JULIA DECK: “HO UCCISO IL MIO ANALISTA. UN NOIR PER SFATARE L’ULTIMO TABÙ”. Intervista all’autrice esordiente di un romanzo che sta avendo grande successo in Francia Le nevrosi di oggi spiegate attraverso la crime story
«Non sei del tutto certa, ma hai l’impressione di aver fatto, quattro o cinque ore fa, qualcosa che non avresti dovuto fare». Una donna uccide l’analista con il coltello offertole dalla madre il giorno del suo matrimonio. È lei ma non è lei, depista gli altri e se stessa in un vertiginoso gioco di depersonalizzazione.
Viviane Élisabeth Fauville è il primo romanzo di Julia Deck. Un esordio apprezzato da gran parte della critica francese, ora pubblicato da Adelphi con una traduzione (di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco) che riesce ad adattare il particolare stile di Deck, con repentini cambi della voce narrante. Il racconto comincia alla seconda persona plurale, quel “voi” ancora in uso nelle conversazioni formali, tradotto nell’edizione italiana con un più empatico “tu”. «La scelta del Voi è un modo di mettere una distanza tra me e il personaggio» spiega Deck, 39 anni, che ha studiato letteratura e psicologia, e scrive nel tempo libero dal lavoro da segretaria di redazione per diversi editori. Insieme a Viviane Élisabeth Fauville, brillante dirigente della comunicazione per un’azienda, da poco madre separata, il lettore precipita in un dramma psicologico intorno a una delle ultime religioni della borghesia: la psicoanalisi.
Perché immaginare l’assassinio di un analista?
«Sono da tempo interessata al dibattito sulla presunta efficacia della psicoanalisi. In Francia, sono stati pubblicati saggi per demonizzare Freud e i suoi discepoli. Mi piaceva giocare intorno ad alcuni cliché sui pazienti che sentono sempre parlare dell’uccisione simbolica del padre o della madre. Mi sono domandata: e perché non uccidere direttamente l’analista? Era una fantasia letteraria. A sorpresa, pochi giorni prima della pubblicazione del romanzo, sui giornali è stata pubblicata la notizia di un analista ucciso da un paziente».
Come fa Viviane a sfuggire alla polizia?
«Volevo scrivere la storia di un crimine impunito, senza che ci fosse mai un giudizio moralista, ispirandomi da lontano a Delitto e Castigo. Ancor prima di iniziare il manoscritto sapevo che Viviane non sarebbe mai finita in prigione. La trama riflette il problema dell’invisibilità. È una donna che non fa nulla per nascondersi. Ha lasciato molti indizi eppure non è davvero sospettata dalla polizia. Riesce a seminare, senza volerlo, i potenti mezzi tecnologici usati nelle inchieste criminali. È metafora di una solitudine contemporanea. Viviane è tagliata fuori dalla società perché è ancora in congedo parentale, non va al lavoro, suo marito l’ha ap-pena lasciata. Si ritrova in una forma di isolamento totale».
La maternità è il detonatore della follia?
«L’unica persona con cui Viviane ha una relazione è la sua bambina. Un rapporto non verbale visto che è una neonata di soli tre mesi. Ma prima che madre, Viviane è una figlia. Gli analisti dimenticano troppo spesso questa doppia dimensione della maternità. L’arma del crimine è un coltello donato dalla mamma di Viviane».
È un noir psicologico?
«Ho tentato di creare una certa suspense per inchiodare il lettore più che alla trama criminale, che in fondo è sottile, al percorso di follia del personaggio. Nella sua ricerca di identità, Viviane comincia a pedinare le persone sospettate dalla polizia per l’omicidio dell’analista. Spia gli altri per ritrovare se stessa».
Ha voluto descrivere una patologia precisa?
«La scrittura del romanzo ha coinciso con la ripresa dei miei studi di psicologia. Ho letto diversi manuali clinici che descrivono i vari sintomi delle patologie dissociative, con personalità multiple. A un certo punto, mi sono accorta che il testo era appesantito da troppi termini scientifici. Ho lasciato da parte i manuali e mi è bastato rileggere Samuel Beckett».
In epigrafe c’è una citazione de L’innominabile.
«La sua meravigliosa prosa riesce a restituire in modo coerente il delirio interiore. Un soliloquio logico in mezzo al nulla. Non posso certo paragonarmi a Beckett ma L’innominabile e altri testi mi hanno ispirato maggiore libertà per l’ultima versione del romanzo. Ho capito che era inutile tentare di spiegare. Bisognava solo seguire Viviane nel suo assurdo girovagare, rendendola anche simpatica e talvolta grottesca».
Perché i movimenti di Viviane dentro Parigi sono così dettagliati?
«Ogni spostamento è stato calcolato con precisione. Avevo bisogno che le descrizioni di strade, fermate delmétro, corrispondessero esattamente alla realtà. Una forma maniacale, probabilmente dovuta al fatto che sono una scrittrice debuttante. Alla fine, ho scoperto che era anche un modo di ancorare la follia degenerativa del personaggio in una dimensione di spazio e tempo, come un’argine fisico contro l’insanità mentale».
E perché trasformare continuamente la voce narrante?
“Anche se non giudico mai Viviane, mi è sembrato un espediente per mettere una certa distanza tra noi due. Durante la scrittura, mi sono resa conto che questo sdoppiamento non poteva reggere per tutto il romanzo. Tra l’altro, esiste già un celebre romanzo con il Voi narrante: è La Modificazione di Michel Butor. Così ho cambiato più volte il pronome personale durante la stesura. Ero convinta che alla fine avrei uniformato tutto, facendo una scelta chiara. E invece mi sono accorta che questo racconto a più voci rappresenta esattamente l’inafferrabilità del personaggio».
Aveva già in mente il titolo mentre scriveva?
«Pensavo a Mobile, con un gioco di parole su mobilità e movente. Ho scoperto poi che era un titolo già usato da Michel Butor, tra gli autori della mia casa editrice, Les Editions de Minuit. Il nome della protagonista invece, Viviane Élisabeth Fauville, è arrivato subito, sin dalle prime righe. Volevo un nome composto, borghese, desueto. Potrebbe essere un personaggio di Maupassant».
di Gian Paolo Polesini, 8 febbraio 2014
Zeno Corsini è un curioso signore degli anni Venti intrappolato in un libro, ma trova spesso il sistema per sgranchirsi le gambe a teatro. I suoi quasi cent’anni reggono a meraviglia l’urto della modernità. In realtà non è cambiato un granché, parlando di approcci esistenziali. L’uomo persevera nel malvivere, difficilmente trova l’equilibrio col prossimo e, ancor peggio, ha perso gradatamente quella coscienza che, al contrario, Zeno si terrà stretta. È il personaggio decisivo di Italo Svevo, senza l’ometto dalla cicca in bocca gli sarebbero rimaste invenzioni minori – il Nitti di Una vita e il Brentani di Senilità, decisamente con meno appeal. Un grande della letteratura va scambiato soltanto con un grande della prosa e Giuseppe Pambieri, volto e voce di mille avventure, sa come maneggiare con delicatezza il problematico individuo. «Mi ci sono infilato come un guanto – spiega l’attore varesino che dai Settanta ha attraversato da protagonista lo spettacolo italiano (dall’indimenticato Sorelle Materassi sceneggiato tv) – e senza faticare gli sono diventato amico. Il piacere mio è favorito dall’atteggiamento di Corsini, leggero e ironico e con la non trascurabile voglia di uscire dalla malattia. Un buon proposito». La coscienza di Zeno (lungo tour teatrale in regione: martedì 11 a Tolmezzo a cura dell’Ert, dal 12 al 16 febbraio al Rossetti di Trieste, dall’11 al 13 marzo al Giovanni da Udine e dal 14 al 16 marzo al Verdi di Pordenone) è un caposaldo, andrebbe visto, se mai affrontato. E magari letto, se mai sfogliato. La gioventù se lo scarichi in iBooks, è gratis. Trasuda vita e tic dell’oggi, e suggerisce pure il sistema per salvarsi.
