IERI A “CHE TEMPO CHE FA”. CHI È SLAVOJ ŽIŽEK, FILOSOFO E PSICANALISTA SLOVENO
DOV’È LA VITTORIA – LUIGI ZOJA AVVISA GRILLO: “IN POLITICA CI SI DEVE SPORCARE LE MANI”. Nuova intervista di Paolo Barbieri. Lo psicoanalista junghiano parla dei mali italiani: come ci vedono all’estero, Berlusconi e la sua convinzione di essere dio, il bipolarismo zoppicante, il movimento dei 5 Stelle
Psicoanalista junghiano, Luigi Zoja ha una particolare attenzione per le vicende sociali, politiche ed economiche anche per i suoi studi. Nel suo ultimo libro Utopie Minimaliste, ha scritto: “Esiste un altro mondo possibile. Non nella fantascienza della propaganda, ma nella realtà. Non nella criminale esaltazione del farsi massa, ma nei compromessi di una anti-eroica realtà economica”.
L’impressione è che si sia radicato sempre più all’estero un giudizio negativo sul nostro paese. Lei pensa che l’Italia sia un paese poco serio?
Sono stato a Francoforte alla Buchmesse, la Fiera Internazionale del Libro, ho letto diversi articoli in inglese e in tedesco sulla crisi dell’Italia: sottolineavano il fatto che una ventina d’anni fa il Padiglione Italiano era il centro dell’interesse, sembrava che, soprattutto nella narrativa, vi fosse una nuova ondata molto interessante, adesso invece si registra un disarmo e una depressione. Non si capisce se sia nell’editoria o negli autori e se uno influenzi l’altro. Si direbbe che c’è un circolo vizioso che porta ad una rassegnazione. Non credo però che l’Italia sia necessariamente un paese poco serio. Se dobbiamo usare un’espressione clinica direi che è un paese depresso. In economia, per esempio, la famosa piccola-media industria non ha equivalenti in Europa e nel mondo. Ci sono i tedeschi con il Mittelstand, l’industria media, ma da noi c’è un’industria di nicchia con prodotti di qualità insuperabile, di grande creatività, con una capacità lavorativa che non ha uguali, basti pensare al miracolo del Nord-Est. Ma tutta l’Italia è così perché anche il sud ha dei gioielli anche se lì, a causa del tessuto sociale, tutto è più difficile. C’è, a mio giudizio, una frattura tra classe politica e classe dirigente in generale. Il nostro è un paese completamente sproporzionato: ha una quantità di persone di cultura, di intellettuali e di ceto produttivo di prim’ordine che non sono rappresentati.
La politica, dunque, è la causa dei molti mali italiani…
Beh, se hai un capo del governo che fa le corna durante gli incontri istituzionali europei … Dicono: cosa è questa mania dello spread? È semplicemente la percezione del rischio che si ha nell’acquistare i titoli di stato. Noi siamo nelle mani degli sceicchi e dei ricchi cinesi che possono acquistare titoli di tutti gli stati e che nel dubbio possono dire: non compero i titoli di un paese che ha un pagliaccio al governo.
Cosa pensa dei giovani italiani?
Esiste una nuova generazione critica che io ho denominato slow-culture ma è una realtà di cui non abbiamo un’immagine, proprio perché è nuova sotto tanti aspetti. Una generazione che si sente diversa non solo dalla massa post-ideologica attuale, ma anche dai movimenti ideologici degli anni ’60 e ’70. Sono tantissimi questi giovani che scrivono a mano anche se usano il computer, che vanno in bicicletta anche se hanno l’automobile. Molti hanno smesso con alcuni lavori da manager e hanno iniziato a lavorare, per esempio, per le Ong. Si vedono poco perché stanno in casa, leggono. Gli altri, più rumorosi, ricordano il movimento. Io sono dubbioso anche rispetto agli indignados perché se sei indignato vuol dire che sei un po’ paranoico: ‘tu non sei degno e io non dialogo con i politici’. Un po’ come il movimento di Grillo. Non si può fare sempre i puri e non dialogare con la politica. Jung ha detto una bella frase e cioè che chi vuole lavorare nel mondo non può farlo senza sporcarsi le mani.
