué del Café Griensteidl, nella Jung Wien, sbeffeggiata dai sarcasmi di Kraus, si riconoscevano, sia pur blandamente, anche Peter Altenberg, Leopold Andrian, Felix Dormann.
Celebrato l’avvenuto decesso del caffè e recitato il sarcastico de profundis dei letterati, Kraus, uscito “dalla comunità”, si trovò anch’egli “disperso”. Isolato. Cercò approdo. Lo trovò sotto forma di lavoro. Ce l’aveva a morte con giornali e giornalisti. “Non avere un pensiero e saperlo esprimere, è questo che fa di uno un giornalista”. “I giornalisti scrivono perché non hanno niente da dire, e hanno qualcosa da dire perché scrivono”. Accettò comunque d’essere nominato corrispondente del quotidiano Breslauer Zeitung. L’inquietudine lo perseguitava. Aveva bisogno di affondare le zanne del proprio disappunto sociale nel cuore dei contemporanei. Come sostenitore non compromesso nella causa dell’assimilazione ebraica, Kraus – nato in una ricca famiglia ebrea – attaccò il sionista Theodor Herzl, con il suo polemico “Eine Krone fur Zion”. L’anno dopo rinnegò il giudaismo. Trovò forse una rasserenante pace quando, sentitosi libero di poter esprimere tutte le insofferenze del mondo che lo opprimevano, in quel 1899, il 1° aprile, pubblicò il primo numero della rivista satirica Die Fackel, da lui fondata e che continuò a dirigere, pubblicare e scrivere fin quando morì. Dal suo periodico lanciò i suoi attacchi contro l’ipocrisia morale e intellettuale, la psicoanalisi, la corruzione dell’impero degli Asburgo, il nazionalismo del movimento pangermanico, le politiche economiche liberiste. Una rivista come specchio oscuro della società.
“In questa grande epoca che io ho conosciuto quando era ancora così piccola, e che ridiventerà piccola, se le rimarrà il tempo per farlo, e che noi, vista nell’ambito dello sviluppo dell’organismo non è possibile questa metamorfosi, preferiamo considerare come un’epoca grossa e certamente anche difficile, in quest’epoca in cui succede proprio quello che non ci si poteva immaginare, e se si fosse potuto non sarebbe successo… in quest’epoca rumorosa, che rimbomba della spaventosa sinfonia di notizie che provocano fatti, in quest’epoca non vi aspettate da me nemmeno una parola”.
Die Fackel si distinse per l’indipendenza editoriale di cui Kraus poteva godere grazie ai propri fondi. Nei primi dieci anni collaborarono al giornale molti eminenti scrittori e artisti come Peter Altenberg, Richard Dehmel, Egon Friedell, Oskar Kokoschka, Else Lasker-Schuler, Adolf Loos, Heinrich Mann, Arnold Schonberg, August Strindberg, Georg Trakl, Frank Wedekind, Franz Werfel, Houston Stewart Chamberlain, Oscar Wilde… La meglio intelligenza europea del tempo.
Proprio come un albero che presentendo di morire, in una illusoria sopravvivenza, si carica di frutti, Vienna, negli ultimi anni dell’Ottocento, esplose in una ossessiva creatività. Nel medesimo 1897, anno in cui si celebrava il metaforico funerale letterario della Jung Wien, un’altra ventata scosse la vita artistica della città. La permeava un atavico culto per la tradizione. Il tornado si abbatté sulla conservatrice cooperativa degli artisti viennesi del Künstlerhaus, la Genossenschaft bildender Künstler Wiens, fino ad allora dominante. Vienna era allora la capitale di un grande impero multietnico, di una formidabile Kakania, più tardi “fotografata” da Robert Musil con “L’uomo senza qualità”. Pagine dove le debolezze, le furbizie, le perfidie, i grovigli caratteriali, le manie e i tic d’ogni tipo delle varie categorie sociali furono fatti a pezzi con aspra ironia. In quell’ambiente dall’apparenza solenne e rarefatta i valori della costumanza l’avevano sempre fatta da padrone. La vita dei cittadini si reggeva su una fittizia rispettabilità sublimata “artisticamente” nelle forme più esasperate della ninnoleria dei carinissimi kitsch del quotidiano piccolo borghese.
Sovrastava quella curiosa Lilliput un’architettura della grandeur, coniugata alla solennità, che aveva mutato una tutto sommato piccola città in una fastosa scenografia teatrale. E ce l’avevano messa tutta i viennesi, fin dal 1860 o giù di lì, con la elaborazione simbolica dei solenni riccioli delle facciate, a “inventare” uno stile riecheggiante i valori di perennità storica. Il Ring, con i suoi sontuosi edifici di rappresentanza, resta la testimonianza di un’epoca che volle tradurre la propria coscienza della storia in una sequenza di facciate. Una tangibilità in cui ogni viennese poteva riconoscersi. Un cittadino qualsiasi, pur non essendovi mai ammesso, era parte integrante della corte di Franz Joseph, imperatore a un tempo solenne e primo impiegato dello stato, sommo funzionario di una burocrazia austriaca chiusa nell’eleganza formale di bianchi stiffelius.
Era la Vienna che sognerà nostalgicamente Joseph Roth. Per lo scrittore l’impero asburgico, prima che realtà politica, era personaggio. Il più grande dei personaggi “di un’epoca che non tornerà tanto facilmente”. Nelle pagine di Roth la totalità imperiale si dispiega avvolgendo col suo manto, a un tempo protettivo e costrittivo, le regioni paludose della frontiera orientale e i viali del Ring dove sfilano i lipizzani, montati da cavalieri in giustacuori attillati, elmi neri e dorati, sotto “l’occhio di porcellana azzurra dell’imperatore”. E poi i circoli, le caserme, i bordelli, i teatri dove sgargiano le marce degli ineffabili Strauss. “An der schönen blauen Donau” & “Radetzky March” in contrappunto al sublime macabro della Kaisergruft nel sotterraneo della Kapuzinerkirche in cui si ingorga tutta la sacralità di una stirpe. Tombe imperiali. Tra le ombre assurde dei marmi e dei sarcofagi si coniugano, con l’assordante clangore della storia, i solenni silenzi sepolcrali. Una esclusiva collezione di salme imperiali. Culto e devozione di un popolo che muta i corpi di una dinastia disseccata nella cripta nei santi e nei beati di un paradiso immanente. L’orgoglio del più finitimo cittadino come senso di appartenenza.
