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FAVOLA DI NATALE

4 Dic 19

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

C’ era una volta un Capostazione.
Dirigeva, da tanti anni, una piccola sta­zione sper­duta nel mezzo della grande pia­nura, lungo un’ importante li­nea inter­nazio­nale.
La sua vita era molto monotona, scandita dallo squil­lare crono­metrico e spaccatim­pani del cam­pa­nello che an­nunciava l’ imminente arrivo di un treno: ogni volta si fic­cava in testa il ber­retto rosso con i fregi do­rati, im­pu­gna­va la pa­letta e sotto la pensilina ne at­ten­deva l’ arrivo, bat­tendo, nervo­sa­mente, il piede sull’ im­pian­tito di matto­nelle rosse e sbirciando l’ ora per control­lare la puntua­lità del con­voglio.
In realtà più che di un arrivo si trattava di un ra­pido pas­saggio dal momento che quasi mai i treni fa­cevano so­sta alla sua sta­zione, tanto era pic­cola e poco im­por­tante: c’ era il po­stale delle 5 e 03, che la­sciava i gior­nali e scam­biava la corri­spon­denza e un po’ di mercanzia con quell’ avamposto sper­duto della civiltà mecca­nica; c’ era il di­retto delle 6 e 27 che portava al la­voro i pendo­lari e infine il lo­cale delle 20 e 19 che li ri­por­tava in­die­tro; poi il nulla, solo noia e silen­zio, sole a picco d’ estate e nebbia fitta e neve nel lungo in­verno freddo.
Il nostro uomo viveva in un piccolo ap­par­ta­mento, messo a sua disposizione dalla am­mini­strazione delle Ferrovie, so­pra i locali della Sta­zione e river­sava, come tanti, nella vita fami­liare tutte le fru­stra­zioni della sua esi­stenza: era ira­sci­bile, scon­troso, poco di­sposto al dia­logo e ad as­se­con­dare le sem­plici esi­genze della mo­glie e dei loro due bambini.
Ogni Dicembre, essi scrivevano una compita let­tera a Babbo Natale chie­den­dogli, come tutti i bimbi del mondo, un mare di doni e pro­met­tendo, in cam­bio, stu­dio e bontà. Ma, ogni volta, non ar­ri­vava mai niente poi­ché il loro papà ben si guar­dava dall’ aprire la let­terina e dall’ andare a fare una scap­pata in città a com­perare i regali.
Accadde, però, che un’ antivigilia mentre i bam­bini erano intenti alla scrittura dell’ en­nesima inutile let­tera, tanto fe­cero e tanto dissero da obbli­gare l’ irrita­tissimo genitore a scrivere anch’ egli una lettera a quel si­gnore tanto re­calci­trante e, evi­den­temente, tanto inconten­ta­bile per ve­dere se, almeno a lui, av­rebbe dato ascolto.
Tra il lusco e il brusco il Caposta­zione si mise alla scriva­nia a com­porre una lette­rina molto strin­gata:
«Caro Babbo Natale, – scrisse – tu non esisti, ma nella vita sarebbe bello poter so­gnare: fammi cambiare vita, dammi un po’ di fe­li­cità!».
Richiuse la lettera e la pose ac­canto a quella dei figli, fi­nal­mente sod­di­sfatti, sopra il ca­minetto.
La vigilia, alzandosi come sempre di buon’ ora per il po­stale delle 5 e 03, passò prima in sala per prendere le let­tere e di­strug­gerle, come aveva sempre fatto al fine di si­mulare il pas­sag­gio del mes­saggero di Babbo Na­tale, ma, strana­mente, non le trovò.
«Le avrà ritirate mia moglie» – si disse, con un’ al­zata di spalle.
Arrivò la notte di Natale: l’ uomo se ne stava, an­noiato accanto alla stufa, al suo po­sto di co­mando ad atten­dere l’ ultimo pas­saggio della notte, il ra­pido della 1 e 57, qu­ando all’ im­prov­viso il cam­pa­nello co­minciò a tril­lare in­ter­rom­pendo il si­len­zio ovat­tato e sonnolento di quella notte di neve.
Il Capostazione trasse dal panciotto il suo ci­pol­lone: ci do­veva essere un er­rore, non c’ era a quell’ ora in pre­vi­sione nes­sun arrivo di con­vo­gli; un po’ preoccu­pato si in­filò il cap­potto, si ficcò in testa il cap­pello rosso e uscì all’ aperto a at­ten­dere, in un val­zer di fiocchi di neve, l’ ar­rivo di quel treno fuori ora­rio.
Si udì un fischio nella notte e, in lonta­nanza, si vi­dero due fari fendere la tor­menta.
Tra lo stridore dei freni e lo sferragliare degli stan­tuffi il treno si fermò sotto la pensilina.

