MORTO UN SIMBOLO DEL FEMMINISMO
di Redazione, ilsecoloxix.it, 22 febbraio 2014
Il femminismo – e non soltanto quello francese – perde una figura simbolo. La psicanalista Antoinette Fouque, cofondatrice del Movimento di Liberazione della Donna (Mlf), ex eurodeputato, è morta a Parigi nella notte tra mercoledì e giovedì a 77 anni. La nascita del Mlf, nel 1970, parte da una costatazione molto semplice: gli ambienti rivoluzionari del maggio ’68 francese sono maschilisti, ed occorre reagire «contro il machismo del movimento studentesco», attraverso «una liberazione gioiosa». Il movimento nasce per l’esattezza il 26 agosto 1970, in occasione di una piccola manifestazione sotto l’arco di trionfo degli Champs Elysées, organizzata in omaggio alla moglie del milite ignoto. Nel 1971 Fouque è una delle 343 firmatarie del manifesto per il diritto all’aborto, allora proibito e severamente represso in Francia. Nel 1973 fonda le Edizioni della donna (Edf). Allieva di Roland Barthes, segue una psicanalisi con Jacques Lacan, da cui prende però le distanze nel suo gruppo Psicanalisi e Politica, una delle correnti di spicco del femminismo francese. La sua teoria è molto semplice : «Il y a deux séxes», esistono due sessi. Contrariamente a Sigmund Freud (e anche a Lacan), Fouque rifiuta le teoria secondo la quale c’è soltanto una libido di origine maschile, che nella donna si manifesta con l’invidia del pene. Criticando il fallocentrismo di Freud la psicanalista femminista sostiene che esiste ovviamente una libido femminile, da lei definita uterina.
Dopo aver litigato con Lacan, Fouque lascia la Francia e va in esilio negli Stati Uniti per diversi anni. A San Diego, California, presiede l’Alliance Francaise, l’equivalente dei nostri Istituti di cultura. Nata a Marsiglia il primo ottobre 1936, proprio a Marsiglia e poi a Parigi e Lione apre tre librerie «Delle donne», dirige il Quotidiano delle donne (1974) e poi «Donne in movimento» (1978-1982). Diventata psicanalista, a partire dagli anni ’90 si impegna anche in politica e riceve numerose onorificenze, tra cui quella di Comandante della Legione d’Onore. Deputata europea (Radicale) dal 1994 al 1999 con l’industriale Bernard Tapie, Fouque è stata oltre che insegnante, anche critico letterario e traduttrice, in particolare ai Cahiers du Sud e alla Quinzaine litteraire. A Strasburgo è stata tra l’altro vicepresidente della commissione per i diritti della donna e delegata dell’Ue alla Conferenza mondiale della donna di Pechino nel 1995.
http://www.ilsecoloxix.it/p/mondo/2014/02/22/AQ4LoisB-morto_femminismo_simbolo.shtml
ATTENTI A JULIA DECK E A DOVE LA LEGGERETE
di Giacomo Galanti, huffingtonpost.it, 23 febbraio 2014
Sedetevi comodi in poltrona, tranquilli e senza pensieri. Ora potete cominciare a leggere l’esordio narrativo della francese Julia Deck, che prende il titolo dal nome della protagonista Viviane Élisabeth Fauville (Adelphi, 129 pp, 15 euro). Non fatelo in metropolitana o in qualche sala d’attesa: altrimenti rischiate di farvi invadere dall’angoscia, l’altra figura fondamentale del romanzo. Questa opera prima è infatti la cronaca di una vita angosciata. L’angoscia è quella di Viviane, con il suo gelido vuoto esistenziale che si dilata in modo irreversibile fino a diventare follia. No, non si tratta di una storia noir. Almeno non lo è in senso proprio, anche perché chi è l’assassino ci viene rivelato dopo poche pagine. La vittima di Viviane è il suo psicanalista. I fatti si svolgono a Parigi, ma in questo caso la ville lumière potrebbe essere qualsiasi altra grande città occidentale. Dove il centro storico è diventato un luogo asettico a esclusiva disposizione delle classi alte e dei turisti. Mentre la periferia, sempre più grande e sconfinata, si trasforma in un agglomerato di culture, sorta di grigia terra di nessuno che spaventa chi, come la protagonista, ci si ritrova dentro senza comprendere il perché. Viviane ha 42 anni ed è la responsabile comunicazione di un azienda molto importante. Ha una figlia di pochi mesi e un marito, ingegnere del genio civile, che l’ha appena lasciata. L’abbandono da parte del coniuge è l’ultimo colpo al travaglio interno della donna. Dopo l’omicidio del suo psicanalista la donna entrerà in un labirinto di allucinazioni descritto con un linguaggio secco, quasi da cronaca nera. Venendo a contatto con le persone più vicine alla vittima, la protagonista cercherà di trovare un motivo al suo gesto. La storia è narrata da più punti di vista. Quello in prima persona di Viviane, smarrito e confuso e la seconda persona che forse nelle intenzioni dell’autrice vuole essere una voce critica, ma è riuscita fino a un certo punto. Poi c’è la versione del narratore. Il romanzo si legge comunque senza difficoltà, con la curiosità che cresce ad ogni pagina per sapere come la donna risolverà la sua provvisoria condizione. La scrittrice Deck, che ha lavorato per anni a New York nel settore dell’editoria, ha qualche debito con la letteratura americana e soprattutto con le vite alla deriva create dalle penne di Jay McInerney e Bret Easton Ellis. Proprio del primo riprende la seconda persona singolare utilizzata nel mai abbastanza celebrato esordio del 1984, Le mille luci di New York. Di Ellis cita invece certe atmosfere surreali di American Psycho. Un altro autore di cui si sente l’influenza è il connazionale Michel Houellebecq, soprattutto del nichilismo di Estensione del dominio della lotta. Non vi sono dubbi: se amate questi autori, Viviane Élisabeth Fauville deve entrare a far parte della vostra biblioteca.
