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Novembre 2013 II – Terapie, ricordi, investigazioni, eredità

17 Nov 13

A cura di Luca Ribolini

LE MACCHIE DI RORSCHACH

di Simone Valesini, wired.it, 8 novembre 2013

 

Macchie di inchiostro speculari e informi, da cui a poco a poco sembrano emergere i confini di una figura, e in cui ognuno di noi sembra riconoscere qualcosa di diverso. È il test di Rorschach, strumento di indagine psicologica utilizzatissimo, e reso celebre al grande pubblico da innumerevoli pellicole cinematografiche. A dare il nome al test fu il suo inventore, lo psichiatrapsicoanalista svizzero Herman Rorschach, nato a Zurigo l’8 novembre 1884.
Come molti coetanei, da bambino il piccolo Herman amava giocare con l’inchiostro, versandone una goccia al centro di un foglio di carta, e piegandolo poi in due per realizzare bizzarre figure astratte, perfettamente speculari. Il passatempo per lui era però un’autentica ossessione, tanto da meritargli tra gli amici il soprannome di “ Klecks”, o macchia di inchiostro.
Crescendo, il suo amore per queste immagini non accennò a diminuire, tanto che al termine del liceo si trovò a valutare seriamente la possibilità di intraprendere una carriera da artista. Poiché nutriva anche una forte passione per la scienza, decise di chiedere consiglio per lettera a  Ernst Haeckel, celebre naturalistabiologo tedesco (passato alla storia per la famosa affermazione “l’ontogenesi ricapitola la filogenesi”), che si espresse, ovviamente, in favore della carriera scientifica. Hans si iscrisse quindi all’Università di Zurigo, scegliendo la facoltà di medicina.
Qui divenne allievo di  Eugen Bleulerpsichiatrapsicanalista di fama internazionale, e maestro tra gli altri di Carl Jung. In questo modo entrò in contatto con la  psicoanalisi, una disciplina che in quel periodo era in piena esplosione, e decise di indagare la possibile valenza psicologica e terapeutica delle sue amate macchie di inchiostro. Lo incuriosiva in particolare il fatto che guardandole ogni persona sembrava vedere nelle immagini una figura differente, un fenomeno che secondo Rorschach poteva mettere in luce degli aspetti inconsci della mente.
Laureatosi nel  1909, lo psichiatra continuò le sue ricerche, chiedendo negli anni a oltre  300 pazienti psichiatrici di guardare le macchie e raccontare cosa vi vedessero. Nel 1921 i risultati di questi studi confluirono in un libro, Psychodiagnostik (Psicodiagnostica), in cui descriveva il suo nuovo metodo di analisi psicologica. La sua tecnica, il test delle macchie di Rorschach, prevedeva che il medico mostrasse al paziente 10 macchie di inchiostro, chiedendogli di descrivere quello che vedeva, e analizzasse poi le risposte per mettere in luce i suoi processi mentali inconsci, ed eventuali patologie psichiatriche.
In poco tempo dall’uscita del libro il Test ebbe una gran fortuna, arrivando negli  anni ’60 ad essere la più diffusa tecnica di indagine psicologica negli Stati Uniti. Rorschach però non lo seppe mai. Morì infatti per una peritonite fulminante il 1 aprile 1922, a solo un anno dall’uscita del suo manuale.
 
http://daily.wired.it/news/cultura/2013/11/08/test-rorschach-642785.html

 

HABER CONVINCE, MA IL TESTO È FRAGILE

di Simona Spaventa, repubblica.it, 8 novembre 2013
In un momento in cui, complice il carteggio pubblico tra papa Francesco e Eugenio Scalfari, il dibattito tra fede e ragione è di nuovo di attualità, cade a pennello il ritorno sulle scene di una pièce che molto scalpore e successo aveva suscitato a metà anni Novanta in Francia. Parliamo di Il visitatore di Eric-Emmanuel Schmitt, penna brillante del teatro e della letteratura d’Oltralpe che osa mettere sul lettino di Sigmund Freud nientemeno che il Padreterno. Due personaggi con la maiuscola, oggi pietra di paragone teatrale per la coppia Alessandro Haber-Alessio Boni, diretta dalla regia di Valerio Binasco.
TESTO – Ci vuole una buona dose di coraggio, o forse ancor più disinvoltura e presunzione, per immaginarsi un confronto tra il padre della psicanalisi e, addirittura, Dio. Doti che non mancano a Schmitt, intellettuale salottiero che divide, da qualcuno bollato come mestierante di talento. Qui, entra nello studio di un Freud vecchio e malato nella Vienna del 1938 occupata dai nazisti. Assediato dalla Gestapo che gli porta via la figlia per un interrogatorio, rimasto solo e indifeso, ecco che gli compare un misterioso personaggio, forse un pazzo scappato dal manicomio, forse l’Eterno – il dubbio non viene mai esplicitamente sciolto – con cui intavola un dialogo serrato sui  massimi sistemi. Vita e morte, ingiustizia e malattia, le promesse di felicità e il loro tradimento ricorrono in un  confronto che resta alla superficie, in un testo fiume che cerca la battuta brillante e la applica a una verità storica troppo dolorosa, e dove le tirate filosofiche suonano perlopiù saccenti e pretestuose. Troppo furbo per toccare la mente o il cuore.
REGIA – Binasco appresta un allestimento classico e pulito, situando i due personaggi in uno studio il cui impianto naturalistico è turbato da soffitti appesi, riflettori in  scena, finestre che si aprono sugli inni che i nazisti in marcia cantano in strada, e uno spazio nero e vuoto sulla destra, luogo di confessioni e rivelazioni interiori e metafisiche. Più deciso il lavoro sugli attori, specie nella scelta di dare una fisionomia quasi da fool shakespeariano al Dio di Alessio Boni.
INTERPRETAZIONE – Nell’affrontare la pièce i protagonisti avevano due illustri precedenti in Turi Ferro e Kim Rossi Stuart, diretti nel 1996 da Calenda nella prima edizione del dramma. Un paragone da cui si discostano, dando molto del loro. E se Boni fa del suo meglio nella quasi impossibile parte di un Dio-clochard dai modi da puro folle, con pose da saltimbanco e risolini tra il nervoso e il beffardo, convince di più la prova di Haber. Fragile, tremante, con gli inciampi e l’incedere incerto di una  vecchiaia malata, dà al suo Freud una durezza chiusa e toni secchi che sono la cosa migliore, e più credibile, dello  spettacolo.
Teatro Franco Parenti via Pier Lombardo 14, fino al  17 novembre, tel. 0259995206
 
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2013/11/08/haber-convince-ma-il-testo-fragile.html?ref=search

 

