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Novembre 2013 III – Racconti e sogni, donne e potere, spionaggio e interrogativi

25 Nov 13

A cura di Luca Ribolini

DONNE SENZA UNA STORIA E MADRI SENZA UNA VOCE. LA RIMOZIONE È FEMMINA

di Massimo Recalcati, la Repubblica 16 novembre 2013
 
Due libri recenti e molto diversi tra loro offrono ritratti opposti della femminilità: nel primo, titolato Sovrane, edito da Il Saggiatore,  Annarosa Buttarelli  – filosofa e femminista – s’impegna a ricuperare le tracce di una pratica femminile del governo, mentre nel secondo, quello di Lucrezia Lerro, già nota per romanzi di un certo successo come Certi giorni sono felice o Il rimedio perfetto – , titolato La confraternita delle puttane, edito da Mondadori, emerge un universo di disperazione e di morte dove il destino delle donne appare segnato da una solitudine senza speranza.
 
Si tratta di due testi che sembrano meditare attorno a quel rifiuto della femminilità messo a tema da  Freud. Un destino di rimozione colpisce il femminile non solo nella società patriarcale, ma nelle vicissitudini più profonde della vita psichica, sottraendogli ogni diritto di cittadinanza. E’ precisamente contro questa rimozione che Annarosa Buttarelli lotta a viso aperto. Ecco la posta in gioco del suo lavoro: è possibile dare voce ad una filosofia e ad una pratica femminile della democrazia che si emancipi dalla “storia monosessuata maschile delle istituzioni politiche d’Occidente?”. Domanda che – secondo l’autrice – si rende necessaria constatando come “tutte le cose “maschie” sono oggi in agonia o già morte – Stato, famiglia dell’uomo che porta a casa il pane, matrimonio esclusivo tra uomo e donna, democrazia rappresentativa, polis, solidarietà di classe, salari, divisione privato-pubblico”. Esiste una narrazione solo maschile della sovranità che s’incarna nell’autorità del pater familias come nella democrazia rappresentativa e che esalta l’universale della Legge contro il particolare della vita. Diversamente, la sovranità  femminile si esercita “non contro ma sopra la Legge” prendendosi cura della vita nella sua particolarità. E’ il concetto stesso di rappresentanza che viene qui messo in discussione. Non si tratta di riabilitarne la funzione, ma di cogliere nella sua crisi attuale l’apertura ad un’altra pratica di governo.
 
Nelle donne – continua il ragionamento della Buttarelli – esiste una sensibilità affettiva che intende il  governare non come rappresentanza di un’altra volontà – della Nazione, dello Stato, del popolo – ma come esercizio di una cura fondata sul  “primato assoluto della relazione”. Dall’Antigone di Zambrano, alla regina Elisabetta, da Hanna Arendt a Carla Lonzi, dalla dea bambina Kumari alla scrittrice Anna Maria Ortnese, da Chiara di Assisi alla sindaca di Orsiglia Graziella Borsatti, l’autrice convoca i  testimoni di questa “democrazia senza rappresentanza” capace di dare luogo ad un economia non vincolata all’assillo dell’utile e del profitto e ad una vita politica non preoccupata di unificare le differenze quanto piuttosto di esaltarle. Ne scaturisce un libro che può essere un contributo importante nell’attuale dibattito politico impegnato a ripensare le ragioni della nostra vita insieme. Il testo di Lucrezia Lerro ci offre invece un’altra visione del femminile che completa, come in un contrappunto tragico, il libro della Buttarelli: dalle sovrane alle puttane. Si tratta di un romanzo scritto con il consueto stile asciutto e ricco di una poesia che scaturisce dall’attenzione al dettaglio delle cose e al peso delle parole. Ambientato in un claustrofobico paesino del profondo Sud nel corso degli anni Ottanta, dove domina il fantasma maschilista che vuole le donne “tutte puttane”, ritrae le ambizioni di giovani donne dalle condizioni sociali umili, esposte ai miti consumistici di quegli anni, prive di prospettive se non quelle di farsi sposare da qualche soldato della vicina postazione militare della Nato o dai giovani più benestanti del paese. Tuttavia questa rincorsa alla propria sistemazione che sfiora il cinismo più disperato e l’abbruttimento di sé, cela il vero tema del libro che è quello del fallimento dell’eredità. E’ il destino afflitto e sconfitto delle madri e dei padri a non trasmettere nulla alle loro figlie. Le sovrane lasciano qui il posto al loro rovescio: alla apatia e alla distruzione di sé. Schiacciate dall’arroganza e dall’ignoranza machista queste madri sembrano plasmarsi sul fantasma che le umilia. Lerro entra qui con grande sensibilità nelle pieghe del rapporto devastante tra madre e figlia. E’ la rassegnazione delle madri a non permettere la trasmissione del sentimento della vita e del desiderio. Tutto appare come un grande e spettrale aborto: la vita appassita trasmette morte senza vita. Com’è possibile per una figlia non replicare l’infelicità materna? Non lasciarsi contagiare dall’apatia e dalla tendenza alla flagellazione? Non credere che la sola cosa che conti in una donna sia “farsi sposare”? Nella dedica, come un gesto liberatorio, si legge: “a mia madre che non mi ha impedito di partire”. Essa ci rivela il dono più grande della genitorialità: sapere perdere i propri figli, saper stare dalla parte dei loro sogni.
 