http://www.huffingtonpost.it/giacomo-galanti/attenti-a-julia-deck-e-a-dove-la-leggerete_b_4823338.html?utm_hp_ref=tw
Sedetevi comodi in poltrona, tranquilli e senza pensieri. Ora potete cominciare a leggere l’esordio narrativo della francese Julia Deck, che prende il titolo dal nome della protagonista Viviane Élisabeth Fauville (Adelphi, 129 pp, 15 euro). Non fatelo in metropolitana o in qualche sala d’attesa: altrimenti rischiate di farvi invadere dall’angoscia, l’altra figura fondamentale del romanzo. Questa opera prima è infatti la cronaca di una vita angosciata. L’angoscia è quella di Viviane, con il suo gelido vuoto esistenziale che si dilata in modo irreversibile fino a diventare follia. No, non si tratta di una storia noir. Almeno non lo è in senso proprio, anche perché chi è l’assassino ci viene rivelato dopo poche pagine. La vittima di Viviane è il suo psicanalista. I fatti si svolgono a Parigi, ma in questo caso la ville lumière potrebbe essere qualsiasi altra grande città occidentale. Dove il centro storico è diventato un luogo asettico a esclusiva disposizione delle classi alte e dei turisti. Mentre la periferia, sempre più grande e sconfinata, si trasforma in un agglomerato di culture, sorta di grigia terra di nessuno che spaventa chi, come la protagonista, ci si ritrova dentro senza comprendere il perché. Viviane ha 42 anni ed è la responsabile comunicazione di un azienda molto importante. Ha una figlia di pochi mesi e un marito, ingegnere del genio civile, che l’ha appena lasciata. L’abbandono da parte del coniuge è l’ultimo colpo al travaglio interno della donna. Dopo l’omicidio del suo psicanalista la donna entrerà in un labirinto di allucinazioni descritto con un linguaggio secco, quasi da cronaca nera. Venendo a contatto con le persone più vicine alla vittima, la protagonista cercherà di trovare un motivo al suo gesto. La storia è narrata da più punti di vista. Quello in prima persona di Viviane, smarrito e confuso e la seconda persona che forse nelle intenzioni dell’autrice vuole essere una voce critica, ma è riuscita fino a un certo punto. Poi c’è la versione del narratore. Il romanzo si legge comunque senza difficoltà, con la curiosità che cresce ad ogni pagina per sapere come la donna risolverà la sua provvisoria condizione. La scrittrice Deck, che ha lavorato per anni a New York nel settore dell’editoria, ha qualche debito con la letteratura americana e soprattutto con le vite alla deriva create dalle penne di Jay McInerney e Bret Easton Ellis. Proprio del primo riprende la seconda persona singolare utilizzata nel mai abbastanza celebrato esordio del 1984, Le mille luci di New York. Di Ellis cita invece certe atmosfere surreali di American Psycho. Un altro autore di cui si sente l’influenza è il connazionale Michel Houellebecq, soprattutto del nichilismo di Estensione del dominio della lotta. Non vi sono dubbi: se amate questi autori, Viviane Élisabeth Fauville deve entrare a far parte della vostra biblioteca.
http://www.huffingtonpost.it/giacomo-galanti/attenti-a-julia-deck-e-a-dove-la-leggerete_b_4823338.html?utm_hp_ref=tw
SETTING ANALITICO CON L’IRRUZIONE DI UN PUGNALE. Esordi francesi. In una Parigi dettagliatamente inchiodata alle sue prospettive, un noir popolato dalle voci dell’assassina, ex paziente della sua vittima
di Isabella Mattazzi, ilmanifesto.it, 23 febbraio 2014
Del tutto sbilanciata nel gioco degli equilibri tra i suoi due elementi costitutivi, la coppia formata da uno psicoanalista e dal suo paziente è tuttavia funzionale al processo di cura; ma se a un certo punto uno dei due soggetti vene a mancare? Cosa succede se il paziente di punto in bianco decide di uccidere il proprio analista durante una seduta e lo elimina dalla propria vita – dalla vita in generale – con un colpo di coltello ben assestato tra cuore e polmone? Ha inizio così, con tutta l’evidenza di una riproposizone dei classici giochi di ruolo, prima ancora che di un atto contro la legge, Viviane Élisabeth Fauville, romanzo di esordio di Julia Deck, uscito in Francia per le Éditions Minuit nel 2012 e proposto oggi in Italia da Adelphi nella traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco (pp. 130, euro 15,00).
Viviane Élisabeth Fauville è un libro costruito su una sparizione: prima ancora che di una presenza fisica, di una voce a alto contenuto evocativo, il dottor Jacques Sergent, figura autorevole-autoritaria perfino nel nome, «Sergente» appunto, ucciso un certo lunedì 16 novembre, come ammesso dalla sua stessa paziente Viviane Élisabeth Fauville, coniugata Hermant. Fin dalle prime pagine, il libro si mostra così nella cruda realtà di una sottrazione improvvisa. Eliminato quello che Lacan chiamava il «soggetto-supposto-sapere», della coppia rimane soltanto l’elemento debole, il soggetto-dichiarato-non sapere. Viviane, improvvisamente perso il contrappeso ai suoi affanni che la teneva in equilibrio, si ritrova ora faccia a terra, schiantata da quella sorta di guazzabuglio magmatico e incoerente che sembra essere il suo io.
Donna alto-borghese fornita di tutti i cliché del caso – ottima posizione manageriale in un’azienda di cementi, con una bambina nata da poco, sposata a un uomo tanto bello quanto narciso che ovviamente la tradisce appena può, nevrotica di lusso in cura da uno tra i più brillanti psicoanalisti di Parigi – si ritrova nei panni di un’assassina. La sua instabilità psichica, prima tenuta sotto controllo a colpi di pillole bianche e blu, è ora libera di esprimersi nella propria grazia disarmonica. Jacques Sergent morto, pillole sospese, adesso Viviane è sola di fronte a se stessa. Analista steso a terra, chiazza di sangue a macchiare il pavimento, Viviane-personaggio ha ora pieno campo libero, intere pagine di fronte a sé per fare esattamente tutto ciò che vuole. Se infatti l’analista è stato fatto fuori, anche l’autore Julia Deck (altra presenza forte, altro «soggetto-supposto-sapere» di una coppia altrettanto sbilanciata come quella composta dall’autore e dal suo personaggio) è apparentemente stata fatta fuori dalla protagonista del suo libro.