DEPRESSIONE? ARRIVA IL NEUROBIOLOGO

di Massimo Ammaniti, la Repubblica, 8 novembre 2013
 
Il tema della mente umana ha sempre affascinato filosofi, psicoanalisti, ma anche neurobiologi come è testimoniato da un articolo di Eric Kandel, premio Nobel per la medicina e la fisiologia, pubblicato dal New York Times. È vero che Kandel, prima di intraprendere i suoi studi sui meccanismi cerebrali della memoria e dell’apprendimento, avrebbe voluto diventare psicoanalista. Ma proprio in quegli stessi anni Kandel iniziò a staccarsi dal lavoro clinico mostrando un interesse crescente per la ricerca neurobiologica di base. Erano anni nei quali si privilegiava, soprattutto negli Stati Uniti, la clinica psicoanalitica e psichiatrica legata al rapporto diretto col paziente, anche se si cominciava ad avvertire l’insufficienza di un approccio che non prendesse in considerazione la ricerca, soprattutto quella sul cervello. Abbandonate le discussioni cliniche sulle dinamiche della mente, Kandel concentrò la sua ricerca, in modo potremmo dire riduzionistico, sui meccanismi cerebrali dell’Aplysia, una lumaca di mare che presenta un corredo neuronale molto semplice.
Pur studiando un organismo biologico così semplice, Kandel è giunto a conclusioni più generali sull’influenza dell’apprendimento sull’efficienza delle preesistenti connessioni sinaptiche fra neuroni che possono favorire la comparsa di nuovi schemi comportamentali. Trasferendo queste osservazioni al campo umano, quando ad esempio avvengono scambi verbali e visivi fra due persone, non solo si verifica una reciproca condivisione a livello psicologico, ma anche a livello dei reciproci circuiti cerebrali che ne vengono modificati.
L’articolo di Kandel, La nuova scienza della mente, ripropone gli interrogativi sul rapporto fra mente e cervello. In un periodo nel quale lo studio neurobiologico va spesso alla ricerca delle aree e delle localizzazioni cerebrali per spiegare il comportamento umano, Kandel ci mette in guardia dal pericolo di un approccio riduzionistico che non può in nessun modo spiegare la complessità dei processi mentali umani più elevati. Per questo motivo i disturbi psichiatrici non possono essere omologati semplicisticamente ai disturbi della sfera corporea. Tuttavia nello studio dei disturbi psichici si stanno verificando passi incoraggianti, ad esempio nella comprensione della biologia della depressione e dei circuiti cerebrali implicati in questo disturbo. Varie aree cerebrali sarebbero implicate nella depressione, come quelle che mediano le risposte inconsce e motorie allo stress oppure la consapevolezza di sé e degli altri. Ma anche altre aree sono coinvolte, come quelle che intervengono nel sonno, nell’appetito o nella libido oppure con il riconoscimento della salienza emozionale delle esperienze. Come si vede il funzionamento del cervello è interessato nella sua globalità e media i comportamenti e gli stati d’animo tipici della depressione.
Ma quali sono le implicazioni di questi studi neurobiologici? Kandel ritiene che queste osservazioni neurobiologiche possano aiutarci a distinguere forme diverse di depressione, che invece sono difficili da distinguere prendendo soltanto in considerazione il piano dei sintomi, per esempio alla base delle categorie diagnostiche proposte dal recente Manuale Diagnostico americano DSM-5 che include ogni forma di depressione persistente nella categoria generale della distimia. E queste distinzioni neurobiologiche, come nota anche Kandel, possono essere anche utili sul piano terapeutico perché si possono riconoscere forme cliniche che rispondono meglio alla psicoterapia da quelle che invece migliorano con i farmaci antidepressivi. Ma ci sono altre annotazioni rilevanti: in primo luogo che l’interessamento cerebrale nella depressione non è univoco, ma ha sfaccettature complesse come la stessa esperienza personale di chi soffre di depressione. Inoltre la psicoterapia è «una terapia del cervello » che produce cambiamenti riconoscibili nel cervello, come avviene con l’apprendimento, e infine gli effetti della psicoterapia possono essere studiati e documentati.
Kandel afferma che la nuova scienza della mente definisce l’inseparabilità della mente e del cervello, anche se è opportuno ricordare la distinzione fra cause prossimali e distali fatta dal grande biologo evoluzionista Ernst Mayr, le cui lezioni furono seguite da Kandel. Nel caso della depressione le cause prossimali sono rappresentate dalle disfunzioni cerebrali, mentre quelle distali, possiamo dire quelle decisive, da esperienze personali di perdita o di deprivazione oppure traumatiche che incidono profondamente nel proprio sé e nelle relazioni con gli altri, creando un vissuto di depressione e di rinuncia.

http://foglianuova.wordpress.com/2013/11/08/venerdi-8-novembre-2013/
 

CONSUMISMO: IL DESIDERIO VINCE L’ANONIMATO

di Claudio Figini, ilfattoquotidiano.it, 9 novembre 2013
 
Sulla metropolitana di una grande città m’è capitato, recentemente, di assistere a una scena così familiare e al contempo inedita da sbalordirmi. Un giovanotto malmesso ma dignitoso aspetta la chiusura delle porte. Tiene gli occhi bassi. Il convoglio si muove e lui estrae un malconcio bicchierino, gli restituisce forma e finalmente parla. Parole ormai trite, sulla metro. Lamenta la crisi. Chiede un aiuto. Parla di figli e di lavoro che non c’è. Alza la voce per superare lo sferragliare lì intorno. Insomma, tutto già visto. Qualcosa però stona e sorprende. Il ragazzo non parla di soldi per comprare, per acquistare cibo, scarpe o vestiti. No, dice che chiede un aiuto perché desidera, se non altro (dice proprio così: se non altro), tenere insieme e unita la famiglia. Non parla di bisogni materiali e stringenti. Parla di desideri più alti, emotivi. E infatti emoziona e riscuote un successo. Commuove. Si frugano tasche e borsette e le monete migrano. Avrà inventato? Avrà recitato? Non lo so. Se l’ha fatto, è stato bravo, sottile. Però non conta, non al fine di quel che vorrei dire.
Credo che il desiderio sia l’unico padre rimastoci per il futuro. Da troppo siamo in balia di necessità da consumare nell’immediato, da bruciare in tempo reale. Siamo ostaggi di un’assenza di prospettiva, di pensiero a lungo termine, quello paziente e stratificato. Lo scopo della nostra esistenza è giungere in fretta e furia al soddisfacimento del bisogno di turno (reale o indotto, poco importa) perché ogni bisogno prende il nome di un consumo e il consumo è qui e ora, non domani. Consumare per esistere e valere, perché solo chi consuma è visibile e vale. Ci siamo inventati modelli nuovi e modelli ancor più nuovi, ogni prodotto diventa obsoleto già solo uscendo dal negozio. Il desiderio si è estinto. Lo conferma anche il Censis, nel suo 44° Rapporto sulla situazione sociale del Paese, quando ci ricorda come “la strategia del rinforzo continuato dell’offerta sia uno strumento invincibile nel non dare spazio ai desideri”, tanto che all’inconscio manca, oggi, la materia prima su cui lavorare: il desiderio. Per l’appunto. Anche il tempo è morto, assassinato. Sembra che tutti siamo immersi in un presente indistinto, perpetuo, dove non c’è spazio né per la memoria (il passato) né per il progetto (il futuro). Il bisogno si fa impellente, improcrastinabile. In un certo senso, possiamo dire che questa rincorsa al bisogno, come forma di autorealizzazione, ha ucciso il desiderio a tutto vantaggio dell’ansia.
Contribuendo a ridimensionare la mia ignoranza, l’amico Michele Marmo, filosofo levinassiano, mi ha illustrato per primo come ci sia un abisso sostanziale tra il desiderio e il bisogno. Mi ha fatto comprendere (e in questo ci si è messo anche Massimo Recalcati, quando ripropone la struggente figura dei desiderantes di cui narrava Giulio Cesare) quanto il termine desiderio, etimologicamente, richiami lo sforzo dell’uomo nel ricercare la via, scrutando il cielo e le stelle (infatti: de-sidera, privazione delle stelle, della loro vista). Ritrovarsi, perciò. Rallentare. Ho la sensazione che siamo di fronte a una preziosa occasione per svoltare e per svoltare, di solito, si rallenta. E se la crisi, questa terribile crisi, servisse se non altro a farci tirare il fiato? Se ci mettesse nella condizione, finalmente, di tornare a riprendere un contatto con noi stessi, coi nostri desideri? Potremmo riscoprire cosa significhi davvero scegliere, ascoltare quel che desideriamo, prevedere le tappe per realizzare sogni e ambizioni, regalando loro tempo. Potremmo scorgere la proiezione dell’oggetto nel tempo, riscoprire il valore della pazienza, quella che vive nello sguardo del contadino che sa vedere il grano nello stelo e poi nella spiga ancora verde. Il desiderio vince l’anonimato, ci esalta come persone districandoci dalla massa. Se desideri sei riconoscibile e puoi riconoscerti nei desideri degli altri. Il desiderio si fa collettivo e può diventare progetto di un popolo. Sì, desidero che si impari, di nuovo, a ricollocare l’uomo nell’umanissima dimensione del tempo. E per far ciò sono dispostissimo a concedere tempo all’uomo, perché il futuro si nutra di desiderio, perché si affermi come dimensione che orienta il cammino verso una meta, ritrovando le stelle, in continuità col prima e nella prospettiva del dopo. Di nuovo non posso che citare il Rapporto del Censis, quando ci dice che “tornare a desiderare è la virtù civile necessaria per riattivare la dinamica di una società troppo appagata e appiattita”.