ROMPICAPO TRA FREUD E TROCKIJ

di Vittorio Giacopini, Il Sole 24 Ore, 17 novembre 2013  
 
Il primo indizio è un tomo indigesto, un vecchio libro.  Che diamine ci faceva nella biblioteca di Freud, fuggito a Londra, un manuale di Derecho penal mexicano: parte general? Il suo «unico libro messicano», un bel mattone (peraltro mai consultato, ancora intonso). Un edipo stalinista di Rubén Gallo parte come un’inchiesta d’archivio, da pignoli, per trasformarsi in intrigo internazionale, noir mozzafiato. Gallo, probabilmente, sa già cosa va cercando, tira a imbrogliare. La curiosità bibliofila maschera un’attenzione – storiografica e politica – più seria.
 
È un puzzle dalle tessere mancanti, un rompicapo. Tanto vale procedere con ordine. Derecho intanto è opera di un giudice, Raul Carranca y Truillo, il primo messicano a usare la psicoanalisi nei processi. Ma Carranca è anche il procuratore del processo al sedicente Jacques Mornard, l’assassino di Trockij, e, per quanto approssimativa, l’analisi freudiana del killer e reo confesso rivela un movente per l’omicidio, da manuale. Secondo il referto dei periti (un altro tomo: oltre 1300 pagine di chiacchiere) Mornard ha agito spinto da un complesso di «Edipo manifesto». Col “vecchio” – così chiamavano Trockij i compagni – voleva eliminare l’autorità paterna, e annessi e connessi.
 
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DIO E FREUD A DUELLO. NEL SEGNO DEL DUBBIO. Al teatro Franco Parenti di Milano Alessandro Haber, nei panni di un Freud prossimo alla morte, e Alessio Boni, in quelli di Dio, si fronteggiano sul senso del vivere e del morire ne Il Visitatore di Schmitt
 
di Antonio Sanfrancesco, famigliacristiana.it, 18 novembre 2013
 
È la sera del 22 aprile 1938, da circa un mese l’Austria è stata annessa al Terzo Reich e per le strade di Vienna infuriano i rastrellamenti nazisti. Sigmund Freud, il padre della psicanalisi, è nella sua casa, tormentato da un cancro alla gola che presto se lo porterà via. Mentre dalla sua finestra guarda lo spettacolo triste della violenza ecco che si materializza uno sconosciuto: ha l’aspetto di un pazzo e s’accomoda sulla sedia riservata ai suoi pazienti. Fa domande, allude, dimostra di sapere molte cose del passato di Freud. È nientemeno che Dio. Tra i due inizia un corpo a corpo drammatico, un duello rusticano su vita e morte, senso del dolore, tempo ed eterno.
 
I medici, incalza Freud, interpretato magistralmente da Alessandro Haber, devono sostituirsi ai santi perché tocca all’uomo «prendersi cura dell’uomo». Ma così non è: i rastrellamenti sotto la sua porta provano che Dio ha fallito, forse non esiste. O, se c’è, è impotente. «Cosa sarebbe Dio se esistesse?», si chiede Freud: «Un bugiardo. Uno che prende un impegno e poi ti scarica». L’imputato Dio (Alessio Boni) lascia parlare il suo accusatore. Poi, ad un certo punto, si inginocchia, quasi s’avvinghia teneramente alla gamba di quel medico malato e disilluso e confessa il proprio limite, la propria “colpa”: ha creato l'uomo libero, non può fermarlo. Né può opporsi all'arroganza di quella sua creatura: «C'è stato un tempo in cui l'uomo si accontentava di sfidare Dio, oggi prende il suo posto».
 
