Col pretesto che le sorti di questo destino le decide Dio, in molti avrebbero voluto impedirglielo.
L'eutanasia fa scandalo più del suicidio perché implica una nostra corresponsabilità: condividere, condannare (impedire) o volgere altrove lo sguardo. Invocare Dio (la sua volontà imperscrutabile) è una truffa a danno di se stessi: il travestimento della deresponsabilizzazione in atteggiamento responsabile. La morte degli altri è il solo modo con cui facciamo esperienza indiretta della morte, in sé inafferrabile. La morte degli altri non è, tuttavia, la nostra. La psiche non concepisce la morte, le è esterna, estranea. Non usiamo la morte degli altri per un'impossibile introiezione del suo significato; la usiamo per introiettare la loro testimonianza di vita o per proiettare in essa la paura di vivere (e non la paura di morire), che crea dentro di noi il presentimento della morte del desiderio, della morte psichica. Lo spettacolo dei fanatici autoproclamatisi fedeli (non si sa di che) che invocavano tempo fa la resurrezione del corpo di Eluana Englaro (un perturbante cadavere animato che invadeva le percezioni e lo spazio psichico dei genitori, impedendo loro l'elaborazione della perdita) mise a nudo l'mpulso che domina il mondo interno dei sostenitori della pena alla morte vivente: la proiezione (che è una negazione) nel mondo esterno della vita vegetativa che ci abita. Piera Franchini non ha voluto fare da ricettacolo dei fantasmi altrui. La sofferenza può svilire il senso della vita fino a farci morire dentro prima di morire fuori. Meglio morire vivi, che vivere morti. Non ha importanza dove si è dopo la morte. Raymond Chandler finisce il più celebre dei suoi romanzi, "Il grande sonno", con queste parole: "Che importa dove si giace quando si è morti? (…) Si dorme il grande sonno, senza preoccuparsi della bruttura di come si è morti o di dove si è caduti." Non conta dove si giace ma conta come si muore. Si può scegliere di entrare nel grande sonno dormendo: con il più privato, l'ultimo, dei propri sogni.
La morte non esiste: è
La morte non esiste: è un’invenzione culturale umana!
Esiste solo la vita, che è nutrimento per altra vita.
Interrompere la propria volontariamente è solo concedersi come nutrimento e noi culturalmente lo interpretiamo come rendere migliore la nostra vita.
Diritto alla Felicità!
Questo è un nostro diritto inespugnabile: infatti c’è un picco di suicidi nella terza età, che sarebbe evitabile se lo stato permettesse l’eutanasia in modo semplice e garantito a tutti.
Il rovescio culturale è invece SADISMO!
Auguro a tutti quelli contro l’eutanasia una lunga vita, oltre le capacità mediche di cura palliativa!
Meglio morire vivi, che
Meglio morire vivi, che vivere morti, nonostante il suo appeal metaforico, non ha senso logico. E’ assertivo e autoritario. Chi decide ciò che è vivo e ciò che è morto? E più arretrato di almeno 2400 anni rispetto ad Epicuro. Quando c’è la morte non ci siamo noi, e quando ci siamo noi non c’è la morte. Noi, naturalmente inteso come “noi”, insieme umano e non appendice di un compost di tecnica e uomini-tecnica, senza anima.
nel limite delle mie
nel limite delle mie esperienze personali anche se per molti versi analoghi per qualità e spessore di Sofferenza, parlo del “mondo della tossicomania grave”, bisogna, con coraggio, far scegliere sempre e comunque a favore della Vita anche quando il Male sovrasta l’uomo: No all’eutanasia, Si ad una radicale rinnovazione etica-culturale per una clinica dell’Ascolto rispettosa e con-divisa oltre le – pur fondamentali – imbrigliature medico-biologiche. Si dovrebbe quanto meno cercare di parlarne nelle sedi giuste, magari partendo insieme da un convegno a piu’ voci.