http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/11/09/consumismo-il-desiderio-vince-lanonimato/771691/
 

COM’È DIFFICILE GUARDARE NEGLI OCCHI IL CANCRO

Scrive il filosofo Jean Baudrillard. «Parlare di morte fa ridere di un riso forzato e osceno. Parlare di sesso non provoca più nemmeno questa reazione: il sesso è legale, solo la morte è pornografica»
di Umberto Galimberti, D-Repubblica, 9 novembre 2013
 
Ho avuto 5 tumori. Combatto da quando avevo 23 anni ed ora ne ho 56. Quando morirò diranno: «Ma era malata da tanto». Capisco perfettamente che per tutti io sto dall’altra parte del muro invisibile che più o meno consciamente si erge tra chi sta bene e quindi si considera normale e chi è malato. La malattia  rovina la vita, e io ne sono un’ottima testimone. Quello che invece ritengo sia profondamente insensato è pensare a me come a una sventurata candidata alla morte. L’unica differenza tra me e ogni altro essere vivente è che io non posso dimenticare di dover morire mentre gli altri, sì. Della fine della vita non si deve parlare. I medici, quando ne parlo, mi consigliano qualche ottimo serotoninico. Ma la realtà è che tutti possono ingannare se stessi negando l’ineluttabilità della morte, tranne me e quelli come me. Dunque il mio problema, in fondo, è solo di sapere troppo, di aver dovuto capire, per forza e troppo presto, che il mio destino è quello di tutti gli esseri viventi. Il problema degli altri è invece quello di rinforzare  il muro immaginario per continuare a credere disperatamente di poter relegare me, e quelli come me, nell’area ben separata degli sventurati a cui per sorte è toccato un destino mortale. Francesca

Più che nel passato, oggi la morte è ritenuta un evento insensato, assurdo, ma soprattutto un evento da rimuovere, il più negativo dei pensieri che si possa affacciare alla nostra mente, e di qui l’invito ad allontanarlo il più rapidamente possibile. E siccome solitamente si muore a causa di una malattia (anche se Michel Foucault ci avverte che «non moriamo perché ci ammaliamo, ma ci ammaliamo perché fondamentalmente dobbiamo morire»), accade che chi è colpito da una malattia è come se venisse segregato in un altro mondo, nel mondo di chi non sta bene, e così isolato, anche se occasionalmente consolato da parole di speranza a cui non crede neppure chi le pronuncia. Questa è la ragione per cui c’è la tendenza a nascondere la propria malattia, a essere reticenti per non compromettere il proprio lavoro, i propri amori e quel normale rapporto con gli altri che è possibile solo a chi abita il mondo dei sani. Ci sono poi delle malattie come un tempo la tubercolosi e oggi il cancro, dove basta pronunciare la parola per essere iscritti nel mondo di coloro che sono destinati a morire. Come se gli altri fossero immortali. Non ho mai capito perché uno che ha avuto un infarto e che ha tante possibilità di morire quante ne ha uno affetto da un cancro non vive quella sottile esclusione sociale che è riservata ai malati di cancro, solitamente vissuti come dei con- dannati a morte. Nonostante i progressi della scienza in questo campo, e come la sua storia ultratrentennale con la malattia è in grado di smentire.
Ma c’è di più. C’è quella terribile tendenza, avvalorata dalla psicoanalisi e dalle neuroscienze, anche se non apertamente, a cercare cause psicologiche responsabili dell’insorgenza della malattia, per cui ad esempio gli introversi, gli ossessivi e quelli che tendono a tenersi dentro tutto, rabbie e passioni, sarebbero più esposti al cancro, perché il corpo si incaricherebbe di pagare il conto delle costrizioni dell’anima. Georg Groddeck, amico di Freud, diceva per esempio nel Libro dell’Es, a proposito della tubercolosi: «Muore solo chi vuol morire, colui per il quale la vita diventa insopportabile». In questo modo si toglie alla malattia la sua natura fisica per attribuirla alla volontà della mente. Un modo come un altro per celebrare la libertà dello spirito nei confronti della materia e, grazie a questa libertà, si avanza l’ipotesi di poter sconfiggere la morte con la forza della volontà. Quante volte l’abbiamo sentito dire nelle parole che vogliono incoraggiare il malato. Il risultato di queste “incoraggianti” ipotesi è che la vita o la morte dipendono da lui, per cui se non riesce a guarire, in fondo è colpa sua. E così, oltre alla malattia, il malato che dovesse convincersi, si assume anche il senso di colpa che queste insopportabili spiegazioni spiritualistiche aggiungono alla sua sofferenza. Anche in questo caso, guardiamo- ci dalle celebrazioni dello spirito sui processi deterministici della materia. In queste celebrazioni io leggo solo un’ulteriore difesa e un estremo rifiuto nei confronti dell’ineluttabilità della morte.

http://periodici.repubblica.it/d/?num=865
 

UN LIBRO SULLA MUSICA DA UNO PSICANALISTA
di Ines Corti Villa, leccoprovincia.it, 9 novembre 2013