La scena, non a caso, è tagliata in due: da un lato, la luce del salotto, dall’altra, la penombra da dove fa il suo ingresso l’oscuro visitatore. Forse quel dialogo serrato è tutto un sogno di Freud, uno scherzo dell’inconscio. O forse quel pazzo è davvero Dio e si è preso la briga di far visita al vecchio Freud. «Per venire a te», dice, «dovevo per forza prendere la forma di un uomo». Ma alla fine c’è un momento in cui Freud e il misterioso ospite si trovano d’accordo: la musica di Mozart. Ascoltandola, Dio si lascia andare: «Forse ho fatto bene a fidarmi dell’uomo». Il Freud immaginato dal francese Èric-Emmanuel Schmitt ne Il Visitatore e portato in scena da Valerio Binasco al Teatro Franco Parenti di Milano fa venire in mente la spiritualità inquieta dello scrittore e filosofo spagnolo Miguel de Unamuno. «Mi religion», diceva, «es luchar con Dio», «lottare con Dio». E aggiungeva: «Coloro che ritengono di credere in Dio, ma senza la passione nei loro cuori, l’angustia nel pensiero, senza incertezze, senza dubbi, senza un elemento di disperazione anche nella loro consolazione, credono solo nell'Idea di Dio, non in Dio stesso». La battaglia tra Dio e Freud si chiude senza vincitori né vinti. E con un colpo di pistola che l'anziano medico spara all’oscuro visitatore in fuga dalla finestra. «L’ho mancato», esclama beffardo e stremato. Credere e dubitare in fondo viaggiano insieme, solo l'indifferenza, come scrive Schmitt, è atea.
 

 

A SCUOLA PER RILEGGERE LA REALTÀ. GENITORI E FIGLI A CONFRONTO SUI SENTIMENTI. Sei giornalisti del Corriere, con sei racconti, s’immergono nel mondo degli adolescenti. I temi? «Storie dal quotidiano»
 
di Elisabetta Andreis, milano.corriere.it, 18 novembre 2013
 
Aprire la scuola a genitori e figli per parlare di libri che in qualche modo riguardano entrambi. Coinvolgere gli autori, sei giornalisti che per una volta hanno smesso i panni duri della cronaca e calzato quelli più morbidi della narrazione svelando, nello scrivere, anche parti di sé. E spalancare le porte di questi incontri alla città. Eccola, la scommessa della secondaria di primo grado Beltrami: lunedì il primo appuntamento in Auditorium, alle 18, ma gli alunni si prepareranno fin dal mattino insieme ai docenti e a un papà, Moreno Gentili, a sua volta scrittore e fautore dell’evento. «Leggeremo alcuni brani e li discuteremo prima tra noi in classe, poi con autori e pubblico, in un esperimento didattico del tutto nuovo tra informazione e narrazione», spiega Gentili. «Abbiamo scelto questi sei libri (dalla collana Storie dal Quotidiano di Bompiani, ndr) perché si tratta di storie del contemporaneo con ragazzini protagonisti e taglio sociale che educa alla cittadinanza attiva e consapevole», fa eco la preside della scuola Alessandra Condito.
 
GUARDARSI DENTRO – Obiettivo è invogliare a leggere e, in parallelo a scrivere, arte in cui i giovani faticano a cimentarsi: «Iperconnessi e dipendenti dallo sfogo minuto per minuto, aggiornano sì i loro diari ma in tempo reale, per istantanee staccate le une dalle altre e senza un filo elaborato che le unisce: il loro è istinto di comunicazione, non certo racconto di memoria», osserva Gentili. Mettere subito in piazza, o in rete, le emozioni, vuol dire «scaricarle e renderle pubbliche prima di essercene appropriati noi», aggiunge Simonetta Bonfiglio Senise, psicoanalista esperta di età evolutiva. Paura di fermarsi e di prendere contatto con la parte più profonda di sé? Forse sì ed è importante accorgersene: «Senza i tempi di riflessione e pausa che la narrazione “vera” impone i giovani rischiano di perdere il senso della loro storia e quindi di non saperla condividere». In gioco ci sono, in un certo senso, i ricordi dei nostri figli e il rapporto tra noi e loro. «Si parla tanto di disagio giovanile (dunque genitoriale), com’è che sottovalutiamo lo strumento della narrazione come scoperta di sé e apertura anche in famiglia?», si chiede Bonfiglio.
 