Un suo celebre libro è Paranoia. Se non è la paranoia ci può, da psicanalista, dire di quale sindrome soffriamo?
Paranoia, per stare sul personaggio. Sarebbe però troppo comodo dire che Berlusconi è paranoico. Sicuramente avrà questi opinion maker, centomila avvocati, gente di marketing che gli dice quelle cavolate per cui un po’ ci crede ed è convinto di essere perfetto. Non vanno poi scordati motivi psicologici: lui ha sconfitto il cancro per cui si sente onnipotente. Gli ha fatto bene alla salute ma non dal punto di vista psicologico; già si sentiva onnipotente e adesso ancora di più. Un pochino forse si sente dio, un po’ ci marcia.
Questo per quanto riguarda Berlusconi, ma l’Italia?
Bisogna dire che nel nostro parlamento ci si prendeva a botte anche prima. Abbiamo un parlamento che si è caratterizzato per una mancanza di senso democratico; non possiamo prendercela solo con l’estrema destra perché ricordo che un tempo i democristiani e la sinistra, pur professandosi cattolici gli uni e pacifisti gli altri, ad un certo momento si menavano. Sulla Zeit ho letto un’analisi interessante sul male dell’Italia. La Zeit lo metteva in relazione a questa unità recente e un po’ fragile e metteva in rilievo la mancata integrazione tra nord e sud ma anche le altre mancate integrazioni come quelle di un dialogo tra laici e cattolici e tra destra e sinistra. Non esiste una dialettica moderna ma il solito accontentare tutti a pioggia. In effetti il debito che aumenta, sicuramente è colpa anche di Berlusconi che si è comprato i voti togliendo le tasse sulla casa. Il debito è passato al 130% in gran parte per responsabilità sua però se è passato al 130 dal 100, era già il debito più alto d’Europa perché neppure la Grecia lo aveva così. È vero che abbiamo un sud con un tipo di criminalità vistosissima e grave di cui tutta Europa si preoccupa però c’è in tutta la penisola un atteggiamento cripto-mafioso perché tutti si trovavano d’accordo nelle spartizioni.
La paranoia, quindi, è più dei politici che della gente …
Non penso sia tipicamente italiana. Io l’ho suddivisa in hard, cioè quella di Hitler e Stalin, e soft che può essere quella di Berlusconi o della Lega che se la prende con gli immigrati. La paranoia è il pensiero semplificato al massimo o l’anti-psicologia: una persona che non sa guardarsi dentro e attribuisce agli altri la colpa di tutto ciò che non funziona. Per lui il male è esterno. Penso che noi italiani siamo sempre stati tolleranti, aiutati anche dalla tradizione cattolica in questo migliore di quella protestante. Il problema è che la classe politica, non sapendo governare, ricorre più che in altri paesi a questi meccanismi mentali semplificatori. L’italiano medio, in sé, non mi sembra appartenga a questa categoria.
Lei ha scritto che “Il brutto è immorale”. L’Italia è considerata, giustamente, uno dei paesi più belli del mondo ma per ciò che è stato fatto nel passato. Cosa è accaduto ad un certo punto per cui il brutto e la volgarità sembrano essere ciò che contraddistingue il paese.
Il brutto è immorale nel senso che dove abbiamo una brutta edilizia è perché c’è stata la speculazione. La volgarità? Stavamo parlando di quella di Berlusconi con le corna. Anche quella è una “speculazione” perché lui fa i gesti come le corna per acquistarsi la simpatia della gente. Secondo me c’è una degenerazione di tutto l’Occidente e l’Italia è soltanto uno dei paesi che si è involgarito e instupidito più rapidamente. È un fenomeno generale ma da noi è più rapido perché in altri paesi come, per esempio, la Francia ci sono la scuola, le tradizioni, leggono di più.
Nonostante le inchieste della magistratura, la corruzione sembra un cancro inestirpabile.
C’è la grande corruzione e siamo guardati con sospetto dal resto dell’Europa. Chi gliela toglie questa impressione se abbiamo avuto per due decenni la politica dominata da un signore che non si riesce a condannare? Adesso è stato condannato ma dopo decenni. Ricordo che l’Economist ha fatto numeri apposta sul caso Berlusconi. Ciò vuol dire che siamo impresentabili.