 
È giunto in libreria l’ultimo libro di Angelo Villa dal titolo Pink Freud: psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos. L’autore è uno psicanalista, supervisore del progetto Crossing presso la Casa del Pozzo di Lecco. Autore di numerosi saggi psicoanalitici, si misura per la prima volta con questo libro su un tema diverso, quello della musica. Il risultato è un testo originale, quasi unico nel suo unire psicoanalisi e musica cantautoriale e rock. Con una scrittura frizzante e arguta, l’autore penetra nelle profondità delle tematiche affrontate, corredandole di esempi, citazioni e aneddoti ripresi dalle vite e dalle canzoni degli autori.
“Fino a pochi giorni fa, sulle pagine dei quotidiani italiani e non, molti si chiedevano chi sarebbe stato il fortunato autore ad essere insignito del Premio Nobel della Letteratura 2013. Fra i possibili candidati, comparivano, questa volta, dei personaggi piuttosto inusuali: Bob Dylan, Leonard Cohen e Roberto Vecchioni. Tre cantautori, tre personaggi importanti nella storia e nella cultura del loro Paese – e non solo, almeno per i primi due.  La proposta, tuttavia, non è stata esente da critiche: da una parte, i sostenitori, per i quali Dylan & co. sono dei poeti; dall’altra, i detrattori, che riducono le loro creazioni a semplice intrattenimento. Sono solo canzonette cantava Bennato, ironizzando sul fatto che la musica non fosse una cosa seria – esordisce Angelo Villa – D’altra parte, vero è che parliamo di musica leggera. L’aggettivo leggero sembra volerne suggerire l’appartenenza ad un mondo del divertissement piuttosto che a quello dell’arte, una maniera piacevole di passare il tempo ma nulla più. A mio avviso, però, si potrebbe provare a leggerlo diversamente. Mi viene in mente il commento più comune davanti al salto di un ballerino durante un balletto: è così leggero, sembra che non faccia fatica. La leggerezza del gesto maschera la fatica di ore di estenuanti allenamenti e ripetizioni. L’obiettivo finale è che tutta la ricerca sottostante per ottenere il movimento perfetto non vada ad appesantire il risultato e l’occhio dello spettatore sia deliziato da tanta grazia. E se la canzone racchiudesse qualcosa di simile? Se la leggerezza ne fosse una caratteristica essenziale per comprenderla e darle un ruolo nel panorama artistico?” .
Continua l’autore: “ Definire cosa sia una canzone non è facile. Anche i più grandi fan di Dylan & co. dovranno ben ammettere che aldilà dell’indubbio valore del loro lavoro, la questione è interessante: cos’è la canzone? Se non è letteratura, né poesia, né esclusivamente musica, allora qual è la sua collocazione nel mondo dell’arte e della cultura? È con questa questione che si apre il libro Pink Freud: Da Bob Dylan a Van de Sfroos: un testo che, come il titolo lo suggerisce, si disvela passando dalla musica alla psicoanalisi, in un intreccio fitto e sempre originale di aneddoti curiosi, osservazioni puntuali e riflessioni argute sul rapporto che la musica intrattiene con il soggetto. Da Freud a Dylan: qual è dunque il passo? Si narra che quando Freud entrava in un luogo in cui si suonava della musica, si tappasse le orecchie, visibilmente infastidito. Lo psicoanalista viennese era tuttavia un appassionato conoscitore e amante dell’arte: dalla pittura alla scultura, dalla letteratura al teatro.
Come mai, invece, la musica no? Cosa poteva esserci nella musica che portasse in maniera quasi automatica, impellente, le mani di Freud a coprire le sue orecchie, a non voler ascoltare? Questo interrogativo ci conduce all’interno delle pagine del libro. L’autore sembra individuare due aspetti, strettamente legati alle dinamiche dell’inconscio, il ritmo e la voce che caratterizzerebbero la canzone nella sua unicità. Ma non solo. La canzone è anche un elemento fondamentale per comprendere i cambiamenti avvenuti nel modo di concepire la vita affettiva e relazionale, il rapporto con l’educazione e la cultura, l’esigenza di libertà, la creazione di una nuova figura sociale – quella dei giovani –a seguito dei movimenti degli anni sessanta. Dai trovatori medioevali alle più recenti manifestazioni musicali, il libro racconta il contributo di otto autori: otto divagazioni che si sviluppano tra la biografia del cantante in questione e la tematica affrontata nella canzone. Si apre così con Dylan per seguire con Leonard Cohen e il tema del padre. Dopo di lui, quasi in contrapposizione, l’ex-Beatle John Lennon e la questione materna. Dalla madre alla donna, nella lettura che ne dà la musica di De André. E poi, dalla donna alle donne: Janis Joplin, Patty Smith e Joni Mitchell. Il testo continua affrontando due dimensioni classiche della musica rock: la fuga, con Bruce Springsteen e Born to run, e la droga, con Neil Young. A conclusione di questo percorso, troviamo un cantautore italiano, Davide Van De Sfross e la sua dolce Akuaadulza: un modo per tornare, circolarmente, al punto di partenza, cioè il ritmo e la voce.
Quando il lettore giunge, infine, alle ultime pagine del libro, la sensazione è, non solo di saperne decisamente di più sul mondo della canzone e sugli autori, ma anche di saperne in maniera diversa, nuova. Un’irresistibile spinta porta poi il lettore a ripercorrere a ritroso la propria vita, per ritrovare in essa, le canzoni che l’hanno accompagnata, l’hanno descritta e che – alle volte – si sono quasi sostituite ad essa, confondendosi in maniera inestricabile nei ricordi e nelle storie del nostro passato”.

http://www.leccoprovincia.it/cultura/item/1211-un-libro-sulla-musica-da-uno-psicanalista
  