Pambieri, la parola coscienza appare sempre meno nei titoli di qualunque operazione culturale, come del resto nell’animo della gente.
«Anche lui ne ha poca, in effetti, Zeno è un incosciente distratto. Ma saprà rinascere con la fatica di tutte le resurrezioni. Il saper sorridere aiuta a esorcizzare il male. E l’insicurezza diventa sicurezza. E così la gente, alla fine del cammino, vedrà i difetti risolti. Il protagonista non fugge, decide di affrontare il disagio. In questo dimostra coraggio».
La riduzione teatrale è di Tullio Kezich e la regia di Maurizio Scaparro. Due autentiche icone.
«Assolutamente. Tullio rende davvero semplice l’ascolto, aiutando non poco lo spettatore, come del resto gli riuscì con il pirandelliano Fu Mattia Pascal. Che dire di Maurizio?, tutto il bene possibile. Favorisce l’armonia del gruppo e, mi creda, è dote rara al tempo dell’agitazione collettiva».
I ragazzi non dovrebbero mancare, uno Svevo così è necessario per la crescita.
«Vengono, vengono. Lo studiano a scuola e tantissimi direi non si perdono l’occasione di vederlo rappresentato. Tra l’altro si siedono in platea un po’ prevenuti. Nel romanzo il tempo, si sa, non batte regolare, mentre noi abbiamo dato all’opera un ritmo ben più fluido. E si ricredono».
Com’è noto, Zeno ha un rapporto conflittuale con la psicanalisi. Lei, Pambieri, si è mai avvicinato a un analista?
«Mai avuto bisogno, fortunatamente. Immagino sia materia che favorisca la seduzione mentale. Bisogna crederci, altrimenti è inutile. Vado a sensazioni, per carità».
Che ne facciamo dei classici? Vanno o non vanno svecchiati per la gente del Duemila?
«Molti sì, con l’eleganza e il rispetto richiesti, dichiarando irremovibile il messaggio universale. Con Goldoni e con Shakespeare è operazione fattibile, assai meno con Pirandello. Non contempla al momento manipolazioni possibili».
Facciamo un salto al cinema. Allen la scelse per un personaggio di To Rome With Love, il film cosiddetto italiano…
«Woody è un genio e lavorare con lui è sempre emozionante. Ricordo l’estrema gentilezza e la costante disponibilità. E le sue lunghissime chiacchierate al cellulare».
http://messaggeroveneto.gelocal.it/cronaca/2014/02/08/news/giuseppe-pambieri-non-si-sfugge-al-male-lo-si-affronta-1.8628167
IDEE. È POSSIBILE IMMAGINARE UNA POLITICA ETICA?
Gli antichi Greci erano soliti accostare la politica all’interesse per la vita in comune e alla pratica sportiva. Non mi sembra affatto che si tratti di una semplice metafora, di un orpello retorico che renderebbe pesante la nostra comunicazione politica “contemporanea”. Con quest’accostamento classico s’intende dire che c’è qualcosa all’interno della politica che non può risolversi da un mero calcolo formale o ridotto ad una serie di leggi stabilite una volta per tutte ed applicate con rigore. Cosa resta al di là del calcolo? Rimane uno spazio pratico, come nel caso dello sport, nel quale siamo chiamati a “dare qualcosa in più”. In altri termini, a dare qualcosa in più rispetto a ciò che già abbiamo realizzato, alla situazione in cui ci troviamo. Il che vuol dire che ci viene chiesto di inventare qualcosa, di creare modalità e stili dello stare insieme, di dare vita ad idee ed esperienze capaci di produrre una comprensione dello spazio politico ed una sua apertura al rinnovamento.
Tutto ciò richiede di essere buoni sportivi, ottimi ostacolisti: di non fermarsi all’applicazione di contenuti appresi, ma di spingersi alla formazione di nuovi contenuti, per i quali impegnarsi concretamente. Concluderei questa prima riflessione con una citazione che mi sembra suggellare ciò di cui parlo: “Amare è dare ciò che non si ha” (J. Lacan, Séminaire VII). Amare, e la politica è una pratica che richiede amore per i valori che si esprimono, è creare qualcosa di nuovo da uno stato di cose, che sembrava immodificabile o arido di possibilità. Nel tempo della crisi (per usare una categoria fin troppo sfruttata) una formula come questa, acquisisce tutta la sua portata: fare politica è dare ciò che non abbiamo, ovvero ciò che siamo in grado di creare. Qui entra in gioco un binomio capace di solleticare sensibilità assopite: esiste un’Etica nella Politica? Si può fare politica con Etica? Il termine Etica, nella sua differenza da morale, è un insieme di precetti già stabiliti che si tratterebbe di insegnare e di applicare. L’etica sarebbe, di nuovo, capacità di creare valori che siano in grado di incidere sul presente e di coinvolgere l’energia e l’impegno di coloro che vi credono e vi scommettono.
In questo senso l’aspetto democratico coincide con la capacità di non arroccarsi su pregiudizi morali, ma di aprirsi all’arte creativa che è l’etica. Il vero cambiamento non può quindi essere rappresentato solo dal fare, per fare occorre prima di tutto saper fare, e prima ancora innovare qualcosa che sa di vetusto, di farraginoso, di rallentato. Oggi dobbiamo andare avanti spediti e anticipare le congiunture, investire e disinvestire con una visione globale e non parcellizzata. È il momento di rischiare e di giocare la partita del rinnovamento partendo non dalle modifiche di quello che già c’è, creando invece un’alternativa seria, democratica, competitiva e risolutiva.
IL MUSICISTA, IL MEDICO E LO SCRITTORE. QUELLI CHE MENTONO PER IL SUCCESSO. Diventare famosi o andare in mondovisione grazie alle bugie. Chi sono. Interpretano per anni personaggi talentuosi, con storie commoventi o trascorsi misteriosi
Figura di straordinario fascino e impenetrabile mistero, l’impostore. Cioè colui che rischia il tutto per tutto millantando identità e attitudini che non gli appartengono. Con la certezza che, prima o poi, verrà smascherato. L’intero Giappone è ancora sotto shock per una rivelazione di pochi giorni fa: Mamoru Samuragochi, da vent?anni conosciuto come il «Beethoven giapponese», ritenuto un mito perché nato sordo, in realtà è un volgare impostore. Sente benissimo e non conosce la musica. La non-sua composizione «Hiroshima» nel 2011 fu l’inno delle comunità colpite dallo tsunami. A svelare il ventennale inganno ha provveduto il suo «ghost writer», Takashi Niigaki, che ha tenuto una lunga conferenza stampa per vendicarsi di essere stato liquidato, dopo dieci anni di brani inventati per il millantatore, con 7 milioni di yen, 50 mila euro. Un caso che ricorda quello di «Piano Man». Aprile 2005, spiaggia sperduta su un’isola del Kent, Gran Bretagna. Viene ritrovato un ragazzo che si dichiara muto, è in costume da bagno e cravatta. Disegna solo pianoforti. Nasce la leggenda di un pianista smemorato. Dopo quattro mesi, e migliaia di sterline spese dalla sanità pubblica inglese, la verità: «Piano man» è un ventunenne tedesco provato da un esaurimento nervoso, fuggito dalla sua Baviera e da un ambiente familiare ostile alla sua omosessualità. Molti psichiatri hanno analizzato il fenomeno.