IN CONTATTO CON LA CREATIVITÀ – Se i ragazzi imparano a guardarsi dentro, a raccontare il loro immaginario, li capiremo forse di più. E chissà che i loro silenzi a casa, in adolescenza, non possano farsi più leggeri. «È cruciale educarli ad entrare in contatto col loro habitat creativo, relazionarsi con esso: è un canale forte di espressione, un modo per consolidare i confini delle loro identità in crescita e della futura cultura civile di tutti», conviene Gentili. In questa luce i libri, questi sei libri, si presentano come possibile, prezioso fiammifero per accendere il dialogo tra noi e loro. Una scintilla che parte dalla scuola e può propagarsi nelle case e in città.
 
SEI STRADE PER IL FUTURO  – Si parla di famiglie allargate («Gli altri e io»), di valore e solidarietà («Piccole coraggiose donne»), di primi amori («Cosimo e Martina»), di immigrazione («I pesci devono nuotare») e di una crescita votata alla ricerca («Storia di Rita»). E lunedì, al primo incontro, In viaggio con lo zio di Alessandro Cannavò – che è poi lo «zio» in questione e al nipote Mattia, 12 anni, siciliano residente in un paesino alle pendici dell’Etna («co-autore», come tributa lui) in una serie di giri a due per l’Italia, tra una risata e una visita seria, insegna l’amore per la scoperta, la natura e i beni culturali del nostro Paese.
 
PUNTI DI RIFERIMENTO – E così, nel progetto, di volta in volta, a seconda del libro, i ragazzi potranno immedesimarsi o riconoscere il mondo che li circonda. «Sarà emozionante la presenza a scuola degli autori in carne ed ossa, è un’occasione formativa che gli allievi condivideranno con i loro adulti di riferimento», dice la Condito. «Nei pre-adolescenti, assetati di modelli cresciuti e non genitoriali con cui confrontarsi, avere davanti giornalisti – scrittori che escono dai loro schemi lavorativi soliti per mettersi in gioco attraverso le storie creerà empatia e relazione», si accoda la Bonfiglio. «Il desiderio di leggere e scrivere partirà da lì», scommette ancora Gentili. Libri come testimone che passa dagli adulti ai ragazzini e dai ragazzini di nuovo agli adulti, storie che servono ai genitori per capire di più i figli e ai figli per capire di più se stessi. E se alla fine scoprissimo, insieme e per caso, che quasi quasi somigliano al protagonista di un libro?
 
 

 

LA GERONTOCRAZIA DEI SESSANTOTTINI

di Riccardo Puglisi, corriere.it, 19 novembre 2013
 
 
Vi sono tanti modi diversi per analizzare i rapporti tra generazioni: qualche decennio fa si sarebbe detto che la psicoanalisi è la maniera giusta per farlo. Qui voglio invece affrontare l’argomento secondo un punto di vista a metà tra l’economia e la politica. In generale, ogni conflitto sociale diventa più duro quando le condizioni economiche sono difficili, e ciò vale anche per i conflitti tra generazioni: la ragione sta nel fatto che è necessario dividersi un ammontare di risorse più scarse. Che cosa dicono i dati italiani attuali sulla spartizione delle risorse tra generazioni? L’indagine di Bankitalia sui bilanci delle famiglie italiane mostra come il reddito medio di coloro che nel 2010 avevano tra i 55 e i 64 anni è cresciuto sensibilmente di più rispetto a quello delle altre generazioni, e in particolare rispetto a quella dei loro figli, a cui appartengo anche io. Utilizzando un po’ di matematica ad alto livello, si arriva rapidamente a concludere che questa generazione economicamente fortunata aveva nel 1968 un’età compresa tra i 13 e i 22 anni, cioè un’età tale da poter partecipare o assistere molto da vicino alle proteste e alle manifestazioni universitarie e studentesche di quegli anni. Intendiamoci: sono ben lungi dal portare avanti la tesi che questa generazione dei padri e delle madri abbia partecipato in modo plebiscitario ai movimenti politici di quegli anni. Tuttavia non trovo azzardato ipotizzare che l’intera generazione dei giovani di allora si sia fatta largamente influenzare da un movimento di opinione che—partendo dalla giusta lotta contro i favoritismi classisti — ha portato in alto il vessillo dei diritti a tutti i costi e dell’uguaglianza dei punti di arrivo. Con buona pace della meritocrazia.