Piombò dunque nel 1897 in quel mondo a un tempo sgargiante e soffuso il gruppo dei novatori: pittori, scultori e architetti. Volevano diffondere un’arte che fosse principio e rinnovamento. Il mito del cambiamento. La creazione artistica doveva accendere un rapporto più diretto con il pubblico. Le annuali mostre del Künstlerhaus esercitavano un monopolio. L’autoritarismo dell’arte. Il gusto unidirezionale. Ma fu vera ribellione esclusivamente estetica quella della Secessione? Soltanto una scelta di campo che produsse un esodo di molti artisti dalla vecchia maniera alla nuova? La nascita di un altro centro di potere estetico? A battere i piedi e a seguire una nuova strada furono artisti che poi godettero larga fama: i pittori Gustav Klimt, Koloman Moser, Maximilian Lenz…; gli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich, Josef Hoffmann…
Dietro a questa scelta di campo “estetico” c’era però ben altro. Una suggestione viene intanto dall’autobiografia di una originale quanto eccentrica signora che apriva al mondo nuovo la propria casa. Berta Zuckerkandl era un’influente conoscitrice d’arte e una delle intelligenze ispiratrici di uno dei più importanti salotti di Vienna. E’ madame a raccontare ciò che avvenne durante un tipico appuntamento pomeridiano viennese. Pasticcini e caffè. Berta, nella sua bella casa, aveva fatto incontrare Auguste Rodin, che visitava per la prima volta la gran capitale, con Gustav Klimt, il pittore allora più venerato.
“Klimt e Rodin si erano seduti accanto a due giovani donne di notevole bellezza; Rodin le guardava affascinato […] Alfred Grunfeld [ex pianista di corte presso l’imperatore Guglielmo I di Germania, ora trasferitosi a Vienna] sedeva al piano nella grande sala da ricevimento, con le doppie porte spalancate. Klimt gli si avvicinò e gli chiese: ‘Per favore, ci suoni qualcosa di Schubert’. E Grunfeld, sigaro tra le labbra, suonò note sognanti che volteggiavano sospese nell’aria insieme a nuvole di fumo. Rodin si chinò verso Klimt e disse: ‘Non mi sono mai trovato in un’atmosfera simile: il vostro tragico e magnifico affresco su Beethoven; la vostra indimenticabile, sacra esposizione; e ora questo giardino, queste donne, questa musica. e intorno tutta questa gaia, infantile felicità. Come si spiega tutto ciò?’. Klimt mosse lentamente la sua magnifica testa. Annuendo rispose con una sola parola: ‘Austria’”.
Austria? Un nome come simbolo, sigla, marchio capace di riassumere nel suono di una parola un esteso paradigma di pulsioni. Austria, una visione idealizzata e romantica che Klimt condivideva con Rodin. Quel “concetto Austria” era il risultato di una aggrovigliata ragnatela di fatti, elementi, tensioni sociali, inconsci. Inconscio. Ecco la parola-scintilla che come un morbo infetto attraversa la sublime Kakania di Franz Joseph. A sollevare il sipario su una storia affascinante, sensuale e tragica, fu una drammatica seduta psicoanalitica collettiva. Con l’arte e la letteratura vennero confessate tutte le contraddizioni e le più inconfessate turbe sessuali. “Peccatucci” e sordide ammalate perversioni trovarono giustificazione e catarsi nella creatività artistica. L’arte tale a un maniacale cortocircuito. Gli artisti arrivarono a livelli sublimi. Le opere esibivano coiti introflessi. La loro torbida grandezza si coniugava a una estenuata agonia. Dipinti come annuncio di morte. Un’apocalisse tutta intellettuale. L’Austria Felix ovvero il grand hôtel sull’abisso. E allora aveva intuito bene Kraus quando conclamava: “Ascenderemo fino a impiccarci”. L’aveva previsto in quel viluppo spiraliforme di creatività che produceva rutilante arte e carattere, coinvolti in un turbine irrefrenato. Ma c’era altro. Come sempre avviene nelle rappresentazioni più complesse. La vita stessa di una comunità si era trovata (era stata costretta) a mettersi in gioco.
La nascita di quella modernità, tanto conclamata da artisti, architetti e letterati, paradossalmente era stata “facilitata” anche dal crollo del mercato azionario viennese del 1873. Tra l’8 e il 9 marzo di quell’anno 230 imprese erano fallite. La “grande crisi” si diffuse rapidamente in tutta Europa e ne seguì una lunga depressione, che colpì sia il libero mercato sia il liberalismo che iniziava a fiorire. A Vienna la depressione e la conseguente disoccupazione provocarono tensioni fra le classi meno agiate, che si trasformarono in rabbia verso la borghesia, la quale era in misura considerevole di origine ebraica. Nel 1890 le manifestazioni pubbliche di antisemitismo erano diventate parte dell’opposizione della classe operaia al libero mercato, ritenuto responsabile del collasso e della perdita di posti di lavoro. Molti sostenitori del libero mercato erano ebrei. Il loro successo finanziario e le posizioni di prestigio che stavano assumendo nelle professioni mediche e giuridiche, suscitavano risentimento. Nel 1897 questa tendenza culminò con l’elezione a sindaco di Vienna di Karl Lueger, un impassibile demagogo antisemita. Lueger rese socialmente logico e accettabile l’antisemitismo.
E fu in quel clima di drammatica incertezza sociale che l’arte e la letteratura prorompendo interpretarono le pulsioni. Riuscirono a “far vedere” radiografandoli, attraverso i dipinti, le lotte interne, inconsce e istintive, degli individui. Furono tre artisti della Secessione, Klimt, Kokoschka e Schiele a porre l’accento sul fatto che compito dell’artista moderno non era comunicare soltanto la bellezza, ma le nuove verità. Ed è impossibile qui, evitare il demiurgo dell’inconscio. Sullo sfondo si profila Sigmund Freud. Dalla sua casa di Berggasse 19, poi uno degli indirizzi famosi della città, cominciò “a mettere le mani” nella parte più nascosta dei suoi contemporanei. Cominciò a frugare tra le ombre nere dell’animo dei suoi concittadini. Collegando arte e letteratura in contrappunto alla mente. Non soltanto nell’artista “creatore” ma nel “cittadino laico”. Venne anche formandosi una nuova identità di chi si appresti a guardare un’opera d’arte. Un Freud non avrebbe potuto concepirsi se non in quell’ambiente, in una città il cui destino era comunque segnato. Tutti lo avevano “sentito”. Confessavano la “malattia”. Senza far cenno alla causa scatenante. Incubata in loro da tempo.