La prima descrizione clinica di un’impostura si deve a Karl Abraham, fondatore dell’Istituto Psicoanalitico di Berlino, morto nel 1925. Scrisse che il millantatore «non si era sentito amato da bambino e sentiva in sé un profondo desiderio di dimostrarsi degno dell’amore di tutti» anche sapendo che il suo castello di menzogne sarebbe crollato. Altra studiosa dell’impostura fu Phyllis Greenacre, grande psicoanalista americana, morta ultranovantenne nel 1989, astro del New York Psychoanalytic Institute. A suo avviso il millantatore, per dirla in parole povere, ha in genere un drammatico, e patologico, problema di conflitto edipico irrisolto e quindi sviluppa un anomalo Super-Io.
Malati o meno che siano, i millantatori trovano sempre un gran pubblico. Si è visto durante i funerali di Nelson Mandela quando è salito sul palco a Pretoria, in Mondovisione, l’indimenticabile Thamsanqa Jantjie. Ha cominciato a tradurre i discorsi per i non udenti con segni inesistenti, a un passo dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama. Si è giustificato sostenendo di aver avuto un attacco di schizofrenia, di aver visto gli angeli entrare nello stadio di Pretoria. La verità, ripensando all’analisi di Karl Abraham, è che quello sterminato pubblico era un’occasione irripetibile per il suo bisogno di essere amato. Gli Stati Uniti, nel 2003, scoprirono con doloroso stupore che Jayson Blair, ventisettenne stella del New York Times , in realtà era un volgare impostore. Nessun suo cugino era morto l’11 settembre sotto una delle due Torri. Non si era mai laureato. Una giornalista di provincia, Macarena Hernandez, del San Antonio Express-News del Texas, dimostrò come Blair avesse copiato quasi integralmente una sua storia di cronaca, che ebbe gran successo sul New York Times con la firma di Blair. Dopo un’inchiesta interna, a Blair vennero contestati 37 casi di plagio e copiature e dovette dimettersi. Lo stesso capitò nel 1998 a Patricia Smith, columnist del quotidiano Boston Globe, candidata al premio Pulitzer, apprezzata poetessa. Anche lei si dimise: tanti, troppi suoi articoli contenevano invenzioni e forzature. Addirittura inventata di sana pianta risultò la storia di Claire, malata terminale di cancro. Claire non esisteva. Patricia Smith si difese sostenendo di aver voluto «abbellire alcuni aspetti» delle storie.
E qui torniamo allo psicoanalitico bisogno di essere amati. Ma nessuna vicenda ha un contrappasso come quello di Luigi Franchetto che, alla fine degli anni 70, era in carcere a Padova per esercizio abusivo della professione medica. Una sera salvò il suo compagno di cella, in carcere per rapina, che tentò il suicidio, rianimandolo con massaggio cardiaco e respirazione artificiale. I giudici riesaminarono la sua domanda di libertà provvisoria.
VON TRIER INDAGA LA PSICANALISI CON IL GUSTO DELLA PROVOCAZIONE. Ma Nymphomaniac diviso in due parti è un limite
È una delle prime cose che ti insegnano a educazione sessuale: il coitus interruptus non solo è rischioso ma abbassa molto anche la soglia del piacere. E infatti, alla fine delle due ore e 25 minuti di questo Nymph()maniac vol. I (la «o» del titolo è sostituita da due parentesi tanto per non cadere nel dubbio: si parla di quella cosa lì!), proprio sui titoli di coda scorrono delle immagini del vol. II e la sensazione di essere rimasto a metà, e per giunta sul più bello, si fa strada.
Le ragioni di questa scelta tronca sarebbero state da chiedere al regista Lars von Trier, dopo la presentazione fuori concorso al festival di Berlino della sola prima parte, pur se integrale, ma il discusso regista danese non si è presentato alla conferenza stampa: ha partecipato al photo-call (dove ha sfoggiato una maglietta con scritto «persona non grata» sotto il simbolo della palma di Cannes, da dove era stato allontanato tre anni fa per delle avventate dichiarazioni antisemite) ma ha evitato le domande dei giornalisti. Così come ha fatto Shia LaBeouf che ha lasciato la conferenza stampa dopo aver risposto a chi gli chiedeva del suo coinvolgimento nel film con un sibillino «il gabbiano segue il veliero perché spera che gli tirino le sardine». E sempre l’attore si è presentato sul red carpet con un sacchetto di carta in testa con la scritta che da giorni continua a postare su Twitter: «Non sono più famoso». E così siamo restati tutti con i nostri dubbi. Che cosa racconta allora questa prima parte? L’incontro casuale tra Joe e Seligman, cioè tra Charlotte Gainsbourg e Stellan Skarsgård. Il secondo la trova pesta e priva di sensi per strada e la porta a casa, dove lei comincia a raccontare all’uomo come è finita così malconcia. E la prende da lontano, dalla scoperta infantile della propria sessualità, che lei chiama nel modo più diretto possibile.
Da subito, fin dalla postura dei due (lei sdraiata a letto, lui su una sedia) si capisce che quello a cui von Trier ci invita è un viaggio psicoanalitico intorno al tema della sessualità vista dalla parte femminile. Lei racconta, mettendo subito in chiaro la sua «ninfomania», e lui domanda, puntualizza, spiega. È la parte più convincente del film, anche per merito dei due attori che sanno restituire, attraverso una serie di primi piani sempre più ravvicinati, la forza emotiva dei discorsi. Qualche volta viene il dubbio che von Trier stia provocando a bella posta — il paragone tra l’adescamento femminile e la pesca con la mosca — altre volte sembra voler usare il film per scusarsi (dopo le accuse di antisemitismo fa del comprensivo personaggio di Seligman un ebreo) o per smontare le certezze dei luoghi comuni (difficile contestare Joe quando sostiene che il rapporto tra i delitti commessi per amore e quelli per sesso è di cento a uno) ma in generale l’ambizione non comune dell’operazione mi sembra sorretta da una drammaturgia adeguata. Dove il gusto della provocazione fine a se stessa ritorna a fare capolino è nei tanti flash back con cui Joe racconta la sua odissea sessuale. Qui la Gainsbourg lascia il campo all’esordiente Stacy Martin (tornerà protagonista al 100% nella seconda parte) a cui tocca il compito di dare un volto e un corpo al suo lungo viaggio nel sesso. E qui le immagini, spesso molto realistiche, finiscono per dimostrare minor efficacia delle parole, di cui perdono la forza evocativa e allusiva. Con un’eccezione, però, quando Uma Thurman entra in scena: una lunga, straordinaria scena, fatta di rabbia vendicativa e dolore trattenuto, di grande forza e ancor più grande emozione, che riscatta le inutili scivolate nel troppo esplicito che ogni tanto fanno capolino. E che fa rimpiangere un film sullo stesso argomento ma con una forma diversa. Anche se vederne solo metà resta l’errore più grande e imperdonabile di von Trier.
