Il disturbo da attacchi di panico è uno dei più frequenti disturbi clinici e che ormai da anni viene trattato con succcesso grazie agli interventi di terapia cognitivo comportamentale, basati sostanzialmente sulle procedure di esposizione graduata in vivo (che contrastano la tendenza agorafobica) e soprattutto di esposizione enterocettiva (ovvero di esposizione a quelle sensazioni fisiologiche che costituiscono degli stimoli interni per l'attivazione del panico, come il capogiro, la tachicardia, ecc.).
Quest'ultima tecnica è particolarmente efficace ed è stata sviluppata sulla base del modello cognitivo dell'attacco di panico, proposto da Clark, in base al quale questo si scatenerebbe poiché il soggetto interpreta in modo catastrofico delle sensazioni fisiche innocue (es. giramento di testa), pensando che esse siano il segnale di un'imminente catastrofe (malattia acuta, morte o perdita di controllo); questo innesca un forte stato ansioso che a sua volta determina arousal e incremento delle suddette sensazioni fisiche.
Tale modello ha ottenuto moltissimi riscontri scientifici, ma recentemente uno studio longitudinale estremamente sofisticato lo ha ulteriormente supportato. Sono stati infatti monitorati e rivalutati nel tempo a distanza di 17 mesi un gran numero di soggetti, e alla seconda valutazione si sono riscontrati esordi di disturbi di panico in particolar modo in quei partecipanti che alla prima valutazione avevano ottenuto punteggi elevati all"interpretation Questionnaire" che indaga proprio la tendenza a interpretare catastroficamente i segnali fisici innocui, pur controllando per tutte le variabili confondenti.
Dati interessanti che ancora una volta confermano come le strategie della terapia cognitivo comportamentale, pur con tutti i loro limiti, siano sempre basate su modelli eziopatogenetici empiricamente supportati.
Fonte: http://dx.doi.org/10.1016/j.janxdis.2013.11.008
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