Eppure prima di questa svolta per quanto riguardava le proprie capacità creative, Klimt era stato un pittore convenzionale, un decoratore di teatri, musei e altri edifici pubblici. Seguiva uno stile classico appreso dal suo maestro, Hans Makart, un pittore di talento chiamato il nuovo Rubens. Idolatrato dai mecenati viennesi. Piaceva molto ma le sue opere restavano “in superficie”. Perché era proprio di quella superficialità che si accontentava la borghesia dell’apparenza e della rappresentazione esteriore. La mutazione si compì in Klimt quando ebbe l’incarico di commemorare in un dipinto l’auditorium del vecchio Burgtheater che doveva essere demolito per far posto a una struttura moderna. Klimt dipinse un quadro raffigurante l’ultima rappresentazione svoltasi nel vecchio teatro. Anziché ritrarre una veduta del palcoscenico, con gli attori intenti alla recita, rovesciò “il punto di vista”. Mostrò il pubblico visto dal palcoscenico. E tra questo pubblico alcuni riconoscibili personaggi viennesi. Gli spettatori non guardano lo spettacolo. Nel dipinto risultano immersi nei loro pensieri.
La vera rappresentazione della città, la recita di Vienna, non avveniva più su un palcoscenico. Veniva “esibito” il privato della mente degli spettatori. I viennesi erano diventati i protagonisti di una “recita” che travalicava le mura di un teatro. La città, già stupefacente scenografia, metteva in scena le proprie viscere. I viennesi procedevano verso una esteriorizzazione e raccontavano la loro vita e i loro pensieri intimi. Il cambiamento di prospettiva in Klimt era “dettato” dalle contingenze psicologiche collettive. Si era fatta strada in lui, come negli spettatori rappresentati nel suo dipinto, l’ipotesi di una nuova dimensione affiorata dal sé. L’inconscio sollecitava i comportamenti.
Un anziano collega di Freud, Joseph Breur, trattando il caso di una giovane donna viennese nota come “Anna O.” aveva scoperto che “la monotona vita familiare e la mancanza di una adeguata occupazione intellettuale” avevano indotto Anna “all’abitudine di sognare a occhi aperti”. Quel che la giovane donna viennese chiamava “il mio teatro privato”. I viennesi cercavano loro stessi. A quel generalizzato stato, non ancora compreso, ma intuito, corrispondeva un malessere che rapidamente si era diffuso.
E quest’era il frutto maturo di una contesa sorda, iniziata qualche decennio avanti: la borghesia liberale austriaca si era rafforzata costringendo la monarchia assoluta, quasi feudale, dell’imperatore Franz Joseph, ad accettare una mutazione in senso più democratico dello stato. Una collaborazione tra borghesia illuminata e aristocrazia. La maggior parte degli austriaci si rendeva conto che la nazione aveva imboccato la strada della transizione. Nei negoziati con l’imperatore, la borghesia aveva ottenuto di trasformare Vienna in una delle più belle città del mondo. Come dono ai viennesi, l’imperatore aveva consentito la demolizione delle vecchie mura e delle fortificazioni che circondavano la città per fare spazio a un grande boulevard, la Ringstrasse. Lungo entrambi i lati di questo viale dovevano sorgere magnifici edifici pubblici – il Parlamento, la sede del comune, il teatro dell’opera, il nuovo Burgtheater, il Museo di belle arti, il Museo di storia naturale e l’Università di Vienna – insieme ai palazzi dell’aristocrazia e a edifici da suddividere in lussuosi appartamenti per la classe più agiata. Nello stesso tempo la Ringstrasse avrebbe portato i quartieri periferici popolati da negozianti, commercianti e operai, a più stretto contatto con il centro della città. E fu un dilagare. Vienna diventò una città di lusso. Simile a una accecante lampada attrasse le falene. Arrivò nella capitale gente da tutte le parti dell’impero. E quel che era il “sogno” imperiale d’una città bellissima ma congelata nell’immobilità, con l’apporto delle più varie personalità provenienti dai luoghi più disparati, mutò autonomamente in un crogiuolo a un tempo di vitalità intellettuali e fortissime contraddizioni. Individui anonimi e dinamici si interrogavano. L’humus era pronto. Vi contribuì il Circolo di Vienna che riuniva gli uomini dagli interessi filosofici. Ludwig Wittgenstein tentò di codificare tutta la conoscenza in un singolo linguaggio standard. Intanto Gustav Mahler preparava la transizione musicale da Haydn, Mozart, Beethoven aprendo alla nuova generazione di musicisti: Arnold Schonberg, Alban Berg, Anton Webern. Gli architetti Otto Wagner, Joseph Maria Olbrich e Adolf Loos reagivano ai pomposi edifici pubblici goticheggian-rinascimental-barocco della Ringstrasse, inventando limpidi funzionali stili. Loos proclamava: “L’ornamento è un delitto”. Imposero la pianificazione urbana. Wagner cercò anche un’armonia tra arte e funzionalità in collaborazione con design diretti da Josef Hoffmann e Koloman Moser. Producevano gli oggetti della vita quotidiana. Dai mobili ai gioielli. In tanto fervore, incontenibile Cassandra, Karl Kraus continuava a predicare con visionaria preveggenza la catastrofe futura. Gli “Ultimi giorni dell’umanità”. “Il viennese non andrà mai a fondo, ma al contrario ascenderà sempre, fino a impiccarci”.
Sull’intricato groviglione s’effondeva la lunga ombra dell’uomo della Berggasse. Le teorie del dottor Freud si coniugavano agli scritti di Schnitzler, ai dipinti di Klimt, Kokoschka e Schiele. Svelavano quotidiane ipocrisie, emozioni irrazionali, conflitti sotterranei. Crimini celati tra le pareti di casa. Fu la scoperta del sesso esibito come entità centrale del comportamento dell’uomo. Dell’edonismo e della rappresentazione orgiastica di se stessi. Un mondo risplendente poggiava su piedi d’argilla. Sotto eleganti vernici si annidavano furiosi erotismi. L’uno covava impulsi aggressivi, contro sé e contro gli altri. Freud li chiamerà pulsione di morte. Il prodotto d’ogni contorcimento produsse una collettiva e ossessiva ricerca di una “strana” realtà. Impensabilmente ignorata. La forsennata passione per l’autoanalisi prese campo. I viennesi si conobbero così bene che furono incapaci a riconoscersi. L’estetica aveva scoperchiato il vaso di Pandora. L’Austria e l’Europa erano pronte per deragliare nella catastrofe infernale.
http://foglianuova.wordpress.com/2013/11/02/giuseppe-marcenaro-i-fervori-dellaustria-felice-grand-hotel-sullabisso/#more-55387
 