QUEL CONFINE TRA GENERAZIONI CANCELLATO DAI SOCIAL NETWORK
Il confine tra minori e adulti è diventato confuso da quando ai rapporti personali e diretti si sono sovrapposti gli scambi virtuali. Mancando la visione del corpo, viene meno l’aggancio alla realtà e si lascia spazio all’invenzione di una identità fantastica, ipotetica e provocatoria. Ecco uno stralcio di conversazione in chat tra due dodicenni: «Boy: Come sei? Lynda: non male. Boy: Che significa non male? Lynda: Carina. Boy: Non hai voglia di parlare? Lynda si scusa: 1,65, bionda, occhi chiari, terza di seno, 52 kg. Boy: vestita come? Boy: Parto sempre dicendo che ho 30 anni. Poi semmai, se capisco che quella con cui parlo è piccola, scendo». In questo caso l’inganno riguarda il piccolo che si finge grande, ma più pericoloso è il contrario, quando un adulto si presenta come un coetaneo del ragazzo. E con intenzioni tutt’altro che rassicuranti. Da tempo si invitano gli educatori, in particolare i genitori, ad assumersi le responsabilità che i nuovi mezzi di comunicazione comportano. Ma la ricerca dell’associazione Save the Children sull’atteggiamento degli adulti nei confronti del sesso con i minori, sesso reale e/o soprattutto virtuale, apre non pochi interrogativi. Sul palcoscenico della realtà simulata avvengono scambi che non troverebbero posto nella vita concreta. Ed è una scena in continua espansione. Basta pensare che il 75% degli intervistati «più social» si collega a Internet per trovare amicizia e amore e, in media, rimane collegato 3-4 ore al giorno, per gli uomini preferibilmente notturne. Il dato più significativo (più di un italiano su tre ritiene accettabili i rapporti con adolescenti) rivela una generale tolleranza, come se la differenza d’età non costituisse un problema. Più critico l’atteggiamento delle donne e dei genitori (il 55% si dichiarano preoccupati di quanto possa accadere ai figli). È vero che gli adolescenti sono cambiati e, in base a questa considerazione, il 41% degli adulti attribuisce anche a loro la responsabilità dell’iniziativa. Spesso sembrano più grandi di quanto non siano e ostentano una disinvoltura che sconcerta. Ma, di fronte a questa parata, dobbiamo chiederci: si tratta di una vera maturità? Non credo. Il più delle volte l’aspetto adulto di chi adulto non è ancora è un effetto di superficie e la sua disponibilità un autoinganno, un modo per mettersi alla prova, per misurare la sua età sul metro graduato delle relazioni intime e segrete. Tuttavia, anche quando non si realizzano rapporti sessuali, basta una conversazione insinuante e perturbante per destabilizzare un adolescente che, per quanto possa apparire spavaldo, è pur sempre fragile e vulnerabile, bisognoso di essere protetto e tutelato, anche da se stesso.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/10Feb2014/10Feb20146e0323035aa32a664f45c637de137c3a.pdf
RISSA TRA RAGAZZE A BOLLATE. CARA “BULLA”, ADESSO CHE STRADA PRENDERAI?
Ti ho vista, sai. Nel video che è diventato virale in rete. Era il 6 febbraio, alle due del pomeriggio. Eri a Bollate, fuori scuola, con la tuta grigia e la borsettina a tracolla. Davanti a te la ragazza che ti ha soffiato il ragazzo, volano parole, la prendi per i capelli, lei un po’ scappa ma tu non molli, lei cade a terra e tu la riempi di calci, lei grida “aiutatemi per favore qualcuno mi aiuti!”, ma tu insisti e ti accanisci ancora di più. Lei riceve un calcio in testa: “aiutatemi!” grida. Poi il video si arresta e non so più nulla di te. Ricordo bene, però, il contorno di risa degli spettatori, ti dicevano: “v ai così cattiva, dai, dai!” ti incitavano. Nessuno è intervenuto, nessuno ti ha fermato. Anzi questi spettatori divertiti ti hanno filmato col cellulare e hanno postato in rete il video.
Così quello che è successo a Bollate lo hanno visto tutti. Così la cosa non è finita lì. Ti sarai accorta che su Facebook si è scatenata la caccia per scovarti. Moltissimi coetanei cercano di identificarti, e c’è chi ti vuole morta, chi in galera, chi desidera giustizia, spaccandoti la faccia, restituendoti ciò che hai provocato. Adesso le parti sono invertite, sei tu la preda, sei tu che devi aver paura di andare in giro, sei tu che devi difenderti da una violenza che forse non ti aspettavi e nemmeno capisci.
Un po’ te lo meriti, diciamolo. Così ti rendi conto che non esistono atti senza conseguenze e che diventare popolare nel quartiere in quel modo alla lunga non porta mai guadagno. Vedrai che molti di quelli che ti incitavano pochi giorni fa ti molleranno, perché il tuo potere ora non è più nulla, perché ti sei sgonfiata come un gelato al sole. E hai paura, forse non lo ammetterai mai, anzi farai la dura. Perché non è bello leggere quello che si scrive di te in rete, non piace a nessuno.
Non è il predicozzo che voglio farti, però; non mi sono mai piaciuti i predicozzi, anche perché di solito dicono quello che si sa già. Vorrei piuttosto porti una questione. Come ne esci, adesso, da questa situazione? Perché la tua popolarità è un’arma a doppio taglio e adesso ti si è ritorta contro e farà male.
Hai due vie di uscita, mi sembra.
La prima, puoi continuare a essere così, con un moto di orgoglio e durezza. Continua a sostenere di avere ragione, che quella bastarda ti aveva rubato il ragazzo, che si meritava quel trattamento e che saresti pronta a rifarlo anche oggi. Perché ciò accada dovrai selezionare i fedelissimi, quelli che sono sulla tua stessa lunghezza d’onda, quelli che la pensano come te, quelli che ti stimano perché non ti fai mettere i piedi in testa da nessuno e sai farti rispettare, eccome se sai farti rispettare: lo hai dimostrato a tutti. La tua compagna resta una puttana, gli altri non capiscono un cazzo e non te ne fotte niente di niente.
La seconda è che inizi a studiare. Perdonami, mi sono fatto l’idea che tu sia una che non studia. Semmai smentiscimi tu. Metterti a studiare è un’ottima via di uscita. Che cosa c’entra lo studio, potresti chiedermi. Ti rispondo che c’entra, moltissimo. Pensa che c’è addirittura chi crede che lo studio non sia un dovere, ma un diritto, qualcosa che non può mancare perché se manca succedono guai. La cultura, questa parola che a volte fa storcere il naso e sembrare un po’ sfigati o perdenti, è invece il modo per comprendere meglio cosa accade, al mondo, a noi stessi e a gli altri. Devi concedermi un po’ di fiducia in questo, me ne rendo conto: devi accordarmi che studiando matematica, diritto, italiano, inglese, storia e scienze a poco a poco cambierà il modo di giudicare il reale. Non succederà subito, ci vorrà un po’.
Studiando, potresti considerare che la ragazza che ti ha soffiato il ragazzo ha forse fatto un errore, ma che anche lui in fondo c’è stato e quindi, sempre forse, non ti volev a così bene; potresti ipotizzare altri modi per risolvere la stessa questione; potresti valutare che chi la pensa e vive in modo diverso dal tuo potrebbe, qualche volta, avere ragione e così potresti provare a valutare il suo punto di vista; potresti scoprire che dagli altri puoi prendere senza rubare, che la popolarità è di chi fa stare bene le persone, non di chi le terrorizza.