Il Capostazione restò a bocca aperta a os­ser­vare la scena, non aveva mai vi­sto una cosa del ge­nere: il con­voglio era formato da una vecchia lo­co­mo­tiva a va­pore con un solo va­gone attac­cato, ma, anziché spor­chi e con­sunti, i due vei­coli ri­splen­de­vano come se fossero appena usciti dalla fab­brica e, per giunta, non avevano i tipici co­lori ano­nimi dei treni, sem­bra­vano……erano com­ple­ta­mente verniciati di uno sma­gliante rosso ver­mi­glio.
Tra dense nuvole di vapore si spalancò il por­tello della car­rozza e un’ ombra si pre­ci­pitò giù, an­dando a strin­gere tra le brac­cia l’ uomo an­ni­chi­lito.
Egli si sottrasse all’ abbraccio e inqu­adrò l’ uomo che l’ aveva così vigo­ro­sa­mente stretto a sé: il ve­stito era rosso vivo, la barba era can­dida, la fi­gura pacifica e cor­pulenta : as­solu­ta­mente im­pos­sibile.
«Evidentemente sto sognando» – disse il Ca­po­sta­zione.
«Pizzicati, pizzicati, così vedrai che non stai dor­mendo» – gli ri­spose, ridendo, Babbo Na­tale.
«Tu non esisti, tu sei solo nella fantasia dei bam­bini!».
«In effetti, la maggior parte delle volte vengo egre­gia­mente sosti­tuito dalle mamme e dai papà; ma, quando si tratta di cose molto im­por­tanti, in­tervengo di per­sona. Sai, ho una sola notte all’ anno per fare il mio la­voro e devo scegliere con ocula­tezza.».
«Quale diamine sarebbe la questione im­por­tante che ti ha fatto fer­mare qui?Hai forse bi­so­gno di carbone o di acqua per la cal­daia, per giungere al più presto alla tua de­sti­na­zione?».
«La mia destinazione sei tu.».
«Io?Cosa ho io di importante: vivo la mia vita, non faccio del male a nes­suno, a nes­suno im­porta di me e di nes­suno ho no­stal­gia.».
«Ma non hai la felicità! Me lo hai scritto e sono ve­nuto a esaudire il tuo desi­de­rio.».
«Vuoi dire che mi renderai felice, Vec­chio?».
«Certo che sì: troverai la tua felicità dentro la sta­zione quando sarò par­tito!» – ri­spose Babbo Na­tale, che subito dopo lo riabbrac­ciò con dolce vio­lenza e, risa­lito sul treno, ri­partì, tra sbuffi e sus­sulti, urlando dal fi­ne­strino:
«Scusa se non posso fermarmi di più, ma ho an­cora al­cune con­se­gne da fare!».
Il silenzio della notte riprese ben presto pos­sesso della sta­zion­cina e l’ uomo, an­cora con­fuso, rien­trò lenta­mente al co­perto.
Accanto alle leve del pannello di con­trollo, il­lu­mi­nato dalle luci di al­larme e di se­gnale, il Ca­po­sta­zione trovò un grosso sacco di iuta, pieno di sca­tole e, ap­poggiato al suo seggio­lone di co­mando, un ve­stito rosso da Babbo Na­tale, un cap­puccio col pon­pon di lana bianca, una grande barba bianca con tanto di ela­stico.
L’ uomo guardò perplesso e un po’ stiz­zito tutto quell’ arma­men­tario:
«Cosa ha a che fare questa roba con la mia fe­li­cità?» – si do­mandò.
Poi , preso dalla curiosità, provò davanti allo spec­chio il cappuc­cio e la barba finta, fece due smor­fie e obiet­tiva­mente trovò che non stava male, si infilò i pan­ta­loni e la giubba rossa: sic­come erano piut­tosto ampi («Dannato vec­chio, pensi che al mondo esi­sta soltanto la tua ta­glia!»), si aggiunse in vita un cu­scino, dette due ro­buste manate al pan­cione e in tutta sin­cerità si piac­que as­sai.
Allargò l’ apertura del sacco di iuta e tra pac­chi e pac­chetti avvolti in luccicante carta da regalo trovò un cam­panac­cio; lo impu­gnò e messosi il sacco in spalla, col cuore ai piedi, prese a salire le scale che condu­ce­vano al suo apparta­mento, scam­panel­lando all’ im­paz­zata.
I bambini e la moglie scesero dal letto, sve­gliati di so­prassalto da quel fra­stuono, e ri­masero a bocca aperta a vedere, in sala, Babbo Natale di­sporre can­ticchiando i re­gali sotto l’ albero e poi to­gliersi il cap­puccio, la barba, il cu­scino e l’ abito; la mo­glie e i bam­bini, stro­piccian­dosi gli occhi , rima­sero an­cor più a bocca aperta a ve­dere il Capo­sta­zione cor­rere verso loro ad ab­brac­ciarli ri­dendo e pian­gendo come non aveva mai fatto in vita sua.


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