VIA CASTELLANA BANDIERA
di Sarantis Thanopulos, ilmanifesto.it, 2 novembre 2013

  
Emma Dante è una regista intensa e rigorosa: le sue messe in scena rispettano le unità di luogo, di tempo e di azione che hanno reso essenziale e incisivo il dispositivo drammatico della tragedia classica. Nel suo film Via Castellana Bandiera recupera lo strumento narrativo/scenico dell’«agone» e mette una contro l’altra una donna anziana, che torna dal cimitero dove ha fatto visita alla tomba della figlia, con una giovane, che si trova per fatalità a incarnare il fantasma della figlia tornata a vivere. Le due donne si fronteggiano nelle loro macchine, nella stretta via di Palermo dalla quale prende il nome il film, sbarrandosi reciprocamente la strada. Testardamente nessuna indietreggia, il diritto di precedenza diventa per entrambe un dilemma tragico, dunque indecidibile: «Se passa lei sono morta, se passo io uccido ciò che di me si riflette necessariamente in lei».
Emma Dante trasporta il conflitto di precedenza tra Edipo e il padre nel rapporto tra figlia e madre. Il mito di Edipo si apre al mito di Elettra acquistando maggiore complessità. Il conflitto generazionale ha la sua origine nel legame incestuoso, autocratico che i bambini di entrambi i sessi (Elettra come Edipo) hanno con la madre. Questo legame diventa presto la sede di un conflitto tra il desiderio che la madre ha proiettato sul proprio creato, durante la sua gestazione, e l’emergere della volontà del bambino come soggetto differenziato. Il conflitto resta inconsciamente attivo tutta la vita e ha una declinazione particolare per la figlia perché lo scontro con la madre è anche il luogo di un contatto corporeo intenso in cui la pelle diventa interiorità: la tela erotica di cui è fatta la donna, il velo che non è superficie ma condizione di profondità. Nel congiungersi di due esseri femminili, dove il perdersi e il ritrovarsi non si appoggiano sugli opposti ma sullo sfumare dei confini, il conflitto converge più che in una regolazione dei desideri (come accade tra madre e figlio) in una destrutturazione, scomposizione dell’ordine. Il padre, oggetto di desiderio esterno, è l’opposto che fa riapparire i confini, che attrae verso di sé una parte importante della tensione tra madre e figlia impedendo che la destrutturazione diventi lacerazione.
Nel film gli uomini non trovano meglio da fare che scommettere sulla donna che vincerà: figure inconsistenti hanno fatto del caso il loro modo indifferente di vivere. Prive della sponda maschile, le due donne si irrigidiscono nella contrapposizione ma l’atmosfera resta intensamente erotica: tra la madre che afferma il suo diritto di possesso sulla figlia, che ritrova caparbiamente viva, e la figlia che afferma la sua voglia di vivere per conto proprio. Ciò che, in assenza dell’uomo, il desiderio non sa risolvere lo affida al lutto: è la madre che ha la precedenza alla morte, non la figlia. Morendo l’anziana donna lascia la vita alla giovane: non è nella natura dell’amore che i figli muoiano prima dei genitori. Con questa morte la scena si apre verso l’esodo: la nostalgia diventa esilio, domanda di apertura alla vita. Nello spiazzo finale dove gli abitanti del quartiere, uscendo dalla situazione claustrale, si riversano, per sparire poi alla vista, esplode la musica dei fratelli Enzo e Lorenzo Mancuso. Il dolore si scioglie nel canto e l’uomo riaffiora dal nulla: la sua voce diventa pulsazione erotica, prossimità alla ferita beante che si fa promessa di risanamento, speranza insieme lontana e vicina. Il corpo della donna che prende forma con il suono ci ricorda che la passione deve tutto al lutto.
http://www.ilmanifesto.it/area-abbonati/ricerca/nocache/1/manip2n1/20131102/manip2pg/14/manip2pz/348062/manip2r1/thanopulos/

LA LUNGA GUERRA AL PREGIUDIZIO
di Francesca Ronchin, lettura.corriere.it, 3 novembre 2013 