Studiare serve a questo, a diventare uomini e donne migliori, dotati di giudizio, non sempre preda delle proprie emozioni. Studiare serve a porsi delle domande interessantissime: è così che voglio vivere? Chi sono quelli che chiamo amici? Che donna v oglio diventare? Non è una strada breve e facile, però è quella che ti raccomando. Per aiutarti prova a guardarti intorno da subito: il mondo è più grande di come a volte lo riduciamo, esistono modi diversi di trattarsi fra persone, così come esistono persone bellissime con cui condividere il tempo. Bellissime perché aprono orizzonti imprevedibili. Ne basta una. E questa a sua volta ti renderà più facile studiare.
Sei a un bivio adesso: solo tu puoi scegliere la strada, consideralo un momento fortunato. Ti auguro di non essere sola in questo momento. Che non ci siano solo coetanei e adulti che ti confermano sulla vecchia via o che ti disprezzano, mostrando peraltro una violenza simile a quella che ci hai fatto vedere tu. Ti auguro che ci siano invece compagni sinceri coi quali riprendere, resa più forte da questa esperienza in cui ti sei infilata e dalla quale, finalmente, riesci a intravedere un’uscita. Ti auguro di poterlo desiderare.
DISAGIO PSICHICO: 17 MILIONI DI ITALIANI NE SOFFRONO IN SILENZIO
Lavoravo alla Fiat, ero un pezzo grosso. Viaggiavo spessissimo. Poi un giorno, su un Boeing 747, ho cominciato ad ansimare, un terrore impossibile da descrivere. Mi sono aggrappato alla hostess dicendole con voce strozzata: “Muoio”. Dopo quell’episodio F. si è dovuto fermare. Tornare al suo posto era impossibile, “non riuscivo più neanche ad attraversare la strada, era come se un diagramma mi separasse dal mondo”. Poi le dimissioni, le cure per una diagnosi di depressione, un altro lavoro e un’altra vita. C., invece, era una promessa del calcio, giocava in serie B. Fino a quando arrivò la notizia che un talent scout del Milan sarebbe venuto a vedere la partita. “Crollai e fui sostituito, smisi di giocare. Per anni ho sofferto di gravi sintomi, mi sembrava che la mia vita fosse finita. Più tardi ho capito, grazie a uno psicoanalista, che avevo paura della libertà di scelta. Oggi vivo in campagna con mia moglie, sono un’altra persona”. Ancora oggi, sia F. che C., che pure si definiscono “più felici di prima”, non osano dire il loro vero nome, per il timore di essere additati come persone disturbate, malate, mal funzionanti. Eppure, come ha scritto Tahar Ben Jelloun in L’albergo dei poveri, “la depressione colpisce a caso: si tratta di una malattia, non di uno stato d’animo”. Di più, è una “malattia democratica”, per ricordare l’espressione di un grande depresso come Montanelli, trasversale al ceto sociale, nonostante la crisi l’abbia resa più insostenibile, trasversale al genere (anche i numeri sono a svantaggio delle donne: sia per la maggiore pressione sociale subita sia, però, per la maggiore facilità ad ammettere il malessere).
La malattia “democratica” Il disagio psichico, allora, è piuttosto qualcosa che ci accomuna: secondo una recente ricerca della Società Italiana di Psichiatria, sono circa diciassette milioni gli italiani con problemi di salute mentale: disturbi d’ansia, depressione, insonnia, disturbo post traumatico da stress. Problemi ai quali, come ha denunciato più volte lo stesso presidente della Sip Claudio Mencacci, non corrisponde un’offerta di cure adatte, visto che solo l’8-16% incontra professionista, e solo il 2-9% ha un trattamento adeguato, fatto di psicoterapia e farmaci. Quelli giusti, però. Perché l’altro tema che la questione della sofferenza mentale porta con sé è il grande abuso di psicofarmaci, cui gli italiani fanno sempre più ricorso: benzodiazepine, ansiolitici e ipnotici, ma anche antidepressivi, il cui uso, nell’anno in cui il Prozac compie 25 anni, è quadruplicato in dieci anni, secondo i dati del Rapporto Osservasalute 2012. Per maggiore consapevolezza, certo, ma anche a causa di prescrizioni troppo disinvolte (talvolta persino agli adolescenti, come ha segnalato un’allarmante indagine dell’Università di Torino), magari del medico di base. E poi c’è, anche, la difficoltà a trovare lo psichiatra o il terapeuta giusto. Chi si rivolge al privato, ad esempio, si trova di fronte a un professionista – in Italia ci sono circa 40.000 psicoterapeuti, e quasi altrettanti psicologi “semplici” – che di fatto viene monitorato, quando ciò accade, solo dai supervisori della scuola di appartenenza (circa 340 in Italia).
Tanta sofferenza e cure fai da te E non sempre il primo esperto trovato è quello giusto, come testimonia la vicenda di Sara, quarant’anni e due figli piccoli. Reduce da un lungo trattamento psicoanalitico fallito, dopo il quale le è stata imposta una cura di antidepressivi sbagliata per un disturbo bipolare, ha affrontato un angosciante calvario, dal quale è uscita trovando il coraggio di cambiare specialista. “Gli errori sanitari esistono anche in questo ambito”, dice. “Ma questo non vuole dire che non sia fondamentale chiedere aiuto, anzi”. Anche per Francesca, giovanissima musicista, uscire dalla sofferenza è stato “un percorso fatto di tentativi ed errori”. Lei, un talento in crescita, racconta del momento in cui tutto si è bloccato. “La cosa peggiore è sentirsi incompresa, emarginata: nel mondo dello spettacolo devi avere un’immagine invincibile. Mi ha aiutato un medico illuminato”. L’ultimo capitolo riguarda il rapporto tra la crisi e la salute mentale dei cittadini. Perché se il tema della sofferenza psichica è dimenticato dal dibattito pubblico (salvo essere riportatoin vita da casi drammatici come quello dell’uccisione a Bari della psichiatra Paola Labriola), tg e giornali da mesi raccontano la cronaca di suicidi e omicidi in maniera spesso distorta. Etichettando come suicidi da crisi tutte le morti di persone in difficoltà economica (o, viceversa, dimenticando che ci sono condizioni ambientali e sociali insostenibili, come nel caso di immigrati o carcerati). Che esista un rapporto diretto tra disoccupazione e tagli allo stato sociale e aumento del rischio di depressione, comportamenti a rischio e suicidi è ormai assodato, come mostra ad esempio l’ultimo rapporto dell’Oms Europa sulle diseguaglianze (esemplare il caso Grecia, che prima della crisi aveva il tasso di suicidi più basso d’Europa, 3 ogni 100.000 abitanti).
La patologia e la crisi “Uno stato che taglia su tutto”, sottolinea la psicoanalista Marta Tibaldi, “è simile a un genitore che perseguita invece di prendersi cura, e può riattivare vissuti traumatici infantili o aggravare modalità già fragili di rapporto con il mondo esterno”. Ma se è vero, come racconta il libro di Elena Marisol Brandolini, Morire di non lavoro (Ediesse), che la disoccupazione può uccidere, difficilmente potremo sapere cosa davvero ha spinto le circa quattromila persone che, nel 2013, in Italia, si sono tolte la vita (con casi particolarmente strazianti, come quelli dei coniugi di Civitanova Marche). Che sia un vissuto dell’infanzia o un licenziamento, di sicuro chi si uccide, come ha scritto Forster Wallace in Infinite Jest, non lo fa per motivi astratti o “perché la morte comincia a sembrare attraente”, ma nello stesso modo in cui “una persona intrappolata si butterebbe da un palazzo in fiamme”. Ed è questo che andrebbe tenuto presente. Insieme all’altro, fondamentale messaggio: che dalla depressione, e dalla sofferenza mentale, si può uscire, anzi guarire. La strada è sempre la stessa, ieri come oggi: accettare di star male e chiedere aiuto. Per trasformare l’assoluto cieco del dolore comprendendo le ragioni – antiche e nuove, biologiche, emotive e sociali – che lo hanno generato.