 
Andando sullo specifico è interessante vedere come molti degli esponenti di punta dei principali movimenti extraparlamentari dell’epoca — da Lotta Continua ai Marxisti-Leninisti, a Potere Operaio — abbiano velocemente acquistato posizioni di potere in settori diversi, con una particolare predilezione per la politica, i media, la cultura e l’università. Inizialmente l’acquisizione del potere sembrava necessaria per «fare la rivoluzione»: una rivoluzione non pervenuta. Tutt’altro: in una società in cui la concorrenza sembra una brutta bestia che crea disordine e rovescia posizioni in maniera indebita, è il fatto stesso di detenere il potere in settori protetti che ha permesso invece di tramutare questo potere in un vantaggio economico permanente, cioè in un reddito più elevato. Si tratta beninteso di una mia impressione personale, che andrebbe rafforzata da analisi più rigorose, ma la generazione dei sessantottini che ha ottenuto presto il potere e poi il denaro — e li detiene tuttora — appare a miei occhi come una gerontocrazia sessantottina, molto riluttante a lasciare il posto alla generazione successiva, e un po’ ridicola nel predicare meritocrazia. Non voglio con questo assolvere la mia generazione, quanto piuttosto focalizzarmi sulle conseguenze quasi psicoanalitiche di una generazione dei padri e delle madri che sembrava utilizzare la politica per fare la rivoluzione, e si è ritrovata seduta sulla poltrona: questo rapporto ipocrita con la politica ha reso la generazione dei figli molto più scettica a proposito dell’impegno politico stesso. Eppure la politica, che oggigiorno continua a dividersi in maniera un po’ artificiosa tra destra e sinistra, dovrebbe essere il mezzo principale per facilitare il ricambio tra generazioni, possibilmente in maniera meritocratica. Resta però un paradosso: fini meritocratici giustificano mezzi sessantottini?
 

 

L'INCONSCIO CREATORE DI CHRISTIAN GAILLARD E LELLA RAVASI BELLOCCHIO
 
di Paolo Barbieri, ansa.it, 20 novembre 2013
 
Anche se il 31 ottobre scorso giornali e televisioni hanno celebrato il ventennale della morte e in alcune città, tra cui Roma, sono state organizzate manifestazioni in suo onore, sembra sempre più difficile mantenere vivo il ricordo di Federico Fellini, uno dei più grandi autori di cinema che tutto il mondo ci invidia. Eppure  attorno al regista di La dolce vita, 8 e mezzo, La strada, La città delle donne, Roma, Casanova e Amarcord – solo per citarne alcuni – in questi anni si è sviluppato un interesse anche nel mondo accademico. Due psicanalisti, il francese Christian Gaillard e l'italiana Lella Ravasi Bellocchio, per esempio, hanno portato a termine uno studio attorno al Libro dei sogni di Federico Fellini, pubblicato nel 2008 grazie alla disponibilità della Fondazione intitolata al regista.
 
Fellini si sottopose ad analisi prima con un analista freudiano poi, per quattro anni, con Ernst Bernhard, fondatore del movimento junghiano in Italia. Di quest'ultima esperienza resta, appunto, il suo libro dei sogni ricco di disegni, dipinti e scritti che i due autori hanno studiato. Un metodo, quello utilizzato da Fellini per ricordare i sogni, adottato sicuramente in seguito alla frequentazione di Bernhard e alle letture di Jung. «Ce lo fa vedere e ce lo dice – spiega Gaillard – in un disegno del 1966. (…) Si tratta della sua tentazione di abbandonare il progetto di film in corso fino al momento i cui, in questo sogno, una mano gli tende dei fogli ancora bianchi e intanto il suo disegno ci mostra, dietro alla mano, sul caminetto, un ritratto di Carl Gustav Jung. A Fellini, in realtà, piaceva soffermarsi su certi scritti di Jung. Ed è in un testo di Jung che si può leggere la frase che il nostro regista e disegnatore poteva sicuramente fare sua: "Le mani spesso sanno decifrare un enigma con cui l'intelletto si dibatte invano"».
 