Nel suo ultimo libro Utopie minimaliste, lei parla a lungo del massimalismo che ha caratterizzato il Novecento. Quanto paga, nello specifico, l’Italia alle utopie del secolo scorso?
Penso paghi molto. Ricorda la teoria del ‘bipartitismo imperfetto’? Prima abbiamo avuto una sinistra forte ma anche quando poteva diventare maggioritaria era inaccettabile agli alleati occidentali perché prevalentemente marxista. Poi abbiamo avuto una destra che non è accettata dagli alleati per motivi detti proprio poco fa. Abbiamo un bipartitismo zoppicante.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/12/01/dove-la-vittoria-luigi-zoja-avvisa-grillo-in-politica-ci-si-deve-sporcare-le-mani/796877/
RESTAURATO IL DIVANO DI FREUD
di Enrico Franceschini, franceschini.blogautore.repubblica.it, 3 dicembre 2013
Quando Sigmund Freud lasciò Vienna prima che l’occupassero i nazisti, nel 1938, venne a stabilirsi a Londra, al 20 di Maresfield Garden, nel quartiere di Hampstead, oggi “ghetto” degli intellettuali di sinistra (con soldi). E’ lì che morì, nel settembre del 1939; e in quella casa continuò a vivere la figlia di Freud, Anna, fino al 1982, quando morì anche lei. La proprietà, secondo il volere della donna, fu convertita allora nel Freud Museum, al cui centro svetta, tra altre memorabilia, il celebre divano (dono di un paziente soddisfatto) su cui il padre della psicanalisi faceva distendere i clienti nello studio di Vienna, e che poi riuscì a portare con sé nel trasloco verso Londra. Ce lo immaginiamo, Freud, che fuggendo dal nazismo si porta dietro, fra valigie, libri, cose a lui care, anche il suo famoso divano? Forse era già consapevole che sarebbe diventato un divano proverbiale, vito che oggi basta dire “stenditi sul divano” per evocare il padre della psicanalisi? Fatto sta che, dopo tanti anni, il divano di Freud nella sua casa-museo si era parecchio deteriorato. Così recentemente i responsabili del museo lo hanno fatto restaurare. “E’ probabilmente il più famoso pezzo di arredamento al mondo”, osserva Poppy Singer, uno dei restauratori, interpellata dal settimanale New Yorker. Sedercisi sopra, oggi, sarebbe come dare un morso alla mela di Newton. Ma su quel divano, adesso che è un pezzo da museo, ovviamente non si può sedere più nessuno. E tantomeno sdraiare.
http://franceschini.blogautore.repubblica.it/2013/12/03/restaurato-il-divano-di-freud/
LO SCRITTORE E IL FANTASMA. I DELIRI DI HOFFMANN CHE ISPIRARONO FREUD
«Non vi è niente di più strano e di più folle della vita reale e il poeta in fondo può solo limitarsi a coglierla, come nell’oscuro riflesso di uno specchio opaco». Così il narratore si rivolge al lettore mentre gli sta narrando la terribile vicenda di Nathanael, il protagonista della novella di E. T. A. Hoffmann, L’uomo della sabbia, su cui Freud concentrerà la sua attenzione per elaborare la teoria del “perturbante”: quel sentimento angoscioso che ci prende di fronte a una situazione che percepiamo al medesimo tempo come estranea e familiare.
Sin da bambino, Nathanael ha dovuto convivere con immagini sinistre, con la visione di personaggi luciferini che hanno irrimediabilmente alterato la sua psiche. Anche se l’amata Claire, donna ironica e ragionevole, contraddice quel suo teatro fantasmatico e affaccia un’ipotesi per certi versi ancora più inquietante: quelle apparizioni atroci che lo turbano non sono esterne, ma albergano nella sua anima. Ed è contro quel diabolico nemico interiore che noi uomini dobbiamo lottare strenuamente con la forza della ragione, se non vogliamo inoltrarci in un cammino rovinoso.