 
La prossima volta che il vostro collega, arrivando tardi in ufficio, si lamenterà che le donne al volante rallentano il traffico e non sanno guidare, sappiate che se la cosa dovesse suonarvi come un pregiudizio vagamente maschilista, dovete prendervela con la sua amigdala. Lo spiegano gli studi delle neuroscienze sociali, secondo i quali i pregiudizi, quei concetti che — come dice il termine — si esprimono prima che sia in atto una qualche forma di iudicium, scaturirebbero dall’attivazione di una delle parti più primitive del cervello, l’amigdala appunto. Si tratta della struttura a forma di mandorla incastonata nel sistema limbico e responsabile delle nostre emozioni e pulsioni più irrazionali. Processi di pensiero contro i quali l’Associazione italiana di psicoanalisi mette in guardia perché, spiega, in grado di deformare la realtà.
E così, per capire cosa si nasconde dietro comportamenti maschilisti, omofobici o razzisti sono stati chiamati a raccolta in una giornata di studi a Roma alcuni dei massimi esperti italiani nel campo della psicoanalisi, delle neuroscienze e persino del diritto. «Questa fase storica ci impone un continuo confronto con il diverso — spiega la psicoanalista Simona Argentieri — e non credo che Roger Money-Kyrle avesse tutti i torti quando paragonava i pregiudizi ai virus: una volta che si sono organizzati, tendono a conservarsi e a diffondersi per contagio». La mente umana, votata all’efficienza e alla semplificazione, difficilmente resiste alla tentazione di organizzare il continuo flusso di informazioni che riceve dall’ambiente in categorie grossolane, così da risparmiare tempo ed energie. Per questo, dopo aver letto di giocattoli tossici made in China e di ristoranti etnici dalle dubbie condizioni igieniche, sarà molto facile per il nostro cervello concludere che «tutti i prodotti asiatici» sono dannosi. Generalizzazioni, appunto, che, oltre a farci risparmiare la fatica dei distinguo, custodiscono altri vantaggi. «Ci fanno sentire meglio con noi stessi — spiega Argentieri — e ci mettono al riparo da sentimenti spiacevoli come invidia e senso d’inferiorità», motivo per cui la maggior parte dei pregiudizi porta con sé una svalutazione in negativo degli altri.
In pratica funzionerebbero come un meccanismo di difesa caratterizzato dalla proiezione, per cui si attribuiscono ad altri quelle parti di sé che non si riesce a riconoscere come proprie e dunque ad eliminare. Per questo succede che i propri istinti aggressivi vengano trasposti sugli stranieri, che la nostra avidità misconosciuta finisca per essere associata agli ebrei, che gli omosessuali siano un simulacro delle nostre ansie di passività e che certe caratterizzazioni delle donne parlino della nostra paura di non essere all’altezza. In questo senso, spiega Argentieri, «la non integrazione psicologica e la lontananza dal proprio sentire autentico sono uno dei terreni più fertili per la nascita di pregiudizi». Quante volte chi esordisce dicendo «Non ho pregiudizi, ma…» finisce per rivelarne più degli altri. Sono contenuti che forniscono un ottimo strumento di analisi, dicono molto di noi e delle nostre paure, ma non dimentichiamoci la carica di aggressività che portano con loro. Imotivi hanno a che fare con l’evoluzione. «In quanto sistema di difesa — aggiunge Paolo Mariotti, neurologo presso l’Università del Sacro Cuore di Roma — i pregiudizi hanno permesso alla specie di evolversi, e al branco di coalizzarsi contro il nemico predatore. Non è un caso che questi giudizi affrettati abbiano la meglio proprio quando si ha una iperattivazione dell’amigdala o quando i livelli di cortisolo, l’ormone dello stress, sono particolarmente alti. In questi frangenti — continua Mariotti — il soggetto mostra un’emozionalità elevata, magari difficoltà nella gestione della rabbia o l’assenza di contenuti mentali e culturali in grado di frenare le risposte istintive dell’amigdala».
In base a quanto raccolto con le tecniche della risonanza magnetica funzionale e dei potenziali evocati, sembra che, quando di fronte a un soggetto di colore la risposta istintiva della nostra amigdala è che «la pelle scura è indice di pericolo», il compito di controbattere spetti alla corteccia prefrontale, una delle parti più evolute del cervello e informate da cultura ed educazione. In questo caso, se il valore dell’egualitarismo ci appartiene, la corteccia ricorderà all’amigdala che «tutti gli uomini sono uguali». A questo punto, spiega Mariotti, area primitiva e area evoluta del cervello si troveranno in conflitto e spetterà alla corteccia cingolata dorsale il compito di mediare.
È probabile dunque che un soggetto dal comportamento mite cresciuto in una famiglia di larghe vedute arrivi alla conclusione che se «alcuni uomini neri possono essere pericolosi, questo non dipende certo dal colore della loro pelle». Chiaramente — precisa Mariotti — non siamo di fronte a «processi che avvengono in singole strutture separate tra loro, ma si tratta di dinamiche per cui le regioni cerebrali coinvolte, quelle degli istinti e quelle più evolute, si trovano in uno stato di continua interazione tra loro, il processo non è sequenziale, ma quasi simultaneo». In linea con le neuroscienze sociali sarebbero proprio gli attuali paradigmi psicoanalitici, a partire da quello post-freudiano per cui i contenuti consci si trovano in comunicazione costante con quelli inconsci.
In quest’ottica, una cultura adeguata può essere in grado di disinnescare i pregiudizi e controllare le pulsioni più profonde. Ma non basta. «Se oltre a studiare, il soggetto non svolge un lavoro di conoscenza su di sé — commenta Argentieri — il rischio è quello di passare dal pregiudizio al contropregiudizio», e quindi da convinzioni come quelle per cui «gli omosessuali vivono nel vizio» alla visione opposta e altrettanto irrealistica per cui «gli omosessuali vivono nella virtù». Meccanismo alimentato dal politicamente corretto e dalla tendenza a ripulire il linguaggio da termini che potrebbero essere letti come discriminatori nei confronti di determinate minoranze sociali. Se è vero che «nero» è meno offensivo di «negro» e che «diversamente abile» è più positivo di «portatore di handicap», Argentieri mette in guardia dal rischio della china scivolosa. «Accettare la diversità non vuol dire che tutto vada ugualmente bene, perché altrimenti si arriva a quello che sta accadendo in molti Paesi compreso il nostro, ossia che adolescenti, per non dire addirittura bambini nell’età dell’asilo, che manifestano tendenze a comportamenti del genere sessuale opposto vengono incoraggiati a definirsi transgender. Un comportamento di questo tipo nei confronti di ragazzini che sono ancora in una fase di massima fluidità della psicologia e dell’identità di genere non è un atto di coraggio, ma una forma di violenza».
Insomma, per essere superati, i pregiudizi vanno «attraversati», in un continuo processo di negoziazione tra idee ed emozioni che in qualche modo allena quel circuito cerebrale caratterizzato dalla mediazione della corteccia cingolata. Ma se è vero che c’è sempre l’eccezione che conferma la regola, il giurista Stefano Rodotà la individua nel frangente storico che viviamo. «Per quanto il politicamente corretto possa portare a derive grottesche come quella del vicepresidente del Consiglio Angelino Alfano, che, per paura di prendere le distanze dal proprio leader, preferisce nascondersi dietro l’ipocrisia di una definizione come “diversamente berlusconiano”, in certi casi il superamento del pregiudizio è talmente difficile che richiede l’estremizzazione. Non a caso — continua — Luigi Manconi, per convincere gli italiani che lo straniero è una risorsa, ha scelto un titolo estremo come Accogliamoli tutti». Buonismo? «Neanche per idea», sostiene. Sicuramente un modo per scatenare una reazione e un dibattito nella società, probabilmente non molto diverso da quello già attivato nel nostro cervello.
http://lettura.corriere.it/la-lunga-guerra-al-pregiudizio/

PAGLIA: “COME FEMMINISTA DICO: EVVIVA GLI UOMINI!”
di Alessandra Farkas, 27esimaora.corriere.it, 3 novembre 2013