LA COSCIENZA AL POTERE

di Alessandro Zaccuri, avvenire.it, 9 novembre 2013
 
Luigi Zoja fa segno di accomodarsi sulla poltrona sulla quale siedono di solito i suoi pazienti. «Tolga i cuscini, se danno fastidio», dice. Non raccomanda di allacciare le cinture, di cui pure ogni tanto si sentirebbe il bisogno. Dialogare con lui sul pontificato di Francesco significa infatti disporsi a un confronto niente affatto scontato. Oltre a essere uno dei più autorevoli psicoanalisti italiani, Zoja è tra i massimi conoscitori dell’opera di Carl Gustav Jung in campo internazionale. I suoi libri, da Il gesto di Ettore (Bollati Boringhieri, 2000) e La morte del prossimo (Einaudi, 2009) fino al recentissimo Utopie minimaliste (Chiarelettere), esplorano il territorio di frontiera tra etica pubblica e interiorità, in una prospettiva sempre sorprendente. «Non so perché, ma piacciono molto ai cattolici», scherza.
E lei ricambia la simpatia?
«Mi sta chiedendo se sono interessato alla figura di Francesco? La risposta sì, senz’altro, e per motivi che vanno al di là della persona del Papa. Un cambiamento come quello che si sta verificando nella Chiesa, per me, è molto più importante di una crisi di governo nel nostro Paese. L’agilità dimostrata dall’istituzione ecclesiale non è neppure lontanamente paragonabile con quella delle istituzioni civili, e lo stesso vale per l’influenza a livello mondiale. È un’onda lunga che pure, dal mio punto di vista, è destinata a fare i conti con l’attenuarsi dell’importanza della religione nel mondo globalizzato».
L’entusiasmo suscitato da Francesco non prova il contrario?
«Sì, se devo dar retta al mio amico Leonardo Boff, che in questi ultimi mesi ha cercato di contagiarmi con il suo ottimismo. Un atteggiamento che comprendo, sia chiaro. Da un decennio, ormai, trascorro un mese all’anno in Argentina e già prima del 13 marzo scorso il nome di Jorge Mario Bergoglio non mi era affatto sconosciuto. Di lui ho sempre sentito parlare in termini più che positivi. La crociata contro il lusso, per esempio, caratterizza da tempo il suo stile pastorale. Proprio per questo, però, non posso fare finta che la sua missione sia priva di rischi».
Si riferisce alla sfida del dialogo con tutti, credenti e non credenti?
«Il dialogo è un bisogno umano primario, ci mancherebbe altro che la Chiesa non lo praticasse e incoraggiasse. È stata la modernità, semmai, a trascurare così tanto la necessità di dialogo da doversi inventare un sostituto terribilmente costoso, complicato e difficilmente accessibile come la psicoanalisi. Da solo, però, il dialogo non è sufficiente».
Perché?
«Perché il richiamo al dialogo può essere frainteso e appiattito al livello della comunicazione. Va benissimo che un Papa sia un grande comunicatore, come Francesco ha dimostrato di essere a più riprese. La Chiesa, però, è testimone di qualcosa che sta più in alto rispetto alla comunicazione. La Chiesa è testimone del simbolo, del mistero, del sacrificio inteso non come assenza di un determinato bene od oggetto, ma come scoperta di un livello superiore e altrimenti inattingibile».
Ha nostalgia di un Papa più remoto e regale?
«Al contrario, vorrei che Francesco percorresse fino in fondo la strada del dialogo, dimostrando così la continuità profonda tra il suo pontificato e quello del predecessore. La rinuncia di Benedetto XVI ha avuto e continua ad avere una portata enorme. È un gesto senza precedenti, che obbliga la Chiesa a confrontarsi con il nodo del potere. Che è potere economico, certo, e quindi ben venga la trasparenza degli enti finanziari legati alla Santa Sede. Allo stesso modo non può più essere rimandata la purificazione di quanto attiene alla sfera degli abusi sessuali. Un’iniziativa, anche questa, che risale a Benedetto XVI e che Francesco ha ora il compito di portare fino in fondo, con tutta la delicatezza che un’azione del genere comporta. Ma il punto cruciale non è neppure questo».
Qual è, allora?
«Posso permettermi una provocazione laica e niente affatto laicista? La questione da risolvere riguarda il dogma dell’infallibilità. So benissimo che questo riguarda solo i pronunciamenti ex cathedra, ma nondimeno è il Papa stesso, quando si chiede “chi sono io per giudicare?”, a introdurre un elemento di dubbio o, se si preferisce, di possibilità. Si potrebbe rispondergli che è per definizione l’infallibile, colui che “deve” giudicare per correggere l’uomo, il quale è invece fallibile; oppure fargli notare che si sta spogliando di una prerogativa “imperiale”. La rinuncia all’infallibilità sarebbe la dimostrazione che il Papa è infallibile, almeno in quel momento. Sarebbe una spoliazione dalla forma più insidiosa e rigida del potere, con un’iniziativa veramente degna di Francesco d’Assisi».
Sì, ma un dogma non si può abrogare.
«Se il Papa è infallibile in materia di dogmi, dovrebbe esserlo anche nel momento in cui proclama che l’infallibilità non è più necessaria. Ciò richiama un’altra delle categorie predilette da Francesco, quella che forse più di ogni altra fonda la legittimità del dialogo».
Che cosa intende?
«L’appello alla coscienza, che non a caso è un tema decisivo per la stessa psicoanalisi. Vede, in italiano traduciamo come “coscienza” due diversi termini analitici tedeschi. Il primo, Bewusstein, descrive la consapevolezza intellettuale, mentre il secondo, Gewissen, è la coscienza morale. Per tradizione la mentalità italiana è incline a questa seconda tipologia, spesso declinata come adesione a una norma. È, direi, la versione cattolica della coscienza. A dover essere rivalutato è l’altro elemento, più presente nelle culture di matrice protestante, ma non solo in esse. Una coscienza consapevole, e quindi concreta, è stata tipica dell’opera dei gesuiti in America Latina, tra l’altro. E Francesco è un gesuita latinoamericano, giusto?».​​​​

http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/la-coscienza-al-potere.aspx
 

SCRITTORI: È MORTA SIBYLLE LACAN, AUTRICE MEMORIE SU PADRE PSICANALISTA

di Redazione, liberoquotidiano.it, 11 novembre 2013

(Adnkronos) –  La scrittrice francese Sibylle Lacan, seconda figlia del primo matrimonio dello psicoanalista Jacques Lacan (1901-81) con Marie Louise Blondin (1906-83), è morta venerdì notte nella sua casa di Parigi all’età di 72 anni. Nata il 26 novembre 1940, traduttrice dallo spagnolo, dall’inglese e dal russo, Sibylle Lacan conobbe una certa notorietà nel 1994 pubblicando Un padre (Gallimard), libro di dolorose memorie familiari tradotto in una quindicina di lingue (in italiano è apparso dalla casa editrice Le Lettere). Non è un romanzo e non è un’autobiografia, ma un puzzle: un padre e una figlia, i loro gesti che si compongono e si scompongono; un rebus di amore e memoria, risentimento e passione. “Parlare del padre che Jacques Lacan fu per me, non dell’uomo in generale, e men che meno dello psicanalista”, confidò la figlia a proposito dell’obiettivo della sua scrittura, rivelando: “Ho odiato mio padre per parecchi anni”, per aver abbandonato la mamma poco dopo la sua nascita. Nel 2000 ha pubblicato Points de suspension (Gallimard), questa volta dedicato alla madre. Dieci anni dopo la morte del padre, Sibylle decise di vendere all’asta il famoso divano psicanalitico di suo padre, spiegando la sua decisione con queste parole: “Per me mio padre non sta negli oggetti. Quel che conta, e lo conservo con me, sono i miei ricordi”. Con l’asta del divano e di un’altra cinquantina di cimeli del padre, la figlia incassò una somma pari a circa 80.000 euro odierne.
Sibylle Lacan è rimasta estranea nelle aule di giustizia al processo che ha opposto la sorellastra Judith Miller (figlia della seconda moglie dello psicoanalista) alla biografia di Jacques Lacan, Elisabeth Roudinesco, tra il 2010 e il 2011. Due anni fa Roudinesco è stata condannata per diffamazione dal Tribunale di Parigi per il suo libro Lacan, envers et contre tout, in cui sostiene che non siano state rispettate le ultime volontà di Lacan in merito alle sue esequie, scrivendo: “Lacan è stato seppellito senza cerimonia e nell’intimità nel cimitero di Guitrancourt, benché avesse espresso il desiderio di trascorrere gli ultimi giorni della sua vita in Italia, a Roma o a Venezia, e avesse voluto dei funerali cattolici”. Con una dichiarazione alla stampa Sibylle di fatto confermò la tesi di Roudinesco: “Mio padre è stato sepolto senza che mio fratello Thibault e io fossimo consultati. Abito a Montparnasse, conosco molti psicanalisti, tra i quali vecchi collaboratori di mio padre che avrebbero tanto voluto assistere alle esequie”.