QUANDO LA RETE DIVENTA UNA TRAPPOLA PER GIOVANI
di Luigi Ballerini, avvenire.it, 12 febbraio 2014
Il suicidio non è mai una soluzione, semmai è proprio la decisione che preclude ogni possibile soluzione, che impedisce ogni altra mossa. Eppure alla quattordicenne di Padova che domenica scorsa si è lanciata nel vuoto mettendo fine alla sua giovane vita, quel gesto deve essere apparso come una soluzione.
Non è solo una storia di solitudine, questa, è più che una storia di solitudine. La ragazza era infatti in pessima compagnia. Già altre volte aveva manifestato le sue intenzioni sulle pagine virtuali del social network Ask.fm e proprio lì aveva incontrato coetanei che l’avevano incitata ad andare avanti, a non desistere dai suoi propositi di annientamento. Era peggio che sola, aveva compagni virtuali che le scrivevano «fai schifo come persona» e «ucciditi». Compagni anonimi, beninteso, perché Ask funziona così: tutti possono dire di tutto senza mostrare la faccia, nascondendosi dietro a uno pseudonimo. C’è la complicità di un certo modo di vivere la rete in questa morte, di alcuni utenti della rete che l’hanno utilizzata per il peggio andando a infierire su una ragazza già fragile e disorientata.
Ieri ricorreva il «Safer Internet Day», la giornata per una rete senza rischi. E proprio di uno scorretto uso di Internet da parte dei giovani si occupa il recentissimo studio che il Moige, il Movimento italiano dei genitori, insieme all’Università Lumsa ha promosso su un campione di circa mille studenti delle scuole elementari, medie e superiori. Sei ragazzi su dieci hanno ammesso di fare sexting (neologismo dato dalla combinazione di sex e texting), ossia di scambiare foto e video on line a sfondo sessuale.
Nove minori su dieci navigano in rete quotidianamente e il 18% afferma di trascorrere on line più di tre ore al giorno (con l’8% dei bambini che hanno meno di dieci anni connessi a internet per più di cinque ore). E a proposito di “compagnie” apprendiamo che il 26% dei ragazzi intervistati ha dichiarato di utilizzare la rete per fare nuove amicizie e che l’8% possiede più amicizie nel web che nella vita reale.
Tale quadro sostanzialmente conferma i dati che sono emersi dall’indagine su «Le abitudini e gli stili di vita degli adolescenti» della Società Italiana di Pediatria che dal 1997 fornisce un interessante spaccato di vita dei nostri ragazzi. L’ultimo report del 2013, che ha analizzato un campione nazionale rappresentativo di 2.081 studenti frequentanti la terza media, ha documentato che il 69% dei ragazzi si connette ogni giorno a internet e che il 17% ci passa più di tre ore. Inoltre il 79,8% ha un profilo Facebook aperto, il 21,5% ha postato in rete foto e filmati fatti da sé e l’11% ha pubblicato una immagine di sé “provocante”.
Se da una parte non possiamo vivere di anacronismi – pensando che i ragazzi non debbano stare in rete e sottovalutando le potenzialità della tecnologia – dall’altra è bene, come adulti, riflettere su ciò che sta succedendo, perché se si verificano certi comportamenti un motivo c’è e vale la pena provare a scoprirlo. I social network possono offrire ad alcuni l’illusione di non essere mai soli, e permettono di non passare per quel buon compromesso, quelle obbligazioni e quelle mediazioni che una relazione reale inevitabilmente chiede.
In Facebook è tutto immediato e in certa misura più facile: posso prendere e mollare un altro con un click, senza dover dare spiegazioni né ragioni, in modo istantaneo. In quel non-luogo che è la rete ci si può anche circondare di soggetti che la pensano esattamente come noi, evitando ogni confronto – spesso costruttivo – con chi la vede diversamente. Si elimina così il contraddittorio, il dibattito, resta solo il consenso. La ricerca di tale consenso assume poi la forma tirannica del pollice su, del “mi piace”.
Pur di collezionare il maggior numero possibile di “mi piace” da parte dei propri contatti alcuni diventano disposti a tutto, persino a postare foto e video che non vorrebbero mai veder pubblicate sulla prima pagina di un quotidiano, ma in rete sì, perché in rete si diventa più disinibiti, la mancanza di prossimità fisica risparmia l’impatto diretto con l’altro e il suo giudizio.
Assistiamo pertanto a un grande paradosso: siamo sempre più connessi per sentirci meno soli e contemporaneamente diventiamo sempre più soli. Per alcuni si genera tale circolo vizioso in cui il virtuale presso cui ci si rifugia per scampare alla solitudine diventa il fattore stesso che la promuove. Una volta fatto fuori l’altro reale della relazione, con le sue caratteristiche e i suoi connotati ben precisi, ci si accontenta anche di un altro qualunque, che persino nel pieno anonimato assume una potenza incredibile.
Pensiamo al social network Ask, che proprio dell’anonimato ha fatto la sua ragion di esistere. Come può essere importante il parere su di me da parte di chi non so nemmeno chi sia? Come posso continuare a cercare conferme? Eppure gli iscritti mondiali sono tra i 60 e i 70 milioni, con l’Italia che risulta tra i principali utilizzatori, assieme a Brasile, Turchia e Stati Uniti. Secondo cifre non ufficiali Ask pare frequentato da più di un milione di nostri adolescenti e questo numero è ancora in crescita.
Dimmi se ti piaccio, molti chiedono angosciati a un altro ignoto. Anzi, dimmi che ti piaccio. E se la sua risposta è positiva si esaltano, se negativa si deprimono, fino a forme estreme di scoraggiamento come quelle che poi diventano tristi fatti di cronaca. Ma noi siamo fatti così: non possiamo fare a meno di un altro, non possiamo prescindere dall’altro. Se non c’è – o se attivamente facciamo in modo che non ci sia – lo dobbiamo allucinare o inventare o ricercare dove sembra nascondersi.
L’aiuto ai più giovani, quando ne hanno bisogno, parte proprio da qui, dal recupero del reale, certi della sua potenza e della sua prevalenza sul virtuale. Occorre allora incoraggiare i loro passi nel reale, sostenerli, favorire la loro iniziativa e intraprendenza, mentre talora abbassiamo le loro aspettative anche noi adulti prede di una visione cinica della vita.