Sembra esserci uno spazio ridotto al minimo, in questo romanzo, per un narratore onnisciente, non sembra esistere respiro per alcuna voce esterna che sappia, veda, descriva la «verità» dei fatti. Capitolo per capitolo, l’io narrante, l’io di Viviane, scivola in un continuo slittamento di senso, in un inarrestabile trascolorare di voci pronominali che con ogni evidenza sono la rifrazione di un’unica mente scissa. Viviane parla in prima persona singolare, ma anche in seconda e in prima persona plurale. Si dà ora del noi, ora del tu, ora del vous (corrispondente del lei italiano) che altro non è che il vous dell’analisi, la distanza sintattica tra analista e paziente e di cui adesso Viviane si è appropriata, sdoppiandosi, diventando medico e «sergente» di se stessa (doveroso segnalare il virtuosismo stilistico del lavoro di traduzione che è riuscito magistralmente a rendere in italiano tutta la bellezza ambigua del testo). Viviane Élisabeth Fauville, in sintesi è lo svolgersi, pagina dopo pagina, del discorso di una personalità nevrotica, o meglio di una personalità nevrotica costruita sopra evidenti nuclei psicotici, dal momento che lo sdoppiamento delle voci, la presenza di apparizioni fantasmatiche (una su tutti la madre, morta anni prima) aprono ben presto il testo sull’abisso della follia clinica vera e propria.
Viviane si muove cercando di mettere insieme i pezzi di un io completamente scisso. Il suo linguaggio scomposto è un linguaggio fatto di voci plurime. Le voci plurime cercano di cancellare le prove, si fanno interrogare dalla polizia, odiano il loro analista e il suo ricordo, pedinano gli altri sospettati, tendono trappole e poi vanno a fare la spesa al Monoprix come se nulla fosse. Le voci spesso discordano tra loro sulla considerazione dei piccoli particolari, sull’orario di certi avvenimenti, sulla posizione di certi oggetti. Nella loro pluralità, le voci non ce la fanno a reggere il peso del delitto e alla fine crollano, dichiarandosi vinte, facendosi rinchiudere nel reparto psichiatrico dell’ospedale accanto al Palazzo di Giustizia e sedate di nuovo a forza di pillole e iniezioni. Intorno a queste voci e al loro continuo liquefarsi l’una nell’altra, una Parigi al contrario maniacalmente definita nell’esattezza della sua realtà geografica, nel computo delle fermate del metro, nel percorso degli autobus, nel susseguirsi e incrociarsi delle strade, sempre enunciato, sempre preciso al millimetro. Se da una parte Mme Fauville (ancora una volta un «nome parlante», composto da faux-falso e ville-città) scivola, si perde nei meandri instabili e continuamente mutevoli della propria cittadella identitaria, dall’altra la «città vera», Parigi, è un luogo reale, tangibile, fatto di elenchi di piazze e boulevards, di negozi, di palazzi, di appartamenti, di oggetti.
Il linguaggio di Julia Deck è di una precisione descrittiva, di un’esattezza gelida che rimanda alla puntualità di un catalogo tecnico. I mobili della cucina di Viviane, l’arma del delitto («un coltello Zwilling J.A. Henckels, collezione Twin Profection, modello Santoku»), la poltrona su cui siede l’analista, sono perfetti, limpidi oggetti che emergono dalla pagina nella loro esattezza senza ombre, nelle prepotenza della propria evidenza materica. Nessun problema li riguarda. Gli oggetti, la città di Parigi conoscono un ordine rigoroso, una collocazione, una propria «verità», al contrario di Viviane che di questa verità non sa che fare, anzi che questa verità la teme, così come ha paura delle piastrelle bianche della fermata del metro République. Piastrelle improvvisamente giganti, mostruose, così grandi da confondere del tutto il suo campo visivo, da mangiarle gli occhi. Il problema sta dunque tutto nella sua posizione di soggetto cieco, così cieco da non riuscire a tenere sotto controllo visivo la realtà che la circonda. Il problema sta nel suo essere soggetto-dichiarato-non sapere, un soggetto dallo sguardo straniato, così straniato e ritorto sul mondo da conferire a chi sembra rivendicarne un qualche possesso una grandezza e una profondità via via sempre più evidenti. Al paragone di questa protagonista tanto straniata, tutti gli altri personaggi appaiono del tutto scialbi e senza spessore. L’io di lei è così contorto da riuscire a ingannare tutti gli altri che le stanno intorno, mettendoli in trappa tutti, compresa la polizia. E, alla fin fine ingannerà persino il lettore.
http://ilmanifesto.it/setting-analitico-con-lirruzione-di-un-pugnale/
Del tutto sbilanciata nel gioco degli equilibri tra i suoi due elementi costitutivi, la coppia formata da uno psicoanalista e dal suo paziente è tuttavia funzionale al processo di cura; ma se a un certo punto uno dei due soggetti vene a mancare? Cosa succede se il paziente di punto in bianco decide di uccidere il proprio analista durante una seduta e lo elimina dalla propria vita – dalla vita in generale – con un colpo di coltello ben assestato tra cuore e polmone? Ha inizio così, con tutta l’evidenza di una riproposizone dei classici giochi di ruolo, prima ancora che di un atto contro la legge, Viviane Élisabeth Fauville, romanzo di esordio di Julia Deck, uscito in Francia per le Éditions Minuit nel 2012 e proposto oggi in Italia da Adelphi nella traduzione di Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco (pp. 130, euro 15,00).