http://www.liberoquotidiano.it/news/cultura/1348295/Scrittori–e–morta-Sibylle-Lacan–autrice-memorie-su-padre-psicanalista.html
http://www.liberoquotidiano.it/news/1348314/Scrittori-e–morta-Sibylle-Lacan-autrice-memorie-su-padre-psicanalista-2.html
  

PSICOANALISI IN GIALLO

di Piero Di Domenico, boblog.corrieredibologna.corriere.it, 11 novembre 2013
 
Le differenze tra detective e analisti non sono poi molte, così come sono poco distanti tra di loro i metodi dell’indagine poliziesca e quelli dell’analisi. E’ quanto viene sostenuto nel libro Psicoanalisi in giallo (Raffaello Cortina Editore) che raccoglie saggi di 7 membri della Società Psicoanalitica Italiana, che hanno preso in esame popolari investigatori provenienti da letteratura, fumetti e serie tv, da Montalbano all’Adamsberg di Fred Vargas. Dei meccanismi dell’investigazione, poliziesca e psicoanalitica, ha parlato venerdì scorso a Bologna Giovanni Foresti, segretario scientifico del centro milanese “Cesare Musatti”, a colloquio con Angelo Battistini. Era il terzo incontro, alla libreria Zanichelli, del ciclo Il colore delle esperienze, promosso dal Centro Psicoanalitico di Bologna.
“Tutti quelli che hanno collaborato al libro – ha esordito Foresti – avevano un debito di riconoscenza con la letteratura gialla. La matrice comune si può rinvenire in un saggio di qualche anno fa di Carlo Ginzburg, che riteneva che il metodo di ricerca sulla base degli indizi, che accomunava personaggi distanti come Freud, Conan Doyle, padre di Sherlock Holmes, e lo storico dell’arte Giovanni Morelli, scaturisse dalla semeiotica medica e dal fatto che erano tutti e tre dei medici”. In questi ultimi anni il romanzo giallo è letteralmente esploso, ha evidenziato lo psichiatra e psicoanalista pavese: “Un tempo i gialli non si trovavano in libreria, perché erano considerati di serie B. Ora invece si sono impadroniti degli scaffali centrali. Questo perché la letteratura gialla soddisfa un bisogno di giustizia, che mette insieme al senso di colpa in sole 200 pagine. Questo bisogno, in una realtà sempre più incomprensibile e confusa, non viene più soddisfatto”.
Una separazione tra buoni e cattivi che qualche nuovo investigatore non rispetta più, sporcandosi le mani come e più degli indagati. “In questo periodo – ha continuato Foresti – sto studiando In Treatment nella versione italiana e in uno degli episodi uno dei pazienti, un poliziotto sotto copertura, dice che il senso di colpa non è un organo vitale. In effetti oggi sono venuti meno i punti di riferimento etici che favorivano l’emersione del senso di colpa dell’individuo”. Lo studioso, che nel libro si è occupato del trasandato tenente Colombo incarnato da Peter Falk, si è detto poco convinto delle recenti serie tv condite di psicoanalisi: “Sono fatte molto bene, tanto che qualche collega le usa a scopi didattici. Ma che facciano bene alla professione è tutto da vedere, perché i terapeuti sembrano anime allo sbando tanto quanto i pazienti”.

http://boblog.corrieredibologna.corriere.it/2013/11/11/psicoanalisi-in-giallo/

 

LE TANTE PSICOTERAPIE CHE INDAGANO DENTRO E FUORI DI NOI

Per alcune conta il comportamento osservabile, per altre i fenomeni intrapsichici
di Danilo Di Diodoro, corriere.it, 11 novembre 2013*

Con il termine psicoterapia si intende un insieme di tecniche di cura basate principalmente sulla comunicazione e sull’utilizzo del rapporto tra terapeuta e paziente. Esistono diverse psicoterapie, applicate a tutta la gamma dei disturbi psichici e anche talora somatici. Una psicoterapia molto utilizzata in Italia è quella a orientamento psicoanalitico o psicodinamico. È basata sui principi della psicoanalisi, quindi sull’indagine dei fenomeni intrapsichici, soprattutto inconsci. Si differenzia dalla psicoanalisi vera e propria per un più ridotto numero di sedute settimanali e per la rinuncia all’uso del classico lettino. Sono variabili tecniche esteriori, ma la dinamica del processo terapeutico è sostanzialmente la stessa: analizzare il transfert tra paziente e terapeuta, e capire le ragioni inconsce per le quali si è sviluppato il disturbo, ricostruendo un significato coerente della storia di vita del paziente e alleviando i sintomi.
INDIRIZZI – Dato che la psicoanalisi dopo Freud si è frammentata in vari indirizzi, esistono anche psicoterapie da essi derivate, come la Psicologia analitica di Jung, la Psicologia individuale di Adler, la scuola di Lacan. Oggi è diffusa una psicoanalisi «relazionale», in cui si presta attenzione non solo al mondo interno ma anche alle relazioni interpersonali. Nella psicoterapia comportamentale è rilevante solo il comportamento osservabile e misurabile, mentre sono di minor interesse i fenomeni intrapsichici. Negli anni Settanta l’approccio comportamentista fu affiancato e superato da quello cognitivo, che ha introdotto la variabile delle cognizioni, quindi del ruolo della mente, che media tra le esperienze (il mondo esterno) e il comportamento (che deriva dal mondo interno). La terapia cognitiva tenta di modificare le convinzioni o cognizioni del paziente, che possono essere causa di sintomi psichici. Cognizioni negative su se stessi e sul mondo possono provocare stati depressivi, e modificandole si può migliorare l’umore. Negli Stati Uniti i padri della terapia cognitiva avevano una formazione psicoanalitica, e volevano formulare una terapia più efficace e breve.
SISTEMICA – La psicoterapia interpersonale (Inter-Personal Therapy, IPT) è focalizzata pressoché esclusivamente sulle relazioni interpersonali, considerate possibile fattore di problemi psicologici. Anche in questo caso il trattamento ha durata limitata, in genere non più di venti sedute. Si tratta di una psicoterapia nata in un contesto di ricerca per l’efficacia della psicoterapia, e ha aspetti sia psicodinamici sia cognitivi. Molto utilizzata in Italia soprattutto a partire dagli anni Settanta, lapsicoterapia sistemica è impiegata per il trattamento delle famiglie con un membro che ha disturbi psicologici. Infatti è focalizzata sulle relazioni nella famiglia piuttosto che sul singolo. Gli psicoterapeuti sistemici cercano di osservare tali relazioni nella maniera più oggettiva possibile. L’obiettivo del trattamento è riuscire a modificare le relazioni intrafamiliari per mezzo di specifiche strategie comportamentali o verbali. A partire dagli anni Ottanta la terapia sistemica ha abbandonato un certa rigidità teorica e tecnica, assimilando anche aspetti psicodinamici, ma viene ancora utilizzata molto, ad esempio nella psichiatria pubblica e per disturbi anche gravi. Un tipo di psicoterapia sistemica che ha mantenuto la sua impostazione originaria è la cosiddetta terapia strategica.
TRATTAMENTI – Oltre a queste forme di psicoterapia più largamente conosciute e impiegate, esiste un vero e proprio «arcipelago» di trattamenti, come la psicoterapia bioenergetica o la terapia corporea che fanno riferimento a Wilhem Reich o Alexander Lowen, il training autogeno di Schultz e varie altre tecniche di rilassamento derivate dallo Yoga, le tecniche di meditazione, lo psicodramma (rappresentazione scenica dei conflitti interiori del paziente), l’ipnosi (di tipo tradizionale o nella versione più recente di Molton Erickson). Al gruppo delle psicoterapie si può far risalire anche il bio-feedback, training di controllo automatico delle proprie reazioni psicofisiologiche, come l’ansia. Infine, ci sono le psicoterapie di gruppo, anch’esse suddivise in tanti diversi filoni secondo il singolo orientamento. Quasi tutte le psicoterapie possono essere individuali, di coppia, familiari, di gruppo, oppure utilizzate come intervento nelle istituzioni e così via.
EFFICACIA – Aperto resta il dibattito sull’efficacia delle psicoterapie. Una recentissima risoluzione ufficiale dell’American Psychological Association, pubblicata in contemporanea in Italia nel n. 3/2013 della rivista Psicoterapia e Scienze Umane, indica che per molti disturbi psicologici, tra i quali la depressione, la psicoterapia ha dimostrato di avere effetti positivi superiori a quelli degli psicofarmaci, anche perché sarebbe più efficacie nel lungo periodo e risulterebbe più protettiva rispetto al rischio di ricadute. Fin dagli anni Sessanta, lo psicoterapeuta americano Jerome Frank aveva affermato che probabilmente tutti i tipi di psicoterapia funzionano attraverso elementi comuni non specifici. A funzionare sarebbero l’interesse mostrato dal terapeuta verso il paziente e la relazione emotiva di fiducia, associata a tentativi di spiegazione razionale dei disturbi.