Due, secondo lo studioso francese, i temi preponderanti nei sogni descritti da Fellini: la presenza delle donne e la rappresentazione di se stesso. La moglie, Giulietta, è la donna più rappresentata, quasi sempre come Gelsomina, la protagonista del film La Strada, una figura giovanile e fragile. Le altre donne, invece, sono robuste «spesso al di là della proporzione umana, tutte con poppe e natiche generose, ma quasi invadenti, comunque straripanti» che fanno da contrappeso a Giulietta/Gelsomina che  entra in tensione e in conflitto con altre forme del femminile. «Come se Fellini – spiega Gaillard – si fosse trovato per tutto un periodo diviso fra due figure, due tipi di figure femminili, che non si vede come potrebbero essere compatibili le une con le altre». E il modo di rappresentare se stesso è, secondo lo psicanalista abbastanza convenzionale: «Fellini si rappresenta, infatti, per lo più come un uomo giovane e piuttosto filiforme mentre quando incomincia a scrivere e disegnare ha più di 40 anni e non è più particolarmente filiforme». Secondo lo psicanalista si vede che il regista si è dato i mezzi per frequentare «tutta una vita simbolica, anche fortemente contrastata, che con ogni evidenza lo abitava e lo ossessionava. Ma coltivando anche, e non senza compiacimento, un immaginario a volte un po' facile, e quasi senza contrappeso, che gli piaceva chiaramente assumere come la propria ordinaria consuetudine».
 
Lella Ravasi Bellocchio si sofferma sui molti sogni che hanno le donne come protagoniste, la moglie Giulietta e a tante altre, molte delle quali protagoniste dei suoi film come, per esempio, Anita Ekberg. C'è nel 1980 il "sogno del foglietto": Fellini è seduto davanti ad una prosperosissima donna e cerca nella sua vagina un foglietto con i dati di un amico: «L'insondabile – spiega la psicanalista – sta nel rapporto tra il volto archetipico della dea e il luogo della verità istintuale erotica, la sua vagina spalancata, perché possa ritrovare lì la sua origine, i dati che gli dicano "le generalità", come è stato "generato"».
 
 

 

HABER È IL DOTTOR FREUD. IL 26 E 27 ALLE ARTI DI GALLARATE

di Redazione, prealpina.it, 21 novembre 2013
 
Alessandro Haber ha aperto la stagione del teatro Sociale di Luino con Il visitatore di Eric-Emmanuel Schmitt, che recita con Alessio Boni per la regia di Valerio Binasco. Una pièce di grande successo, che mette in scena Freud alle prese con un «visitatore» che si rivela essere Dio. È il 1938 e lo psicanalista è preoccupato per la figlia, forse deportata dai nazisti, ma pian piano prende corpo una discussione sui massimi sistemi che si interroga sulla follia umana.
 
Haber, il teatro è il suo rifugio?
 
«Mai ho mancato una stagione, il teatro è la mia vita, è il luogo della creatività, dell’amore, della fantasia. L’attore vero si vede lì. Io non recito, io vivo il personaggio e quella è la differenza fra un grande attore e un buon attore».
 
Nel Visitatore lei è Freud, la psicanalisi l’ha mai fatta?
 
«Non mi sono mai fatto psicanalizzare da nessuno, mai! Avrò magari anche paura, ma le mie nevrosi me le tengo per mettermi in gioco sulla scena».
 
Freud qui è anche un padre preoccupato per sua figlia. Lei com’è con la sua Celeste, 9 anni?
 
«Sono un padre anomalo, la paternità è arrivata a 55 anni e mi ha cambiato la vita, non mi sono ancora abituato e non ci sono quasi mai, ma quando ci sono è meraviglioso. Senza sembrerei un personaggio squallido che la sera non ha nessuno a cui telefonare, un attore arido, non generoso, ai margini, senza luce. Celeste mi dà il senso della vita».
 
Avrebbe preferito la parte di Dio?
 
«Nessuno potrebbe pensare a un dio Haber, sono tutti abituati a vedermi nella parte dei cattivi. Già Freud mi strema, è un personaggio imploso con cui faccio fatica, quando finisco sono sempre sudato, non puoi mollare un attimo, è un triplo salto mortale. E poi Alessio (Boni, ndr) è unico: ci manca Gigio (Alberti, erano insieme in Art di Jasmine Reza, ndr), ma non abbiamo trovato un testo per tutti e tre. Certo non lo scrivo io, non sono capace».
 