Viviane Élisabeth Fauville è un libro costruito su una sparizione: prima ancora che di una presenza fisica, di una voce a alto contenuto evocativo, il dottor Jacques Sergent, figura autorevole-autoritaria perfino nel nome, «Sergente» appunto, ucciso un certo lunedì 16 novembre, come ammesso dalla sua stessa paziente Viviane Élisabeth Fauville, coniugata Hermant. Fin dalle prime pagine, il libro si mostra così nella cruda realtà di una sottrazione improvvisa. Eliminato quello che Lacan chiamava il «soggetto-supposto-sapere», della coppia rimane soltanto l’elemento debole, il soggetto-dichiarato-non sapere. Viviane, improvvisamente perso il contrappeso ai suoi affanni che la teneva in equilibrio, si ritrova ora faccia a terra, schiantata da quella sorta di guazzabuglio magmatico e incoerente che sembra essere il suo io.
Donna alto-borghese fornita di tutti i cliché del caso – ottima posizione manageriale in un’azienda di cementi, con una bambina nata da poco, sposata a un uomo tanto bello quanto narciso che ovviamente la tradisce appena può, nevrotica di lusso in cura da uno tra i più brillanti psicoanalisti di Parigi – si ritrova nei panni di un’assassina. La sua instabilità psichica, prima tenuta sotto controllo a colpi di pillole bianche e blu, è ora libera di esprimersi nella propria grazia disarmonica. Jacques Sergent morto, pillole sospese, adesso Viviane è sola di fronte a se stessa. Analista steso a terra, chiazza di sangue a macchiare il pavimento, Viviane-personaggio ha ora pieno campo libero, intere pagine di fronte a sé per fare esattamente tutto ciò che vuole. Se infatti l’analista è stato fatto fuori, anche l’autore Julia Deck (altra presenza forte, altro «soggetto-supposto-sapere» di una coppia altrettanto sbilanciata come quella composta dall’autore e dal suo personaggio) è apparentemente stata fatta fuori dalla protagonista del suo libro.
Sembra esserci uno spazio ridotto al minimo, in questo romanzo, per un narratore onnisciente, non sembra esistere respiro per alcuna voce esterna che sappia, veda, descriva la «verità» dei fatti. Capitolo per capitolo, l’io narrante, l’io di Viviane, scivola in un continuo slittamento di senso, in un inarrestabile trascolorare di voci pronominali che con ogni evidenza sono la rifrazione di un’unica mente scissa. Viviane parla in prima persona singolare, ma anche in seconda e in prima persona plurale. Si dà ora del noi, ora del tu, ora del vous (corrispondente del lei italiano) che altro non è che il vous dell’analisi, la distanza sintattica tra analista e paziente e di cui adesso Viviane si è appropriata, sdoppiandosi, diventando medico e «sergente» di se stessa (doveroso segnalare il virtuosismo stilistico del lavoro di traduzione che è riuscito magistralmente a rendere in italiano tutta la bellezza ambigua del testo). Viviane Élisabeth Fauville, in sintesi è lo svolgersi, pagina dopo pagina, del discorso di una personalità nevrotica, o meglio di una personalità nevrotica costruita sopra evidenti nuclei psicotici, dal momento che lo sdoppiamento delle voci, la presenza di apparizioni fantasmatiche (una su tutti la madre, morta anni prima) aprono ben presto il testo sull’abisso della follia clinica vera e propria.
Viviane si muove cercando di mettere insieme i pezzi di un io completamente scisso. Il suo linguaggio scomposto è un linguaggio fatto di voci plurime. Le voci plurime cercano di cancellare le prove, si fanno interrogare dalla polizia, odiano il loro analista e il suo ricordo, pedinano gli altri sospettati, tendono trappole e poi vanno a fare la spesa al Monoprix come se nulla fosse. Le voci spesso discordano tra loro sulla considerazione dei piccoli particolari, sull’orario di certi avvenimenti, sulla posizione di certi oggetti. Nella loro pluralità, le voci non ce la fanno a reggere il peso del delitto e alla fine crollano, dichiarandosi vinte, facendosi rinchiudere nel reparto psichiatrico dell’ospedale accanto al Palazzo di Giustizia e sedate di nuovo a forza di pillole e iniezioni. Intorno a queste voci e al loro continuo liquefarsi l’una nell’altra, una Parigi al contrario maniacalmente definita nell’esattezza della sua realtà geografica, nel computo delle fermate del metro, nel percorso degli autobus, nel susseguirsi e incrociarsi delle strade, sempre enunciato, sempre preciso al millimetro. Se da una parte Mme Fauville (ancora una volta un «nome parlante», composto da faux-falso e ville-città) scivola, si perde nei meandri instabili e continuamente mutevoli della propria cittadella identitaria, dall’altra la «città vera», Parigi, è un luogo reale, tangibile, fatto di elenchi di piazze e boulevards, di negozi, di palazzi, di appartamenti, di oggetti.
Il linguaggio di Julia Deck è di una precisione descrittiva, di un’esattezza gelida che rimanda alla puntualità di un catalogo tecnico. I mobili della cucina di Viviane, l’arma del delitto («un coltello Zwilling J.A. Henckels, collezione Twin Profection, modello Santoku»), la poltrona su cui siede l’analista, sono perfetti, limpidi oggetti che emergono dalla pagina nella loro esattezza senza ombre, nelle prepotenza della propria evidenza materica. Nessun problema li riguarda. Gli oggetti, la città di Parigi conoscono un ordine rigoroso, una collocazione, una propria «verità», al contrario di Viviane che di questa verità non sa che fare, anzi che questa verità la teme, così come ha paura delle piastrelle bianche della fermata del metro République. Piastrelle improvvisamente giganti, mostruose, così grandi da confondere del tutto il suo campo visivo, da mangiarle gli occhi. Il problema sta dunque tutto nella sua posizione di soggetto cieco, così cieco da non riuscire a tenere sotto controllo visivo la realtà che la circonda. Il problema sta nel suo essere soggetto-dichiarato-non sapere, un soggetto dallo sguardo straniato, così straniato e ritorto sul mondo da conferire a chi sembra rivendicarne un qualche possesso una grandezza e una profondità via via sempre più evidenti. Al paragone di questa protagonista tanto straniata, tutti gli altri personaggi appaiono del tutto scialbi e senza spessore. L’io di lei è così contorto da riuscire a ingannare tutti gli altri che le stanno intorno, mettendoli in trappa tutti, compresa la polizia. E, alla fin fine ingannerà persino il lettore.