(*Articolo apparso sul Corriere Salute il 10 novembre 2013).

http://www.corriere.it/salute/neuroscienze/13_novembre_08/tante-psicoterapie-che-indagano-dentro-fuori-noi-a67e036c-488e-11e3-891b-7fc0b9dff093.shtml
 

SE QUESTO È UN PADRE

C’è una generazione che ha voluto demolire la figura paterna. Ma ora, alle prese coi figli alieni in casa, se ne pente. A metà. Il nuovo libro di Michele Serra
di Marco Belpoliti, l’Espresso, 14 novembre 2013
 
Bisogna partire dal finale per capire il senso di questo racconto-saggio-monologo interiore, Gli sdraiati, di Michele Serra in uscita con Feltrinelli. È lì che appare evidente cosa è in gioco nella storia di un padre che cerca il contatto con il proprio figlio, e non riesce ad averlo. Dopo aver perseguitato il ragazzo, un tipico adolescente d’oggi, nativo digitale, come si dice, uno “sdraiato”, con la prova della salita al Colle della Nasca, il padre riesce a trascinarcelo. Una salita faticosa compiuta dall’adolescente con le scarpe e il vestiario inadatto. A un tratto il padre perde il figlio di vista. Pensa che sia rimasto indietro, crede di doverlo soccorrere, e invece il ragazzo l’ha superato. Lo chiama e lui risponde: “Sono quiiiii! Papààààà!”. La parola -papà – risuona per la prima volta. L’uomo ascolta “il nome del padre nella sua forma infantile”. Ha un sussulto di spavento. Sarà in difficoltà? Poi capisce: è più avanti di lui, è lassù, sta per arrivare in cima. La sua risposta è perfetta: “Aspettami!”. Ma il ragazzo non risponde, non lo sente più. La conclusione paradigmatica: “Finalmente potevo diventare vecchio”.
Appartengo alla generazione di Serra e come lui ho dei figli, delle figlie – il che è un poco diverso che essere genitori di maschi. Per noi diventare vecchi è un incubo e insieme un porto sicuro, una paura, quasi uno spavento, e un approdo. La generazione nata tra la fine degli anni Quaranta e la fine dei Cinquanta, è senza un punto di partenza e senza un punto d’arrivo certo. Rimasta a metà strada tra il vecchio mondo, andato in pezzi alle nostre spalle (con il nostro contributo), e il nuovo in cui non siamo ancora giunti e forse non giungeremo mai. Il Sessantotto, sia che vi abbiamo partecipato, sia che siamo stati testimoni, ha bruciato le navi con cui eravamo arrivati, e addio possibilità del ritorno. Siamo eterni figli senza più padri, e padri senza veri figli. Una lunga storia che comincia ancor prima, come ha raccontato in un libro rivelatore qualche anno fa lo psicoanalista Luigi Zoja (Il gesto di Ettore. Preistoria, storia e attualità e scomparsa del padre, Bollati Boringhieri). A un certo punto del nostro viaggio abbiamo capito che la figura del Padre, a differenza di quella della Madre, è un artificio, una costruzione. I mammiferi maschi sono stati per milioni di anni tali senza essere padri. Come ha scritto Zoja, su un arco di centinaia di milioni di anni solo la specie umana ha ipotizzato l’esistenza della figura paterna. Si tratta di un mestiere che si apprende attraverso un addestramento culturale. Noi, e i nostri fratelli maggiori, questo addestramento l’abbiamo rifiutato tre decenni fa, e per questo siamo proceduti nel deserto della figura paterna. Dopo aver odiato e respinto i padri autoritari, dopo aver dileggiato quelli senza spina dorsale, seduti al desco serale con la tv accesa davanti, ci siamo trovati, tutto a un tratto, per via di un atto compiuto per amore e con incoscienza, e speranza del futuro, a essere padri. Procedendo nei decenni successivi questa generazione, i veri sdraiati siamo noi, ha incontrato sempre maggiori difficoltà. Il problema, come ha scritto Massimo Recalcati (Cosa resta del padre?, Cortina), è diventato, via via, quello dell’eredità. Cosa abbiamo da passare ai figli?
Domanda imbarazzante che il protagonista di Serra si fa, in forma indiretta, più volte. La traduce in: cosa abbiamo in comune? Dna, tratti somatici, atteggiamenti ? In cosa ci somigliamo? L’inizio del libro è altrettanto paradigmatico del finale. Nell’ingresso della casa che abita con il figlio – non c’è alcuna figura femminile nel libro – c’è un tappeto, un kilim. Il figlio lo calpesta, stropiccia, piega. Quest’oggetto, quasi un topos da radical chic, diventa l’emblema di ciò che il figlio bistratta. Il padre è il tappeto. Il figlio ci passa sopra con le sue scarpacce, oggetto chiave nel racconto, ed è come se calpestasse il padre stesso, che s’identifica, a torto – presume sempre – con chi ha tessuto amorevolmente il tappeto, che il figlio non rispetta. Un altro degli oggetti che lui rifiuta, perché rifiuta il passaggio del testimone. E qui sta il dramma: il padre non sa cosa ha da passargli, una volta evaporata la figura paterna come autorità o autorevolezza. D’altra parte, il figlio gli sta lontano, lo teme, anche se non glielo dice in modo diretto: non vuole la lotta. Ettore, nell’Iliade, si piega verso il figlio, gli tende le braccia, ma il figlio si ritrae perché l’armatura che indossa lo spaventa. Dice Zoja che la corazza di Ettore non è una difesa dal nemico, bensì dal figlio, dal mondo dell’infanzia perduto ed estraneo. Il padre di Serra non ha corazza, è indifeso e sguarnito; armato solo del suo non-capire, non-sapere, si tende verso il figlio e questo si sottrae. Una condizione dilaniante: niente infanzia alle spalle, nessun futuro davanti. Solo quell’amara conclusione: “Finalmente potevo diventare vecchio”.
Ma siamo mai diventati adulti? Grandi sì, adulti forse no. Siamo una generazione che per eccesso di affettività da ricevere – desiderata e non avuta dai nostri padri – e da dare – voglia di dare, senza riuscirci – è diventata anaffettiva. Per troppo affetto, ci siamo ritratti nel nostro spazio difendendolo sino all’eccesso ed escludendo l’altro. Il libro di Serra è un catalogo di spazi, da quelli della memoria a quelli della casa, sentiti come violati, o non capiti e non apprezzati dal figlio. Un figlio che è quasi un fratellino più piccolo, un altro sé, con cui il protagonista si rapporta passando attraverso la memoria del proprio sé. Il grande libro nazionale, Pinocchio, suggerisce Zoja, presenta l’immagine di una società di Fratelli: Geppetto non è un vero padre; la madre adottiva, la Fata, è una sorella; Lucignolo, personaggio centrale dell’antropologia italiana, è il Fratello, detentore dei veri riti d’iniziazione, che portano Pinocchio a trasformarsi prima in animale poi in un vero ragazzo, piccolo uomo. Quello che il padre de Gli sdraiati cerca è questo rito di passaggio. Lo identifica nella salita al Colle, dopo aver cercato di comprendere nel capitolo più graffiante e più disperato del libro, quello dedicato al negozio delle felpe, invaso dalle ninfette e dai giovanissimi satiri, i riti d’iniziazione dei figli, respinti attraverso il sarcasmo – nel libro sarcasmo e ironia sono la crosta sotto cui la voce narrante seppellisce i suoi dolori. Essere superati dal figlio nell’ascesa, è cominciare a morire. A differenza di quello che credeva Zoja alcuni anni fa, ne Il gesto di Ettore, oggi il sentimento di nostalgia verso la figura del padre sta riemergendo con forza. Diventare vecchi è diventare padri?, Serra ci lascia con questo interrogativo.