L’uomo della sabbia apre la celebre raccolta dei Notturni (1816-1817), facendo da coda ideale al non meno famoso romanzo Gli elisir del diavolo, scritto negli anni immediatamente precedenti (1815-1816): volumi, entrambi, che escono ora in una splendida edizione della casa editrice L’Orma per le sapienti cure di Matteo Galli e Luca Crescenzi.
È l’ennesimo miracolo della piccola editoria italiana di qualità, che a fronte di una drammatica crisi economica e dell’ulteriore calo dei lettori, continua a perseguire ambiziosissimi progetti: in questo caso la pubblicazione – sotto la direzione dello stesso Matteo Galli – dell’opera omnia di Hoffmann, autore tanto geniale quanto inafferrabile.
Nato a Königsberg nel 1776 e morto di tabe dorsale nel 1822, il Nostro vive la sua breve esistenza a rotta di collo: magistrato in svariate città tedesche e polacche nel pieno dell’epoca napoleonica, compositore, capocomico, disegnatore, direttore di teatro e d’orchestra, grande consumatore di alcol e facile agli innamoramenti, appassionato studioso della neonata psichiatria, critico teatrale, Hoffmann esordisce in letteratura relativamente tardi, a trentatré anni. Ma da lì in avanti è un fiume in piena. E il tumulto della scrittura sembra riflettere il tumulto della vita: anche sulla pagina scritta, infatti, le diverse esperienze, conoscenze e influenze convivono simultaneamente.
Di primo acchito si dovrebbe parlare di lui come di un romantico a tutto tondo, ma si farebbe torto a quel persistente razionalismo scettico presente nel suo pensiero (come dimostra la postura di Claire). Il notturno, l’inesplicabile e il fantastico rappresentano per certo il suo mood preponderante, ma la dimensione onirica e spettrale – come indicano le parole del narratore de L’uomo della sabbia– può trovare linfa vitale anche nella realtà più ordinaria.
Se poi dalle novelle si passa ai romanzi, la questione si complica ulteriormente: difficile, se non impossibile, rintracciare un’unica matrice. Perché se è vero che Gli elisir del diavolo prende le mosse dalla tradizione del romanzo gotico, dalla tentazione in cui cade il monaco Medardus che beve, e non dovrebbe, l’inebriante elisir conservato tra le preziose reliquie di Sant’Antonio a lui affidate, da lì in avanti succede di tutto: tra “sante allucinazioni”, amori febbrili e loschi omicidi.
Così, le iniziali pagine devozionali lasciano il campo a espliciti rimandi al romanzo libertino, con il diavolo intento a confondere tra loro perdizioni erotiche e ascensioni mistiche, mentre acuminate riflessioni sulla dissociazione psichica si intrecciano con altrettanto accurate disamine sull’arte; e continui rinvii al romanzo d’avventura preludono al finale, che ritorna «sull’aspirazione alle cose sante e ultraterrene». Senza dimenticare mai il basso continuo su cui giustamente insiste Luca Crescenzi: quel timbro ironico e carnascialesco che ci rammenta come tutto, al fondo, si riduca a una folle recita. Del resto, che cosa fa il cappuccino Medardus, se non cambiare ininterrottamente maschera e dunque identità? All’inizio era un monaco e poi lo ritroviamo nei panni di un conte, di un uomo di mondo «dedito unicamente alle scienze e alle arti», di un oscuro nobile polacco. Come gli rammenta Belcampo – l’esuberante parrucchiere che lo invita ad abbandonarsi festosamente alla follia, «vera signora degli intelletti su questa Terra» – il contrassegno della modernità è l’eclettismo, la simultaneità delle forme, l’ininterrotta metamorfosi. Con tutti i rischi che ne conseguono, perché il diavolo ha campo libero una volta che si è smarrito il baricentro esistenziale: «il mio io era diviso in cento parti. Ciascuna aveva, nel suo affaccendarsi, una propria coscienza della vita, e la testa inviava invano ordini alle membra che, come vassalli infedeli, non intendevano riunirsi sotto il suo comando».
A tratti il lettore può anche rimanere frastornato di fronte ai mille fili di un racconto che – nella geometrica perfezione del congegno narrativo – rovescia di continuo punti di vista, tempi e prospettive. Tanto più visto che, accanto alle mille, successive metamorfosi di Medardus, ci sono da mettere in conto anche quelle dei suoi sosia, alter ego, Doppelgänger.