http://ilmanifesto.it/setting-analitico-con-lirruzione-di-un-pugnale/
HANNO UCCISO L’ANALISTA: L’ESORDIO DI JULIA DECK. Carrère, Dugain e ora Deck. Ad accomunarli, la lingua, il francese, e una passione per gli episodi di uccisioni violente, le menti labili degli assassini o presunti tali, le motivazioni che stanno in fondo e che, con la loro scrittura, si ripropongono di dissotterrare
di Laura Pezzino, bookful.vanityfair.it, 24 febbraio 2014
Ho incontrato Julia Deck, 39 anni, parigina e gentile, al Festival de la Fiction Française dove ha presentato il suo romanzo di esordio, Viviane Élisabeth Fauville (Adelphi, pagg. 131, 15 euro; traduzione Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco). Snello noir psicanalitico, segue per le vie e i sotterranei del metro parigino la Viviane del titolo, rea di avere accoltellato il proprio psicanalista in un momento di confusione mentale dovuta, probabilmente, al cosiddetto baby blues. da qualche mese, infatti, la donna ha dato alla luce una bambina e, quasi in contemporanea, è stata lasciata dal marito. Tutto qui? No, perché, trattandosi di un noir, le cose non sono mai esattamente quelle che appaiono.
Deck, nel suo libro traccia una mappa molto precisa del metro di Parigi. Perché ha deciso di ambientare gran parte della sua storia sottoterra?
«Vivian vive in una situazione di estremo isolamento, per cui i soli rapporti che ha sono con la figlia neonata e con la città. Inoltre, poiché molti hanno di Parigi un’immagine estremamente turistica e romanzesca, volevo creare una specie di contrappunto a questo cliché e fare vedere la vera vita quotidiana dei parigini. Che si svolge, appunto, nel metro».
Viviane è sempre in movimento: a parte i momenti in cui sta seduta sulla sedia a dondolo con la sua bambina, cammina incessantemente, sopra e sotto terra. Che significato ha?
«Si tratta di una specie di angoscia dell’immobilità, che è poi un’angoscia della morte. C’è una leggenda sugli squali per cui si dice che possano respirare solo mentre si muovono. Forse è solo una leggenda, ma mi è rimasta in mente. Mi sono accorta che effettivamente i miei personaggi si muovono costantemente quando, a un certo punto, mi son trovata a corto di sinonimi: cammina, avanza, raggiunge, eccetera».
Anche a lei piace camminare?
«Quando ero studentessa camminavo moltissimo. E anche quando scrivo ho bisogno di andare sempre avanti: scrivo, scrivo, non riesco a stare seduta e pensare a cosa scrivere, preferisco andare avanti con la storia. Poi, dopo, correggerò».
Nel romanzo c’è un altro movimento: punto di vista e voce narrante cambiano spesso. Lei ha utilizzato la prima persona singolare, la seconda, la terza, e anche il noi, e il voi. Questi cambiamenti corrispondono a cambiamenti di stati mentali? E in quale punto di vista si è sentita più a suo agio?
«Non è stata una scelta preventiva. Avanzando nella scrittura, ho sentito che la classica terza persona non andava bene per ogni situazione. Quando Viviane viene interrogata dalla polizia il lei va bene, ma quando riflette è meglio il voi. In realtà, il momento di massima goduria per me è stato quando ho detto “io” al posto di un’altra persona».
È una fan del genere noir?
«I noir mi piacciono, come a tutti piacciono le storie misteriose. In realtà, io sapevo l’inizio e la fine del mio romanzo. Non quello che ci sarebbe stato in mezzo. Ho optato per il noir perché ha dei punti di riferimento molto precisi, i poliziotti, gli interrogatori, eccetera, e perché non volevo annoiarmi né annoiare i lettori».
Descrive molto bene il rapporto tra il paziente e lo psicanalista. Ha studiato psicologia o ha avuto un’esperienza personale di analisi?
«Da anni sono un’ottima cliente degli psicanalisti parigini, ma da qualche tempo lo faccio più per superstizione, come vado a fare ginnastica vado a fare l’analisi. Quando ho iniziato il libro avevo incominciato a studiare psicologia, e questo è stato molto utile come base per la storia».
Quali sono i suoi numi letterari?
«Ho studiato alla Sorbona dove la letteratura si “ferma” agli anni ’30 del Novecento. Mentre scrivevo questo libro, sentendomi molto sola, ho sentito il bisogno di circondarmi di una serie di scrittori che mi venissero in aiuto. Così ho scoperto gli scrittori pubblicati dal mio editore, Les éditions de minuit, tra cui Jean Echenoz e Jean-Philippe Toussaint. Quando mi bloccavo, mi chiedevo come avrebbero fatto loro».
Ci consiglia un libro che le è piaciuto di recente?
«Amo leggere libri che trovo difficili. In questo periodo sto facendo soprattutto letture funzionali alle cose a cui sto lavorando, perciò ho trovato molto bello un libro di Jean Rolin che si intitola Ormuz, uscite alla fine dell’anno scorso in Francia, dove l’autore non fa che descrivere i movimenti delle navi che transitano nel porto di Hormuz nella penisola arabica. Ora sto leggendo Claude Simon, premio Nobel, che ha una scrittura molto prustiana. Quando sono stanca, invece, leggo dei noir in inglese».
http://bookfool.vanityfair.it/2014/02/24/hanno-ucciso-lanalista-lesordio-di-julia-deck/
Ho incontrato Julia Deck, 39 anni, parigina e gentile, al Festival de la Fiction Française dove ha presentato il suo romanzo di esordio, Viviane Élisabeth Fauville (Adelphi, pagg. 131, 15 euro; traduzione Lorenza Di Lella e Giuseppe Girimonti Greco). Snello noir psicanalitico, segue per le vie e i sotterranei del metro parigino la Viviane del titolo, rea di avere accoltellato il proprio psicanalista in un momento di confusione mentale dovuta, probabilmente, al cosiddetto baby blues. da qualche mese, infatti, la donna ha dato alla luce una bambina e, quasi in contemporanea, è stata lasciata dal marito. Tutto qui? No, perché, trattandosi di un noir, le cose non sono mai esattamente quelle che appaiono.