Il 14 novembre è uscito «L’ultima ruota del carro», di Giovanni Veronesi, in cui lei ha il ruolo di un pittore: mai provato la sensazione del titolo del film?
 
«Non mi sento l’ultimo, ma bisogna stare un po’ indietro per conquistare posizioni con intelligenza e fatica. Non mi sento mai arrivato, vivo nell’attesa dell’applauso finale, ma quando lo sento quella cosa muore e devo ricominciare subito a cercare altro».
 
Il visitatore – Il 26 e 27 novembre alle Arti di Gallarate, 0331.791382.
 
 
 
GLI ADOLESCENTI E IL SESSO VISSUTO SOLO COME COLLAUDO DI SÉ. Il bisogno di sperimentare il potere della nuova corporeità
di Gustavo Pietropolli Charmet, Il Corriere della Sera, 23 novembre 2013
 
A nessun’altra età si subisce un cambiamento di tale portata come durante la pubertà e nel periodo successivo. L’adolescente per mesi e anni è costretto a pensare il corpo, a visitarlo, imparare a usarlo e imporgli un significato etico, relazionale e sociale. A conclusione del viaggio nel corpo, l’adolescente entra in possesso di un’immagine mentale della propria corporeità sulla quale appoggiare i valori dell’identità di genere e la definizione del proprio orientamento sessuale. I giovanissimi maschi debbono imparare a conoscere e usare un corpo abbastanza facile da esplorare. Perciò il loro interesse si dedica a sviluppare la forza delle masse muscolari, la resistenza, la mira, e al confronto con i coetanei. Le «prove di collaudo» del corpo vengono affrontate con qualche preoccupazione, ma generalmente vengono superate con discreta soddisfazione. Per le adolescenti femmine il viaggio esplorativo nel nuovo corpo è molto più complicato poiché si tratta di esplorare simbolicamente le cavità generative e sessuali e appropriarsi del mistero della maternità e del piacere. È una grande impresa riuscire a capire tutto e a integrare femminilità nascente, futura maternità e realizzazione sociale.
 
La complessità dell’impresa può comportare insuccessi ricchi di pericolose conseguenze. Più frequentemente, le ragazze possono rischiare di sentirsi prive di fascino e vivere l’incubo di essere indesiderabili, destinate a una «squallida invisibilità». Il nuovo corpo è uno strumento efficace per competere nel mercato degli sguardi e dei desideri? Ciò fa sì che frequentemente il vero debutto non consista tanto nel rapporto sessuale, ma nella verifica di quanto si riesca a essere desiderata. È il numero dei «mi piace» su Facebook che sfata la profezia dell’invisibilità e dell’esclusione. Desiderata da tanti, da tutti, al solo apparire nel campo visivo dei coetanei; è questa estatica esperienza di eccitamento collettivo e di addensamento degli sguardi sul corpo ciò che rischia di sancire la nascita della propria femminilità. È il potere del corpo che accresce l’autostima nella società del narcisismo, ma per verificarlo è necessario capire quale sia la migliore presentazione. Nella realtà virtuale viene «postata» e proposta l’immagine più efficace, ma è facile imbrogliare ed esporre un avatar solo somigliante al corpo che lo ha generato. Il numero di faccine sorridenti decide.
 
Nella realtà concreta la verifica del proprio potere seduttivo comporta invece qualche rischio e una certa fatica. I rischi derivano dall’evenienza di spingersi ben oltre la barriera del pudore e di superare il limite oltre il quale la danza dei sette veli può essere interpretata non come una esibizione artistica ma come un preliminare erotico. La fatica consiste nella rincorsa verso la conquista di una visibilità da «velina», inseguendo nel labirinto della società dell’immagine un riconoscimento del proprio potere che stenta ad avverarsi e lascia numerose vittime nel campo dei casting e dei costosi portfoli.
 