 
“Il silenzio delle femministe Usa politicamente corrette davanti al femminicidio in India e Italia è intollerabile”. “Il femminismo storico ha contribuito alla distruzione della cultura occidentale, spingendo gli uomini a diventare gay”. E ancora: “Madonna è l’unica vera icona del femminismo moderno” e “In Facciamoci Avanti Sheryl Sandberg non la racconta giusta sull’enorme staff che l’aiuta a casa e col figlio“. Alla vigilia dell’uscita in Italia del suo sesto libro Seducenti Immagini, Un viaggio nell’arte dall’Egitto a Star Wars, (edito da Il Mulino) Camille Paglia concede una lunga intervista all’inserto culturale del Corriere della Sera ‘La Lettura’ dove conferma la sua fama di intellettuale pubblica più famosa e controversa d’America*.
“Star femministe come Kate Millett hanno fatto fortuna esortando le donne a buttare nella spazzatura Ernest Hemingway, D.H. Lawrence e Norman Mailer”, punta il dito l’autrice, docente di Humanities e Media Studies all’University of the Arts di Filadelfia. “Judith Butler, la più celebre teorica dell’identità sessuale, era una mia mediocre studentessa al Bennington College”. La sua guerra contro le femministe storiche va avanti da oltre 40 anni. “Nel 1970, quando durante un collettivo a New Haven osai dichiarare che amavo Under My Thumb dei Rolling Stones scoppiò il pandemonio. Per me quella canzone è un’opera d’arte, per loro un’eresia sessista. L’approccio all’arte delle femministe è simile a quello di nazisti e stalinisti”.
La rottura ufficiale con il movimento cui aveva tentato ostinatamente di appartenere coincide con una conferenza a Yale su arte e femminismo. “La scrittrice Rita Mae Brown, ex di Martina Navratilova, mi spiegò la differenza tra me e loro: ‘tu vuoi salvare l’università, noi vogliamo darla alle fiamme’”. Per anni Gloria Steinem si rifiutò di pubblicare i miei saggi su Ms. Magazine. Oggi nessuno sente più parlare della sua erede designata: Susan Faludi. Io invece sono ancora in piedi”. Il suo modello di femminismo annovera seguaci ovunque. “Rappresento un’ala del movimento perseguitata e messa a tacere per anni”, spiega, “Femministe come me e Susie Bright eravamo pro-sesso, pro-pornografia, pro-arte e pro-cultura popolare quando in America imperava la crociata di Andrea Dworkin e Catharine MacKinnon contro Playboy e Penthouse e a favore delle leggi antipornografiche”.
Vede forse un incremento di violenza contro le donne? “Il vero problema è che le terapie farmacologiche hanno sostituito un po’ ovunque Sigmund Freud”, ribatte la studiosa, “Rinnegando la psicanalisi, la nostra società si è esposta all’aggressione di menti criminali e psicotiche contro cui né la polizia e tantomeno la pena capitale sono deterrenti”. L’entità del fenomeno in Italia non la sorprende. “Picchiare, abusare o uccidere una moglie o fidanzata è relazionato alla dipendenza verso la figura materna di questi uomini rimasti bambini. Dietro ogni assassinio c’è un simbolo, l’ombra nascosta di un trauma infantile che solo la psicanalisi può far riemergere. Ma è anche colpa delle donne italiane ingenue che si rifiutano di leggere i tanti segnali che precedono la violenza. E anche la crisi della famiglia contribuisce al femminicidio”, aggiunge, “Un tempo se toccavi una donna italiana sapevi che il padre o il fratello sarebbero venuti a cercarti per regolare i conti”.
Il prossimo 15 novembre Paglia parteciperà a un dibattito sulla presunta fine dell’uomo alla Roy Thomson Hall di Toronto. “A sostenere questa tesi catastrofista saranno Hannah Rosin e Maureen Dowd”, racconta, “insieme a Caitlin Moran io difenderò invece il testosterone perché stufa di vederlo demonizzato come la fonte di ogni male. Quando i terroristi faranno saltare la nostra rete elettrica, disintegrando la nostra cultura, a salvarci saranno gli uomini veri: camionisti, muratori e cacciatori come i miei zii, per fortuna la maggioranza”. Proprio per questo il best-seller della Rosin non la convince. “Anche se Hannah possiede l’orecchio della working class – suo padre era taxista – il suo libro parla all’alta borghesia bianca. Donne ossessionate da diete e ginnastica, circondate da uomini addomesticati che hanno imparato a comportarsi secondo il canone femminista”. La mancanza di interesse per questa dilagante tipologia di donna (“l’avvocata o dirigente bianca laureata che non ha più nulla di femminile e vive in totale controllo di tutto ma senza gioia e piacere”) avrebbe secondo Paglia prodotto un numero record di uomini gay. “È un fenomeno globale che spiega il successo planetario di Sex and the City. Perché se è vero che alla nascita siamo tutti bisessuali, in questa cultura è molto meglio essere gay”.
 
http://27esimaora.corriere.it/articolo/come-femminista-dicoevviva-gli-uomini/
 
* Per l’intervista, vedi il link qui sotto:
http://kikukula2.blogspot.it/2013/11/femminismo-intervista-con-c-paglia.html

DIVINA PSICOANALISI
di Maurizio Porro, milano.corriere.it, 4 novembre 2013

 
In fondo la domanda è sempre quella dell’essere o non essere, ma se a porla è Dio a Freud e viceversa le cose cambiano. Il visitatore che Eric-Emmanuel Schmitt scrisse nel ‘93 torna a Milano al Franco Parenti, a molti anni dall’edizione con Turi Ferro e Kim Rossi Stuart, con due bravi e sintonizzati attori, Alessandro Haber cui spetta il ruolo dello psicanalista alla vigilia della sua partenza per Parigi nel 1938, e Alessio Boni, l’angelico visitatore, innamorati della regia di Valerio Binasco. «Oggi – dicono all’unisono – il testo è più attuale di ieri». L’autore lo scrisse quando una sera, vedendo la tv piena di sventure, pensò che il telegiornale deve deprimere molto Dio: «Ma Lui a chi può parlare quando soffre?». Eccoci quindi nello studio del dr. Sigmund, per 100 minuti tesi come una lama ma anche divertenti, mentre dalla finestra si sente il passo marziale nazista che ha invaso l’Austria: è il 22 aprile 1938. La scena è divisa, a sinistra la parte realista, a destra la parte magica e mistica, dove appare la coscienza, dove ci si interroga. Da che parte sta Dio Boni, che siederà sul lettino del dottore? «È stata una sorpresa: il testo mi interessa non per l’insopportabile divisione all’italiana tra atei e religiosi, guelfi e ghibellini, bianchi e neri, ma perché parla della crisi dell’uomo che oggi in sofferenza, dominato dall’informatica, dalla cibernetica che con un clic permette la virtuale onnipotenza: può darsi che sia tutta fantasia, ma non importa, la verità è che abbiamo perduto umanità e perciò si torna a un’analisi interiore. Io ho un fratello sacerdote e mi sono spesso confrontato con questo tema, ma trovo giusto porlo dalla scena». Quasi una terapia di gruppo col pubblico, che ride spesso, ma sul versante tragicomico: «Io ne esco distrutto per la fatica», dice Haber. «Freud è un uomo disfatto per le questioni razziali, ha teorizzato la mancanza di Dio, è razionalista, ha combattuto la follia, ma improvvisamente arriva uno che forse è Dio, un angelo, forse è un pazzo. Vacilla, come se la sua coscienza si sdoppiasse: viene in mente il carteggio tra Scalfari e papa Francesco».
Il visitatore pone domandone e non dà risposte, è un pareggio di cui però si porta dentro tutta l’inquietudine: «Ti poni quesiti che hai nell’inconscio e rimandi ogni giorno», dice Boni, «tanto che con la regia di Binasco, che non stacca mai il piede dall’acceleratore, il pubblico non si perde una battuta perché è la crisi di ciascuno di noi e loro. E di Freud che parlava di Dio come allucinazione collettiva ma alla fine è costretto ad ammettere che ci sono misteri, angosce, forze, fuori dal nostro controllo: del resto ho conosciuto atei più spirituali dei sacerdoti e credenti che ignorano la Bibbia». Freud, che poi scapperà in America ma lasciando a casa le sorelle, per Haber è «un carattere duro, imploso e forte, mai luminoso, raggomitolato dentro al ragionamento, nell’angoscia della malattia psichica: capito perché alla fine sono uno straccio?». Compito improbo, quello di far cambiare idea al dottore, che chiede al Visitatore se voglia convertirlo: «No, tranquillo», racconta Boni, «creo un dubbio, voglio aprirti a un momento di ottimismo e di meraviglia, al pensiero della musica e dei fiori, non è tutto nero, anche se siamo nella follia della guerra e anche nella follia di oggi. È un testo che lascia una porta aperta per la sensibilità di ognuno. Alda Merini scriveva: “Ringrazio i miei nemici perché sono i più attenti”. Ma l’Uomo dell’Umanesimo è in crisi e Freud, scienziato dell’anima, lo sa. Il problema è che viviamo tutti sulla superficie delle cose e nessuno vuole davvero diventare Uomo, da grande, come diceva padre Turoldo».
Un testo con un’anima tragica e ridicola che vuole in scena due attori appassionati allo scibile umano. Dicono: «Ogni tanto bisogna farsi domande alte, da portarsi a casa. Se la gente si diverte e commuove, abbiamo fatto centro. Non vogliamo evangelizzare nessuno ma far pensare tutti». Haber convive con Freud ormai: «Ha difeso l’intelligenza contro la stupidità, ha avuto una vita piena. Sono, come lui, dell’idea che l’uomo è libero di fare il Bene o il Male ma che ciascuno ha il suo Dio. La risposta è: se ci si comporta con etica e amore rispettando la dignità altrui, questa è religione. Certo che sarebbe bello se ci fosse anche l’al di là». E il teatro? «È il filtro, raccoglie immaginazione, metafora, poesia, è gioco della vita, fantastica con l’immaginazione, lancia segnali e guarda in faccia e osa. Infatti si ribaltano le cose, è Dio che psicanalizza Freud: siamo arrivati alla resa dei conti, amo la ricerca, le certezze non m’interessano e Sigmund mi ha convinto che non sapremo mai chi siamo».
http://milano.corriere.it/milano/notizie/cronaca/13_novembre_04/divina-psicoanalisi-f0b5209a-4542-11e3-9115-48b024bd67ed.shtml