Deck, nel suo libro traccia una mappa molto precisa del metro di Parigi. Perché ha deciso di ambientare gran parte della sua storia sottoterra?
«Vivian vive in una situazione di estremo isolamento, per cui i soli rapporti che ha sono con la figlia neonata e con la città. Inoltre, poiché molti hanno di Parigi un’immagine estremamente turistica e romanzesca, volevo creare una specie di contrappunto a questo cliché e fare vedere la vera vita quotidiana dei parigini. Che si svolge, appunto, nel metro».
Viviane è sempre in movimento: a parte i momenti in cui sta seduta sulla sedia a dondolo con la sua bambina, cammina incessantemente, sopra e sotto terra. Che significato ha?
«Si tratta di una specie di angoscia dell’immobilità, che è poi un’angoscia della morte. C’è una leggenda sugli squali per cui si dice che possano respirare solo mentre si muovono. Forse è solo una leggenda, ma mi è rimasta in mente. Mi sono accorta che effettivamente i miei personaggi si muovono costantemente quando, a un certo punto, mi son trovata a corto di sinonimi: cammina, avanza, raggiunge, eccetera».
Anche a lei piace camminare?
«Quando ero studentessa camminavo moltissimo. E anche quando scrivo ho bisogno di andare sempre avanti: scrivo, scrivo, non riesco a stare seduta e pensare a cosa scrivere, preferisco andare avanti con la storia. Poi, dopo, correggerò».
Nel romanzo c’è un altro movimento: punto di vista e voce narrante cambiano spesso. Lei ha utilizzato la prima persona singolare, la seconda, la terza, e anche il noi, e il voi. Questi cambiamenti corrispondono a cambiamenti di stati mentali? E in quale punto di vista si è sentita più a suo agio?
«Non è stata una scelta preventiva. Avanzando nella scrittura, ho sentito che la classica terza persona non andava bene per ogni situazione. Quando Viviane viene interrogata dalla polizia il lei va bene, ma quando riflette è meglio il voi. In realtà, il momento di massima goduria per me è stato quando ho detto “io” al posto di un’altra persona».
È una fan del genere noir?
«I noir mi piacciono, come a tutti piacciono le storie misteriose. In realtà, io sapevo l’inizio e la fine del mio romanzo. Non quello che ci sarebbe stato in mezzo. Ho optato per il noir perché ha dei punti di riferimento molto precisi, i poliziotti, gli interrogatori, eccetera, e perché non volevo annoiarmi né annoiare i lettori».
Descrive molto bene il rapporto tra il paziente e lo psicanalista. Ha studiato psicologia o ha avuto un’esperienza personale di analisi?
«Da anni sono un’ottima cliente degli psicanalisti parigini, ma da qualche tempo lo faccio più per superstizione, come vado a fare ginnastica vado a fare l’analisi. Quando ho iniziato il libro avevo incominciato a studiare psicologia, e questo è stato molto utile come base per la storia».
Quali sono i suoi numi letterari?
«Ho studiato alla Sorbona dove la letteratura si “ferma” agli anni ’30 del Novecento. Mentre scrivevo questo libro, sentendomi molto sola, ho sentito il bisogno di circondarmi di una serie di scrittori che mi venissero in aiuto. Così ho scoperto gli scrittori pubblicati dal mio editore, Les éditions de minuit, tra cui Jean Echenoz e Jean-Philippe Toussaint. Quando mi bloccavo, mi chiedevo come avrebbero fatto loro».
Ci consiglia un libro che le è piaciuto di recente?
«Amo leggere libri che trovo difficili. In questo periodo sto facendo soprattutto letture funzionali alle cose a cui sto lavorando, perciò ho trovato molto bello un libro di Jean Rolin che si intitola Ormuz, uscite alla fine dell’anno scorso in Francia, dove l’autore non fa che descrivere i movimenti delle navi che transitano nel porto di Hormuz nella penisola arabica. Ora sto leggendo Claude Simon, premio Nobel, che ha una scrittura molto prustiana. Quando sono stanca, invece, leggo dei noir in inglese».
http://bookfool.vanityfair.it/2014/02/24/hanno-ucciso-lanalista-lesordio-di-julia-deck/
OBAMA, L’OMOFOBIA E LA PAURA DELL’ALTRO
di Giacomo Ciocca, panorama.it, 24 febbraio 2014
Barack Obama, invocando il diritto alla libertà di amare, ha declinato l’invito a presiedere la cerimonia di apertura delle Olimpiadi russe di Sochi. In rappresentanza della confederazione a stelle e strisce, doveva esserci la celebre tennista Billie King, tra le prime atlete di rango olimpionico a dichiarare la propria omosessualità. La malattia della madre ha impedito che la King, icona dei movimenti gay, partisse alla volta di Sochi.
L’omofobia può essere definita come la discriminazione a più livelli di persone omosessuali. L’aspetto fobico dell’omofobia non solo consiste nel sostanziale evitamento e frequentazione di gay e lesbiche, ma nel pretendere (in genere rumorosamente) che siano loro negati diritti. L’incontro dell’omofobo con l’omosessuale sembra infatti in grado di provocare uno stato di angoscia capace di generare reazioni di tipo primitivo. La violenza, la discriminazione e l’odio caratterizzano i soggetti con un funzionamento di personalità poco evoluto. L’omofobo non comprende e non rispetta l’altro, su cui spesso proietta parti di sé inaccettabili, scaricando la propria aggressività non elaborata.
Da questo punto di vista, l’omofobia non può essere considerata solo una piaga sociale dettata da inciviltà o arretratezza culturale, ma anche l’espressione di aspetti patologici della psiche. Paura e rabbia non elaborate, trovano nell’omosessualità un facile bersaglio, qualora la giurisprudenza istituzionale non faciliti la parificazione dei diritti e non sanzioni penalmente gli atti omofobi. Il nostro Paese, contrariamente a molti stati membri dell’Unione Europea, non considera l’omofobia tra i reati d’odio, rendendola difficilmente incriminabile. Solo di recente la Scienza ha provato a fare chiarezza sugli aspetti sociobiologici dell’omosessualità e sul profilo sociopatologico dell’omofobia, come dimostra la revisione della letteratura scientifica esistente pubblicata dal Prof. Jannini e da un team di esperti internazionali sul prestigioso Journal of Sexual Medicine.