Gli adulti, genitori ed educatori, dovrebbero provvedere alla elaborazione di una rinnovata educazione sentimentale che tenga presenti i rischi attuali e lasci perdere i miti e le leggende dell’amore romantico, per dedicarsi con intelligenza e competenza reale a garantire alle adolescenti attuali un sostegno nella lunga fatica e nelle peripezie rischiose dedicate a verificare il potere della nuova corporeità. Non sarà facile mitigare agli occhi delle adolescenti il potere dei miti sociali condivisi che glorificano il potere della bellezza e lasciare povere e trasparenti le aspiranti veline, condannate a danzare sul cubo della discoteca, col rischio di vanificare le lotte delle loro mamme e zie per fondare una nuova femminilità che attinga il potere dalle capacità della mente di sedurre e farsi desiderare come compagne nell’amore e nella vita. Le nuove adolescenti lo sanno che esiste una bellezza autentica, ma a volte hanno bisogno di collaudare, in nome delle pari opportunità, il potere sui coetanei regalato dalla nuova corporeità.

 

SE L’IDENTITÀ È UN’OSSESSIONE
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 21 novembre 2013
 

La grande sovversione psicoanalitica del soggetto consiste nel mostrare che l’Io, come affermava Freud, non è padrone in casa propria ma è una unità strutturalmente scissa. Il soggetto non coincide – come voleva tutta una tradizione che discendeva da Cartesio – con il cogito, ma è abitato da più istanze.
 
Esso appare come un parlamento nel quale vi sono partiti rappresentanti di diversi interessi: morali, pulsionali, cognitivi, critici, erotici, vitali, aggressivi. La salute mentale non consiste nella presenza della monarchia assoluta dell’Ego ma nel comporre una sintesi efficace delle istanze promosse nel proprio parlamento interno. In questo senso per Freud la psicoanalisi era un’autentica esperienza di democrazia. La scissione tra i diversi partiti che compongono il parlamento interno deve essere ricomposta dal soggetto in un equilibrio che non è mai assicurato una volta per tutte. Anzi, si potrebbe aggiungere, che la malattia mentale è legata all’impossibilità di trovare un punto di accordo tra le diverse istanze che compongono la personalità psichica perché una di queste si vuole imporre sulle altre costringendole a rimuovere la loro voce.
 
Ne deriva che la salute mentale di un individuo – ma si potrebbe benissimo allargare il concetto al funzionamento dei gruppi e delle istituzioni – non consiste nel sopprimere le diverse istanze di cui è costituito il soggetto ma nel saperle articolare tra loro in modo sufficientemente flessibile. Quando invece questa flessibilità – “plasticità” per Freud – viene meno si produce malattia, irrigidimento paranoico, intossicazione, patologia identitaria. Al posto di una vita psichica positivamente democratica si produce un rigetto violento delle “istanze di minoranza” che vengono espulse, bandite, allontanate dal soggetto. Si tratta di una espulsione violenta che anziché nutrire il dibattito interno del soggetto (di un gruppo o di una istituzione), finisce per generare una sorta di identità separata, alienata nella quale si cristallizzano, in una modalità scissionista, quelle parti interne del soggetto che questi non è più disposto ad ascoltare e a riconoscere come parti proprie.
 
La paranoia costituisce da questo punto di vista il regime più puro della scissione. In essa l’annullamento della scissione interna genera la scissione come espulsione, separazione di parti psichiche da sé e una loro proiezione verso l’esterno. Per questo la clinica psicoanalitica ci insegna che il nemico ha assai frequentemente il volto del simile e che l’odio più feroce e rabbioso di divora i fratelli, poiché l’oggetto massimamente detestato e rifiutato esprime la parte di noi stessi alla quale abbiamo tolto il diritto di parola. Nella vita dei gruppi tutto questo è massimamente evidente: quante volte la lotta contro un nemico esterno offre la ragione della propria stessa identità e garantisce il compattamento dei legami interni? È quello che accade in ogni forma di razzismo, compreso quello omofobico. La nostra identità deve essere preservata dalla contaminazione con l’altro. Ma questo altro in realtà non abita in un continente straniero ma in noi stessi.
 
Ne consegue una legge generale: più si è flessibili verso se stessi e più tolleranti si è verso l’altro e più la democrazia interna ed esterna si arricchisce di contributi. Più, al contrario, si espellono i traditori, gli indegni, i reietti, gli impuri, gli oppositori interni, più, insomma, si rifiutano le voci che animano il dibattito interno e più, inevitabilmente, si utilizzerà la scissione come manovra difensiva incoraggiando meccanismi fatali di irrigidimento paranoico dell’identità.
 
 
 

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

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