E se questo loro movimento fatica ad avviarsi, tocca a noi proporre e offrire prospettive e mete interessanti, luoghi reali dove poter fare esperienza del vantaggio della presenza di un altro con cui trafficare, magari anche litigare, dentro un rapporto che coinvolga tutto il corpo, fatto di sensazioni, movimenti e pensieri. Una volta presente un reale interessante e coinvolgente, il virtuale si metterà senza obiezioni al suo servizio, si sottometterà cosicché non dovremo temere più nulla. Le potenzialità verranno volte alla costruzione, non alla distruzione, e i rapporti, concreti e sensibili, ne potranno beneficiare per il meglio.
http://www.avvenire.it/Commenti/Pagine/quando-la-rete-diventa-trappola.aspx
'VISIONARI', TORNA CORRADO AUGIAS: "ECCO I PERSONAGGI CHE HANNO CAMBIATO IL MONDO"
Il giornalista condurrà su RaiTre, dal 31 marzo, un nuovo programma culturale raccontando Freud, Darwin, Marx, Santa Chiara, Beethoven, Leonardo… "E per ogni 'visionario' vedremo qual è la ricaduta del suo pensiero nell'attualità di tutti i giorni"
di Leandro Palestini, repubblica.it, 12 febbraio 2014
Corrado Augias torna in televisione, da lunedì 31 marzo su RaiTre, con un programma culturale di seconda serata intitolato "Visionari". Chi sono questi visionari? "Quelli che hanno cambiato il mondo. Freud, Darwin, Marx, ma anche Santa Chiara, Beethoven e Leonardo da Vinci", risponde Augias, che spiega: "Vogliamo raccontare quelli che hanno davvero cambiato il mondo. Naturalmente si andrà oltre la semplice biografia. Partiremo da quella che è stata la scoperta, l'intuizione del personaggio e che spesso ha costituito una frattura nella loro epoca. Quindi, per ogni "visionario" vedremo qual è la ricaduta del suo pensiero nell'attualità di tutti i giorni".
Dopo aver condotto per dieci stagioni il fortunato programma quotidiano "Le Storie-Diario italiano"(oggi condotto da Concita De Gregorio), Augias nel settembre 2012 aveva annunciato di voler lasciare la tv per dedicarsi ad altre cose. Una decisione che arriva dopo l'ultima intervista concessa da Augias a Daria Bignardi (Le invasioni Barbariche del 31 gennaio scorso), che aveva scatenato le polemiche del Movimento 5 Stelle: non gradirono i commenti all'intervista di Alessandro Di Battista nella stessa trasmissione, né le opinioni di Augias sulle gesta dei parlamentari guidati da Beppe Grillo.
Come mai Augias ha deciso di tornare proprio ora in tv? "La polemica collegata alla mia intervista a Le invasioni barbariche non c'entra. È vero che avevo detto di non voler fare più televisione dopo tanti anni. Ma il direttore di RaiTre è stato così affettuoso e insistente da convincermi ad accettare questa nuova sfida. Può sembrare velleitario, ma vogliamo fare una tv alta. Per otto puntate, di lunedì alle 23, per un'ora si parlerà di figure che hanno cambiato il mondo".
Qualche esempio? "Cercheremo di capire che cosa è successo dopo Darwin, cosa ne è del creazionismo. Parlando di Marx ci chiederemo se l'utopia comunista è stata un fallimento. Così come ci chiederemo dove è andata a finire la psicoanalisi di Freud. Le puntate saranno corredate da filmati di repertorio e da materiale girato da noi. Avremo in studio degli ospiti. Nella puntata su Freud ci sarà per esempio Umberto Galimberti. Nella serata su Marx avremo come ospite Luciano Canfora".
Wladimiro Polchi, autore del programma insieme a Davide Bandiera e Tiziana Pellegrini, sottolinea che "il regista Andrea Bevilacqua ha scelto uno studio spartano, una scenografia arricchita da gigantografie. Per inquadrare il personaggio, ogni puntata inizierà con una 'intervista impossibile' fatta da Corrado Augias al personaggio del giorno".
http://www.repubblica.it/spettacoli/tv-radio/2014/02/12/news/corrado_augias-78355092/
«IO NON HO PAURA» TRA CINEMA E PSICOANALISI TORNA IL FILM DI SALVATORES. La Cineteca nazionale propone un ricco programma di proiezioni e incontri alla Sala Trevi, a cominciare da domani con la rassegna «(In)visibile italiano: fuori dal ’77». Prima dell’evento…
di Dina D’Isa, iltempo.it, 13 febbraio 2014
Prima dell’evento «Italia ’77: ultimo atto?» (dal 20 al 28 febbraio) saranno proiettati tre film (in)visibili che si sottraggono al clima politico e sociale di quel fatidico anno per calarsi nel fiume della Storia. Si inizia alle 17 con «Un cuore semplice» di Giorgio Ferrara, storia di una «vita oscura, quella di una povera ragazza di campagna, devota senza esaltazione e tenera come un pane fresco. Ama successivamente un uomo, i figli della padrona, un nipote, poi il suo pappagallo», ha spiegato Ferrara.
Alle 19 sarà invece la volta de «Le due orfanelle» di Leopoldo Savona, ennesima versione del celeberrimo dramma teatrale di Eugène Cormon e Adolphe d’Ennery pubblicato nel 1874. Il film ebbe distribuzione limitatissima e metteva al centro il racconto di due ragazze che vanno a Parigi per migliorare la propria vita. Una è cieca e cerca la guarigione dalla sua infermità, l’altra viene invece rapita da un marchese senza scrupoli. L’ultimo film di Savona è un austero feuilleton in costume fuori tempo massimo interpretato da Isabella Savona, Patrizia Gori, Evelyn Stewart e musiche di Stelvio Cipriani. Alle 21 la serata si chiude con «La lunga strada senza polvere» di Sergio Tau, così viene ribattezzato il bel Danubio blu, protagonista dell’omonimo film dove il regista immagina due personaggi-simbolo: un capitano alle soglie della pensione e della morte e un giovane vestito in modo ottocentesco che rievoca il passato. Insieme risalgono il fiume su un vecchio rimorchiatore dal mar Nero fino a Ratisbona in Baviera.
Sabato 15 febbraio si ricomincia con«Cinema e psicoanalisi: Le forme della violenza», iniziativa avviata dalla società Psicoanalitica Italiana e il Centro Sperimentale di Cinematografia. Il tema è quello della violenza, argomento di drammatica attualità, che verrà affrontato da diverse prospettive: intrapsichiche, interpersonali, ma anche con uno sguardo collettivo e sociale. Gli aspetti aggressivi della nostra personalità, insieme a quelli sessuali, sono stati considerati dalla psicoanalisi elementi fondanti della nostra parte istintuale e inconscia: quando e perché tali livelli possano esprimersi in maniera violenta e distruttiva è uno dei fenomeni psichici più dibattuti. Parteciperanno agli incontri, introdotti e coordinati da Fabio Castriota (Membro Ordinario della Società Psicoanalitica Italiana), registi, critici e psicoanalisti della SPI.
Alle 17 sarà priettato «Cuore di mamma» di Salvatore Samperi: Lorenza, separata dal marito, vive con tre figli molto particolari, il primogenito, aiutato dalla sorella, annega il fratello minore, poi uccide la ragazzina asfissiandola col gas. La madre è troppo apatica per avere una qualsiasi reazione. Forse il film più sperimentale di Samperi, con una Carla Gravina nella parte di una madre che non parla mai e un montaggio debitore del cinema di Godard. Alle 19 è atteso «Padre padrone» di Paolo e Vittorio Taviani: tratto da un libro autobiografico (1975) di Gavino Ledda. Pastore di Siligo (Sassari), Gavino vive fino a vent’anni con il gregge tra i monti, strappato alla scuola, separato dalla lingua, escluso dalla collettività. Durante il servizio militare in continente, studia e prende la licenza liceale. Esplode allora la ribellione contro il padre che, di fatto e per necessità, è stato lo strumento della sua separazione.