Il rapporto Rainbow e alcuni studi sperimentali evidenziano che la religiosità e il conservatorismo possono favorire (ma non determinare) la discriminazione verso l’orientamento omosessuale. È poi interessante che il Dipartimento delle Pari Opportunità abbia stilato le linee guida, rivolte ai giornalisti, eventualmente sprovveduti, che trattano notizie riguardanti le cosiddette persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali). Una delle caratteristiche della nostra epoca è un recupero della dimensione di continuum fenomenico dei comportamenti sessuali e della loro sostanziale inclassificabilitá. Sebbene per la Butler, apoditticamente, l’identità di genere e l’orientamento sessualesiano principalmente un prodotto della socio-cultura, ciò che emerge dalla riflessione della filosofa statunitense sono le variegate sfumature dei comportamenti sessuali che sfuggono ai tentativi di categorizzazione. Anche Jacques Lacan nelle sue opere sostenne che qualunque sia il genere del (s)oggetto desiderato, in ogni scelta si assiste sempre alla manifestazione più pura e trasversale dell’etero-sessualità, intesa come passione per un Altro da Sé
Barack Obama, invocando il diritto alla libertà di amare, ha declinato l’invito a presiedere la cerimonia di apertura delle Olimpiadi russe di Sochi. In rappresentanza della confederazione a stelle e strisce, doveva esserci la celebre tennista Billie King, tra le prime atlete di rango olimpionico a dichiarare la propria omosessualità. La malattia della madre ha impedito che la King, icona dei movimenti gay, partisse alla volta di Sochi.
L’omofobia può essere definita come la discriminazione a più livelli di persone omosessuali. L’aspetto fobico dell’omofobia non solo consiste nel sostanziale evitamento e frequentazione di gay e lesbiche, ma nel pretendere (in genere rumorosamente) che siano loro negati diritti. L’incontro dell’omofobo con l’omosessuale sembra infatti in grado di provocare uno stato di angoscia capace di generare reazioni di tipo primitivo. La violenza, la discriminazione e l’odio caratterizzano i soggetti con un funzionamento di personalità poco evoluto. L’omofobo non comprende e non rispetta l’altro, su cui spesso proietta parti di sé inaccettabili, scaricando la propria aggressività non elaborata.
Da questo punto di vista, l’omofobia non può essere considerata solo una piaga sociale dettata da inciviltà o arretratezza culturale, ma anche l’espressione di aspetti patologici della psiche. Paura e rabbia non elaborate, trovano nell’omosessualità un facile bersaglio, qualora la giurisprudenza istituzionale non faciliti la parificazione dei diritti e non sanzioni penalmente gli atti omofobi. Il nostro Paese, contrariamente a molti stati membri dell’Unione Europea, non considera l’omofobia tra i reati d’odio, rendendola difficilmente incriminabile. Solo di recente la Scienza ha provato a fare chiarezza sugli aspetti sociobiologici dell’omosessualità e sul profilo sociopatologico dell’omofobia, come dimostra la revisione della letteratura scientifica esistente pubblicata dal Prof. Jannini e da un team di esperti internazionali sul prestigioso Journal of Sexual Medicine.
Il rapporto Rainbow e alcuni studi sperimentali evidenziano che la religiosità e il conservatorismo possono favorire (ma non determinare) la discriminazione verso l’orientamento omosessuale. È poi interessante che il Dipartimento delle Pari Opportunità abbia stilato le linee guida, rivolte ai giornalisti, eventualmente sprovveduti, che trattano notizie riguardanti le cosiddette persone LGBT (lesbiche, gay, bisessuali e transessuali). Una delle caratteristiche della nostra epoca è un recupero della dimensione di continuum fenomenico dei comportamenti sessuali e della loro sostanziale inclassificabilitá. Sebbene per la Butler, apoditticamente, l’identità di genere e l’orientamento sessualesiano principalmente un prodotto della socio-cultura, ciò che emerge dalla riflessione della filosofa statunitense sono le variegate sfumature dei comportamenti sessuali che sfuggono ai tentativi di categorizzazione. Anche Jacques Lacan nelle sue opere sostenne che qualunque sia il genere del (s)oggetto desiderato, in ogni scelta si assiste sempre alla manifestazione più pura e trasversale dell’etero-sessualità, intesa come passione per un Altro da Sé
LETTERE CHE VIVONO OLTRE L’ALFABETO. Nel libro di Andrea Bajani una galleria linguistica diventa racconto
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 25 febbraio 2014*
Se la buona narrativa sa raccontare storie attraverso le parole, la letteratura è un lavoro sulla potenza misteriosa della parola in sé dal quale possono scaturire anche delle storie. Questa potenza misteriosa è la protagonista dell’ultimo breve ma intensissimo lavoro di Andrea Bajani titolato La vita non è in ordine alfabetico (Einaudi) e costruito come una galleria di parole dove ognuna è l’occasione di una breve sequenza narrativa. Bajani ci mostra che le parole sono vive, bucano la pancia, possono essere pietre o bolle di sapone, foglie miracolose, possono fare innamorare o ferire. Le parole non sono solo mezzi per comunicare, ma sono corpo, carne, vita, desiderio. Noi non usiamo semplicemente le parole ma siamo fatti di parole, viviamo e respiriamo nelle parole.