Attraverso i quali si manifestano il Nemico, il diavolo, ilrevenant,che accompagnano l’uomo nel suo sfiancante viaggio sulle montagne russe: tra realtà e allucinazione, terra e cielo, peccato e virtù, spirito e carne, Bene e Male.
Così, giunti alla fine, non si fa fatica a capire perché, davanti a questo picaro dell’anima, l’imperturbabile Goethe storcesse il naso. Mentre, per contro, in Medardus e più in generale nell’opera notturna di Hoffmann, emergono in piena evidenza i tanti motivi di fascinazione da parte di Baudelaire, Gogol’, Dostoevskij. Frugando con straordinario acume nei meandri della psiche, l’autore degli Elisir del diavolo prefigura addirittura le inquietudini di quell’età dell’ansia che culmina nel Novecento. E leggendo le memorie di Medardus, che davanti al proprio io «divenuto un crudele giocattolo di un caso capriccioso, e confusosi con l’immagine di altri, nuotava senza requie nel mare degli avvenimenti», viene alla mente Musil quando parla dell’io come di un “delirio dei molti”. O l’eteronimo Pessoa, abitato – come noto – da “una sola moltitudine”.
http://rstampa.pubblica.istruzione.it/utility/imgrs.asp?numart=2AUJ9S&numpag=1&tipcod=0&tipimm=1&defimm=0&tipnav=1
FILOSOFIA: TRADUZIONE COME PRASSI POLITICA. ‘L’ANALISI LAICA’ DI SIGMUND FREUD di Idolo Hoxhvogli, ilfattoquotidiano.it, 6 dicembre 2013
La nuova traduzione di La questione dell’analisi laica di Sigmund Freud (Mimesis Edizioni) si presenta come scientifica, etica e collettiva. Scientifica, poiché le scelte linguistiche dei traduttori – Antonello Sciacchitano e Davide Radice – sono guidate da due criteri: coerenza linguistica e fertilità teoretica. Etica, perché tenta di essere «giusta»: con Freud, restituendo l’autenticità del suo pensiero; con il lettore, cercando di condurlo non solo a Freud, ma in Freud. Il lettore deve essere messo in grado – secondo i traduttori – di «pensare il pensiero» di Freud, di muoversi in un Freud libero dall’opacità e dalle incomprensioni delle vecchie traduzioni-tradizioni. Collettiva, in quanto Sciacchitano e Radice si confrontano assiduamente con ipotesi traduttive diverse rispetto a quelle da loro praticate, pensiamo ai lavori di James Strachey, Cesare Musatti, Luis López-Ballesteros, José Luis Etcheverry, Stefano Franchini e Lucia Taddeo.
Oltre a essere scientifica, etica e collettiva, questa nuova traduzione di Die Frage der Laienanalyse ha due meriti ulteriori. In primo luogo, l’invito alla revisione pubblica della traduzione e del lavoro freudiano. La revisione pubblica aumenta il rigore e la verità della traduzione, permette il risveglio della dinamite psicanalitica. Dal punto di vista del metodo, questa proposta si inscrive in una prassi culturale elevabile a modello: si tratta di una pratica intellettuale democratica e fondata sul confronto. In secondo luogo, l’ulteriore merito della traduzione è la politicità, in quanto si inserisce in un lungo e controverso dibattito circa la specificità della psicanalisi e il suo rapporto con la medicina.
La critica alla tradizione-traduzione ufficiale è puntuale e rilevante. Il ricco apparato di commenti costituisce il campo di battaglia, un libro nel libro. Il problema di una cura psichica più empirica che scientifica emerge chiaramente, come anche lo statuto biopolitico di una psichiatria più fedele alle lobby farmaceutiche che al soggetto umano, ormai ridotto a paziente. Che un’opera culturale sia politica è meritevole: scopo della cultura è anche incidere la polis.
VIDEO
src="//www.youtube.com/embed/EpmTIignIgE?feature=player_detailpage" frameborder="0" allowfullscreen>
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
0 commenti