DIO SUL LETTINO. I DUBBI DI SIGMUND FREUD DI FRONTE AL MISTERO DELLA VITA
di Simona Spaventa, repubblica.it, 5 novembre 2013
 
Se Dio si sdraia sul lettino dello psicanalista, allora lo psicanalista deve essere perlomeno Sigmund Freud. È una situazione paradossale quella che Eric-Emmanuel Schmitt,  drammaturgo e scrittore col gusto di giocare con la storia ribaltando nei punti di vista (da Il Vangelo secondo Pilato alle vite parallele dei due Hitler, uno buono e uno cattivo, di La  parte dell’altro), si è immaginato in Il visitatore, dove  mette a confronto la razionalità laica e l’ateismo  granitico del padre della psicoanalisi con la figura, per lui inammissibile, del creatore.
La pièce, scritta nel 1993 e  già messa in scena nel 1996 da Antonio Calenda che dirigeva Turi Ferro e Kim Rossi Stuart, arriva a Milano – da domani al Franco Parenti – nella nuova regia di Valerio Binasco. Sul palco, Alessandro Haber e Alessio Boni, coppia rodata (con tre anni di  tournée di Art di Yasmina Reza), sono pronti a un nuovo, sottile duello teatrale che si consuma nello studio di Freud, nella Vienna del 1938 occupata dai nazisti. Nei panni dello scienziato ebreo, un Alessandro Haber «stravolto – parole  sue – dalla fatica. A ogni replica perdo due chili, è la cosa più difficile che abbia fatto nella vita. Mi strazia, mi fa male questo Freud malato, che sta morendo di tumore in una Vienna scossa dalle persecuzioni razziali, con la figlia portata via dalla Gestapo. Un uomo avvilito, disperato, cinico, eppure ancora razionale. La sua intelligenza prevale su tutto, finché appare questa figura, potrebbe essere Dio o un pazzo, che lo interroga sul senso della vita. E lo mette in crisi». Dio, o forse un folle, è l’angelo misterioso interpretato da Alessio Boni: «Un’entità, non un personaggio – racconta l’attore – Non ho cercato fattezze da Gesù Cristo, questo dio è un fool, un clown, un sognatore. Un bambino che cerca di fare innamorare Freud della sua innocenza. Senza evangelizzare. Non lo vuole convertire, vuole riportarlo all’umanità, al mistero della vita che la scienza non può definire. Non puntiamo il dito sulla lotta tra guelfi e  ghibellini, tra credenti e non credenti. E il dubbio resta».
Un testo che, in un presente affannato da piccole e grandi ansie quotidiane, riporta in primo piano i grandi temi universali: «Ci fa domande che ci poniamo tutti, sulla vita, la morte, lo spirito – dice Haber -. Mette a confronto fede e ragione, e in questo è di grande contemporaneità, mi fa pensare al dialogo tra Eugenio Scalfari e papa Francesco. E proprio il papa vorremmo invitare a vedere la pièce, ne sarebbe incuriosito». Incuriosito, almeno alla prova delle prime repliche, è il pubblico: «Ci seguono in un silenzio totale – sottolinea Boni – lo spettacolo diventa una sorta di terapia di gruppo. Perché stiamo vivendo una grande crisi etica e di identità, di cui la crisi economica è solo la punta dell’iceberg. Abbiamo messo il denaro al centro, rincorriamo cibernetica e tecnologia, ci ritroviamo ingabbiati in una ragnatela quotidiana di frustrazioni e stanchezza, senza parlare con nessuno, senza ascoltare. L’attenzione degli spettatori dimostra quanto abbiamo bisogno di ritornare alla profondità, all’intelligenza del cuore che era dei nostri nonni».
 
Teatro Parenti, via Pier Lombardo 14, Milano, da domani (ore 19.30) al 17/11, 32/16 euro, tel.  0259995206
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/11/05/dio-sul-lettino-dio-sul-lettino-dubbi.html?ref=search

GENERAZIONE ORIZZONTALE. Il silenzio dei padri di fronte ai figli sdraiati sul divano
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 6 novembre 2013 