La serata sarà conclusa alle 20.45 dall’incontro moderato da Fabio Castriota con Fabrizio Rocchetto e a seguire «Io non ho paura» di Gabriele Salvatores, una coinvolgente favola nera, tratta dal romanzo di Niccolò Ammaniti. I bambini non sono qui simboli d’innocenza, ma i loro giochi sono prepotenti e crudeli come gli affari sporchi degli adulti. In un bambino scatta, però, anche l’elemento salvifico, tra curiosità e spirito d’avventura, tanto da andare contro le malefatte dei suoi genitori, che il piccolo però non giudicherà, ma disobbedendo cercherà di riparare alle loro colpe.
CONCORSO PER CORTOMETRAGGI "I CORTI SUL LETTINO" – CINEMA E PSICOANALISI
di Redazione, siae.it, 14 febbraio 2014
Si terrà il 1° e 2 settembre 2014 la VI edizione del Concorso per Cortometraggi "I Corti sul Lettino – Cinema e Psicoanalisi", nell'ambito della rassegna estiva partenopea “accordi @ DISACCORDI – XV Festival del Cinema all'Aperto”. Il concorso, ideato e diretto dal critico cinematografico e psichiatra Ignazio Senatore, è rivolto ai filmaker italiani e stranieri. I cortometraggi, selezionati da una giuria qualificata composta da registi, attori, critici cinematografici, giornalisti ed operatori del settore, concorreranno per i premi: migliore cortometraggio, migliore regista, miglior sceneggiatore, migliore attore protagonista, migliore attrice protagonista, miglior documentario, miglior corto straniero e premio del pubblico per il miglior cortometraggio e, da questa edizione, migliore puntata pilota di webserie, in omaggio al nuovo formato di fiction che sta suscitando notevole interesse tra gli internauti. Ogni opera deve avere una durata massima di 30 minuti. Per i documentari è ammessa la durata fino a 60 minuti. I partecipanti dovranno inviare, entro il 31 marzo 2014, i corti alla segreteria del concorso (Movies Event – Via Salvator Rosa, 137/E – 80129 Napoli), allegandoli alla scheda d’iscrizione, scaricabile dal sito www.cinemaepsicoanalisi.com.
Per informazioni: igsenat@tin.it.
http://www.siae.it/edicola.asp?view=4&open_menu=yes&id_news=13607
GRAZIE AL WEB LA PSICOANALISI DIVENTA POP
di Sara Cambioli, ferraraitalia.it, 14 febbraio 2014*
Sappiamo che il web è stato e continua ad essere dirompente in tutti o quasi gli ambiti della vita umana in cui s’insinua, ma il fatto che abbia rotto le rigide divisioni tra gli psicoanalisti ne è la conferma più eclatante. SpiWeb, sito della Società Psicoanalitica Italiana, è un sito vivacissimo e molto articolato che in poco tempo ha scalato le classifiche dei motori di ricerca, ha avvicinato e fatto dialogare sia psicoanalisti appartenenti a scuole diverse, sia addetti ai lavori e gente comune. Il sito presenta, infatti, alla sezione Dibattiti teorico-clinici / Prospettive a confronto, dibattiti aperti in cui si può intervenire direttamente: l’analista ferrarese può confrontarsi con il collega israeliano piuttosto che con l’australiano, e questo perché il sito sta avendo talmente tanto seguito che gran parte dei contenuti vengono tradotti in lingua inglese e francese. Ricche ed interessanti sono anche le vetrine di Cultura, Libri, Video con indicazioni utilissime per insegnanti e formatori di scuole di ogni ordine e grado, per educatori e operatori dei Servizi per le famiglie, Servizi per l’infanzia e Salute donna, o anche semplicemente per noi genitori costantemente preoccupati e ansiosi. Ma più di tutto colpisce la ricchezza della sezione Cinema, in cui oltre ad un’accurata rassegna di film completi di trailer, trama e recensione, si trova la particolare Versione dello psicoanalista che, a partire dalla pellicola, guida ad una riflessione su di sé; queste del cinema solo le pagine in assoluto più visitate, In Sala ha 12.000 accessi al mese!
SpiWeb nasce nel 2005 con un taglio molto istituzionale e una struttura organizzata per argomenti, in modo piuttosto rigido e accademico. Già nel 2009, con l’Esecutivo di Romolo Petrini, il sito si apre con l’intento programmatico di comunicare ad un pubblico più vasto, utilizzando il linguaggio della gente e i nuovi strumenti della comunicazione. Infine, nel 2013, il sito viene radicalmente rivoluzionato sotto la Direzione di Jones De Luca che rompe definitivamente ogni schema, superando la rigida divisione per argomenti e organizzando i contenuti come in un’enciclopedia, con un’attenzione particolare a rendere gli argomenti ricercati facilmente rintracciabili dai motori di ricerca, quelli specifici come quelli di interesse più comune. Al telefono la dottoressa De Luca racconta con entusiasmo la sua “creatura”, e spiega che il sito sta avendo un grandissimo impatto perché ha accettato la sfida delle nuove tecnologie: apertura al web con la possibilità di confronti tra specialisti on line, caricamento di contributi audio e video aggiornati; poi la creazione di Spipedia – Piccola enciclopedia aperta della psicoanalisi che si arricchisce nel tempo di nuove voci e di costanti contributi; e ancora, incontri con grandi personaggi della cultura, del pensiero, ma anche con registi, blogger, industriali, intervistati in modo particolare, chiedendo loro di raccontare i momenti difficili che hanno attraversato nella vita, facendone quindi emergere il lato umano. Le pagine dei Dossier, che contano un grande apporto di interventi femminili, affrontano temi delicatissimi come l’abuso del corpo della donna, i “brutti pensieri delle mamme”, spesso relegati nel ristretto ambito della cronaca, con l’intento di produrre una buona informazione su quella che è la salute mentale della popolazione.
La redazione di Spiweb si presenta come una straordinaria macchina per la comunicazione: il gruppo è ben nutrito e scopriamo con ulteriore sorpresa che, oltre alle figure classiche del comunicatore scientifico e di chi si occupa di Ricerca e Magazine, c’è l’addetto che si dedica all’Outreach (Cinema, Facebook, Twitter, Linkedin, Eventi) e l’addetto ai Video (Videointerviste, Psicoanalisi in video, Analisti con la cinepresa, Videoteca). Il sito diventa straordinariamente all’avanguardia tanto da essere preso come modello addirittura dall’Ipa (International pshycoanalythical association) ossia dall’associazione che sovrasta il panorama internazionale della psicoanalisi e che, guarda caso, lo scorso agosto ha eletto a dirigere il proprio sito l’italianissimo Romolo Petrini alla guida di una Web task force che, come si legge in un recente comunicato ai propri associati, ha il primario obiettivo di sviluppare “a new, wide-reaching communication plan” ossia “un nuovo piano di comunicazione ad ampio raggio”, e aggiunge: “Noi desideriamo attivare e incoraggiare i membri a prendere parte attivamente alla vita istituzionale della Associazione, utilizzando gli strumenti che il web offre”. In un’intervista a Rai Educational Filosofia, la De Luca racconta un fatto molto significativo: in occasione di un recente convegno internazionale, alla domanda “Cosa ne pensate delle sedute via Skype?”, la maggior parte degli psicoanalisti intervistati da Spiweb ha risposto “Dobbiamo studiare questo mezzo, la psicanalisi in rete la facciamo già!”. Con Spiweb si è quindi andati oltre ogni immaginabile evoluzione della rete, ed è già da un po’ che nell’ambiente ci si sta chiedendo: se Freud fosse vivo, avrebbe il profilo Facebook?
*Articolo segnalato da spiweb.it
http://www.ferraraitalia.it/grazie-al-web-la-psicoanalisi-diventa-pop-3840.html
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4379&catid=726&Itemid=353
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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