http://foglianuova.wordpress.com/2013/11/09/annalena-benini-padri-comici-e-spaventati
 

DA QUELL’”IO SONO MIA” ALLE GIOVANI DONNE DI NESSUNO

di Luigi Ballerini, avvenire.it, 15 novembre 2013
 
Quella delle baby-prostitute è in fondo una storia fatta di presenze troppo ingombranti e di grandi assenze. Oggetti presenti, padri assenti. Gli oggetti la fanno da padroni in queste vicende. Abbiamo visto ragazze che si fanno oggetto per possedere sempre più oggetti.
L’ideologia femminista ha tanto parlato della donna-oggetto vedendone il suo riscatto nel motto programmatico “io sono mia”, ma proprio qui stava l’errore interno al suo discorso, un errore logico per il quale le pur giuste istanze sociali portate avanti dal movimento non arrivavano al loro compimento: proprio quello stesso tentativo di sottrarre la donna alla condizione di oggetto la fissava paradossalmente ad essa. La donna-oggetto, così come la ragazza-oggetto, è infatti colei il cui corpo viene scisso dal rapporto, il cui corpo viene assolutizzato, ossia sciolto dalla pensabilità prima e dall’esperienza poi di una relazione benefica con un altro che cessa di essere antagonista per divenire socio. Il corpo, ab-solutus, può diventare pura merce di scambio per ottenere i soldi necessari per comprare oggetti di venerazione, telefonini, capi griffati o cocaina: l’altro sparisce dall’orizzonte, non esiste più, perde la sua individualità. I clienti infatti sono per loro natura tutti uguali. È una storia di sagome quella che leggiamo nella cronaca, non ci sono più persone né soggetti, non c’è nessun incontro né rapporto, solo un contatto a tempo e monetizzato. La prostituta stessa, che è la donna di tutti, finisce poi per essere la donna di nessuno. Nemmeno di sé. E qui intervengono le assenze.
Dov’erano i padri di queste ragazze? Sappiamo che il padre è il primo uomo della propria figlia, che molto del suo futuro di donna dipende da questo primo trattamento che lui le riserva. Una figlia che non è mai stata vista come donna, come corpo sessuato animato dal suo pensiero, faticherà a pensarsi come tale. La mancata precoce esperienza di preferenza da parte di un altro – peraltro un altro così irrinunciabile come il padre – lascia spazio al compiacimento narcisistico di essere contemplati come oggetto. La componente narcisistica, che riduce l’altro da compagno benefico a contemplatore, è molto presente in questa storia, essa inoltre rappresenta una questione che si allarga all’intero mondo giovanile, con le baby-prostitute che costituiscono la perfetta realizzazione di una malevole e diffusa tentazione. È quella che potremmo definire la tirannia del mi piace. Il pollice sollevato di Facebook ne è la più clamorosa esemplificazione grafica, e non solo. Si tratta del bisogno di una continua conferma di valore da parte dell’altro, in cui tuttavia l’altro è costretto a girare attorno a chi si mette in mostra per dire quanto la trovi bella o bello (anche i maschi non si fanno mancare niente al riguardo). Il valore del soggetto è ridotto all’apprezzamento delle sue qualità più immediate, quanti più mi piace ottiene la mia foto tanto più io valgo.
Dalle intercettazioni telefoniche, troppo esibite e spesso voyeuristicamente lette, emerge potente il senso di euforica eccitazione delle ragazze nelle trattative: l’idea di piacere per essere in fondo dominatrici, di tenere in pugno giovani e uomini maturi, di possedere il mondo sapendo “come gira”, quando invece è il mondo con le sue ciniche teorie a possedere loro. È una brutta storia di falsi, questa. Rapporti, guadagno, possesso sono concetti tutti falsificati e ridotti a caricature. È da qui che si riparte, da un lavoro culturale nelle scuole, nelle famiglie e nella società che rimetta le cose al loro posto: il rapporto come luogo della partnership fra soggetti, il guadagno come ciò che arriva per mezzo di un altro per la produzione di un sovrappiù reciprocamente soddisfacente, il possesso come usufrutto del reale in cui il bene goduto non diventa esclusivo, ma viene lasciato nella sua integrità perché altri ne possano godere a loro volta.

http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/ballerini-baby-prostitute.aspx

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpresss.com)

 

 

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