Freud dava ai genitori due notizie, una cattiva e una buona. Quella cattiva: il mestiere del genitore è un mestiere impossibile. Quella buona: i migliori sono quelli che sono consapevoli di questa impossibilità. Come dire che l’insufficienza, la vulnerabilità, la fragilità, il senso dei propri limiti, non sono ingredienti nocivi all’esercizio della genitorialità. Tutt’altro. È da queste due notizie che trae linfa Gli sdraiati, il nuovo, imperdibile, libro di Michele Serra che racconta la sua testimonianza singolare di padre. Se nella nostra cultura il tema della paternità è diventato negli ultimi anni un tema egemonico, è perché intercetta una angoscia diffusa non solo nelle famiglie, ma nelle pieghe più profonde del nostro tessuto sociale: cosa resta del padre nell’epoca della sua evaporazione autoritaria e disciplinare? Può esistere ancora una autorità simbolica degna di rispetto? Può la parola di un padre avere ancora un senso se non può più essere la parola che chiude tutti i discorsi, che può definire dall’alto il senso Assoluto del bene e del male, della vita e della morte?
Il padre di cui ci parla Serra attraverso il suo caso personale non nasconde affatto la paradossale “fragilità materna”, la schizofrenica incarnazione dell’autorità che oscilla paurosamente tra la spinta a sgridare e quella a soccorrere, non cancella le contraddizioni del suo parlamento interno, abitato, come quello di tutti – come ricordava giustamente Gilles Deleuze ai rivoluzionari degli anni Settanta -, da reazionari che invocano il ristabilimento repressivo dell’ordine. Questo nuovo padre non ha più a che fare con truppe di figli intimoriti dalla sua potenza titanica, né con figli ribelli che contestano la sua azione repressiva. Non si era mai vista prima una cosa del genere, commenta un amico di Serra preparandosi alla vendemmia in una bella mattina d’autunno mentre osserva i ragazzi che preferiscono trascorrere la mattina nei loro letti anziché unirsi ai “vecchi”. «Non si era mai visto prima che i vecchi lavorano mentre i giovani dormono». Una mutazione antropologica, come direbbe Pasolini, sembra aver investito i nostri figli. Michele Serra la sintetizza come passaggio dalla posizione eretta a quella orizzontale: eccoli, gli sdraiati, avvolti nelle loro felpe e circondati dai loro oggetti tecnologici come fossero prolungamenti post-umani del corpo e del pensiero. Eccoli i figli di oggi, quelli che preferiscono la televisione allo spettacolo della natura, che non amano le bandiere dell’Ideale, ma che vivono anarchicamente nel loro godimento autistico, eccoli in un mondo dove «tutto rimane acceso, niente spento, tutto aperto, niente chiuso, tutto iniziato, niente concluso». Eccoli i consumisti perfetti, «il sogno di ogni gerarca o funzionario della presente dittatura, che per tenere in piedi le sue mura deliranti ha bisogno che ognuno bruci più di quanto lo scalda, mangi più di quanto lo nutre, l’illumini più di quanto può vedere, fumi più di quanto può fumare, compri più di quanto lo soddisfa».
Non si era mai visto niente di simile a questa generazione. Sia detto senza alcun moralismo, precisa Serra. Non è né bene, né male; è una mutazione, «è l’evoluzione della specie», come commenta suo figlio.
Gli Sdraiati è un libro tenerissimo dove la consueta ironia e la forza satirica che tutti amiamo in Michele Serra si alterna a momenti struggenti, ad una nostalgia lirica di rara intensità e alla bellezza pura della scrittura. Come quando descrive l’orizzonte metafisico delle Langhe o la resistenza commovente al vento e alla pioggia delle portulache sulla terrazza della casa del mare dei propri avi, o, come quando racconta con stupore la scoperta dell’abitudine del figlio ipertecnologico di raggiungere il tetto della scuola per guardare le nuvole, o quando lo descrive stravaccato sul divano indugiando sul suo volto addormentato che «contiene il suo addio agli anni dell’innocenza», o come quando, ancora, osserva stupefatto, nelle pagine finali del libro, il figlio oltrepassarlo sul sentiero di montagna del Colle della Nasca che egli dubitava avrebbe mai potuto percorrere sino in fondo.
La giovinezza si palesa innanzitutto nell’odore. Nei versetti dedicati a Giacobbe la Bibbia descrive soavemente l’odore del figlio come quello neutro di un campo. Nell’età della giovinezza, come i genitori sanno bene, questo incanto si rompe. Era stato facile amarli da piccoli, quando l’odore del loro corpo era quello del campo. Adesso invece il corpo sgomita. Una delle etimologie del termine adolescenza significa infatti arrivare ad avere il proprio odore. È quello che accade anche agli sdraiati. Il corpo fa irruzione sulla scena della famiglia con la sua forza pulsionale di cui i calzini puzzolenti che il padre raccoglie con pazienza e disperazione per casa sono una traccia emblematica. Questo corpo spinge alla vita. Ma spinge a suo modo. Senza ricalcare quello che è avvenuto nella generazioni che li ha preceduti. Gli sdraiati sembra facciano collassare ogni possibilità di dialogo. La parola non circola. Sembra vivano in un mondo chiuso allo scambio. In Pastorale americana di Philip Roth l’impossibilità del dialogo tra le generazioni viene resa spietatamente attraverso le scelte del terrorismo e del fondamentalismo religioso compiute dalla figlia balbuziente per manifestare in questo modo la sua opposizione ostinata al padre. Niente del genere per Gli sdraiati di Serra. Il figlio non sceglie la via dell’opposizione ideologica, della lotta senza quartiere, della rabbia e della rivolta. Egli sembra piuttosto appartenere ad un altro mondo. Così lo guarda suo padre. Senza giudizio, ma come si guarda qualcosa di irraggiungibile, qualcosa che non possiamo governare. Per questo Serra invita le vecchie generazioni a porre fine allo loro assurda guerra che viene descritta – in una atmosfera oniroide alla Blade Runner – come uno scontro epico tra la moltitudine stremata dei Vecchi e la forza resistente dei Giovani.
Il condottiero dei Vecchi Brenno Alzheimer, alias Michele Serra, sa che la sua guerra è sbagliata, sa che è sbagliato odiare la giovinezza, guardarla con lo sguardo torvo e risentito da chi ormai ne è fatalmente escluso, sa che è sbagliato rifiutare la legge irreversibile del tempo. Brenno Alzheimer, diversamente dai padri ipermoderni che esorcizzano il passare del tempo come una maledizione, sa che sono i Giovani a dover vincere la guerra perché è «la bellezza che deve vincere la guerra. La natura deve vincere la guerra, la vita deve vincere la guerra. Voi giovani dovete vincere la guerra». Il segreto più grande nel rapporto tra le generazioni è quello di saper amare la vita del figlio anche quando la nostra inizia la fase del suo declino. Non avere paura del proprio tramonto è la condizione per la trasmissione del desiderio da una generazione all’altra. E non dispererei che le portulache che sono state oggetto di cura da tre generazioni nella terrazza della casa del mare – «la cura del mondo è una abitudine che si eredita», scrive Serra – possano trovare nello sdraiato, apparentemente indifferente allo spinozismo panteistico del padre, il loro giardiniere impossibile.
 
IL LIBRO Gli sdraiati di Michele Serra (Feltrinelli pagg. 108 euro 12).
 
http://www.repubblica.it/cultura/2013/11/06/news/michele_serra_gli_sdraiati-70319828/

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

 
 
 

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