Ricordiamoci la distinzione saussuriana tra lingua e parola. È come per il gioco degli scacchi: ciascun pezzo può muoversi solo nel rispetto di determinate leggi (lingua), ma la mossa che ciascun giocatore potrà compiere non può essere prevista in anticipo da quelle leggi (parola). Significa che se la parola dipende dal Codice del linguaggio, essa non è mai già tutta contenuta da quel Codice. La sua capacità generativa trascende sempre il suo uso codificato. Questo significa anche che la parola non si limita ad uscire dal corpo, ma ha un corpo. Bajani tratta con una forza e una delicatezza davvero rare le parole come corpi; corpi erotici, solidi, spessi, ricchi, vitali, attraenti, misteriosi. Come nella parola Segreto dove una madre confida a una figlia qualcosa di inconfessabile. Ma questa parola, una volta caduta nella pancia della figlia, risuona, emette un ticchettio, batte, non sta buona. O come nella scena della parola Quindici dove una coppia in crisi conficca l’una nell’altra le parole più dure come se fossero pezzi di vetro. O come nella parola Lavaggi dove le parole di un padre iracondo mettono a ferro e fuoco la casa incidendosi come morsi nel corpo di sua figlia; parole che diventano sangue che esce dalle orecchie, frastuono di vetri rotti nella testa.
Ma proprio perché le parole hanno un corpo esse non sono solo pietre ma anche forze che aprono mondi, come nella parola Buio dove una figlia chiede al padre di non lasciarla sola nella notte scura, di raccontarle una storia, o la misteriosa identità che nella parola Terra un bambino sa cogliere tra la terra che trema sotto i piedi e i colpi che dava la piccola vita che palpitava nella pancia della zia su cui aveva appoggiato l’orecchio, oppure come nella parola Corteccia dove la scoperta degli anni degli alberi attraverso i cerchi del tronco ricorda i cerchi che prendono forma attorno alla caduta di un sasso nel lago. Ma non sono proprio questo le parole? Non generano forse queste risonanze imprevedibili che allargano il nostro orizzonte di senso?
Il libro si apre con la scena di un primo giorno di scuola dove un maestro mostra ai suoi scolari le ventuno lettere dell’alfabeto contenute in una scatola di legno che sembra uno scrigno. Spiega che ci si «può fare tutto, si può costruire, distruggere il mondo, nascere, morire, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, domandare, vendicarsi, accarezzare». Ha ragione: conoscere il segreto dell’alfabeto è rendere la vita umana, è rendere possibile l’accesso all’apertura del mondo. E tuttavia Bajani ci ricorda che la vita non esclude il disordine, il caos, l’aleatorietà, l’imprevisto, non rispetta mai l’ordine che anima invece il sogno stolto dell’autodidatta descritto da Sartre nella Nausea: assimilare tutto il sapere della biblioteca leggendo i libri per ordine alfabetico e pensando che in questo modo avrebbe potuto dominare integralmente la vita!
Il maestro di Bajani invece non pretende di spiegare la vita con le lettere, ma invita i suoi allievi ad impossessarsi di esse per nominare il mistero della vita senza presumere di giungere a governarlo, e a sceglierne alcune, a comporre singolarmente il mistero della parola. Per questo la poesia traumatizza sempre la lingua già codificata. Bajani, che ha un rapporto profondo con la poesia della parola, lo sa bene. E, come il suo maestro, ci conduce altrove, nel punto dove l’evento della parola ci trascina via, oltre il mondo già visto e già saputo. È il punto dove ogni vero maestro si ferma e inizia la scrittura della vita.
IL LIBRO – La vita non è in ordine alfabetico di Andrea Bajani, Einaudi, pagg. 136, euro 12,50.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/02/25/lettere-che-vivono-oltre-alfabeto.html?ref=search
* Segnalato da http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com
di Massimo Recalcati, repubblica.it, 25 febbraio 2014*
Se la buona narrativa sa raccontare storie attraverso le parole, la letteratura è un lavoro sulla potenza misteriosa della parola in sé dal quale possono scaturire anche delle storie. Questa potenza misteriosa è la protagonista dell’ultimo breve ma intensissimo lavoro di Andrea Bajani titolato La vita non è in ordine alfabetico (Einaudi) e costruito come una galleria di parole dove ognuna è l’occasione di una breve sequenza narrativa. Bajani ci mostra che le parole sono vive, bucano la pancia, possono essere pietre o bolle di sapone, foglie miracolose, possono fare innamorare o ferire. Le parole non sono solo mezzi per comunicare, ma sono corpo, carne, vita, desiderio. Noi non usiamo semplicemente le parole ma siamo fatti di parole, viviamo e respiriamo nelle parole.
Ricordiamoci la distinzione saussuriana tra lingua e parola. È come per il gioco degli scacchi: ciascun pezzo può muoversi solo nel rispetto di determinate leggi (lingua), ma la mossa che ciascun giocatore potrà compiere non può essere prevista in anticipo da quelle leggi (parola). Significa che se la parola dipende dal Codice del linguaggio, essa non è mai già tutta contenuta da quel Codice. La sua capacità generativa trascende sempre il suo uso codificato. Questo significa anche che la parola non si limita ad uscire dal corpo, ma ha un corpo. Bajani tratta con una forza e una delicatezza davvero rare le parole come corpi; corpi erotici, solidi, spessi, ricchi, vitali, attraenti, misteriosi. Come nella parola Segreto dove una madre confida a una figlia qualcosa di inconfessabile. Ma questa parola, una volta caduta nella pancia della figlia, risuona, emette un ticchettio, batte, non sta buona. O come nella scena della parola Quindici dove una coppia in crisi conficca l’una nell’altra le parole più dure come se fossero pezzi di vetro. O come nella parola Lavaggi dove le parole di un padre iracondo mettono a ferro e fuoco la casa incidendosi come morsi nel corpo di sua figlia; parole che diventano sangue che esce dalle orecchie, frastuono di vetri rotti nella testa.
Ma proprio perché le parole hanno un corpo esse non sono solo pietre ma anche forze che aprono mondi, come nella parola Buio dove una figlia chiede al padre di non lasciarla sola nella notte scura, di raccontarle una storia, o la misteriosa identità che nella parola Terra un bambino sa cogliere tra la terra che trema sotto i piedi e i colpi che dava la piccola vita che palpitava nella pancia della zia su cui aveva appoggiato l’orecchio, oppure come nella parola Corteccia dove la scoperta degli anni degli alberi attraverso i cerchi del tronco ricorda i cerchi che prendono forma attorno alla caduta di un sasso nel lago. Ma non sono proprio questo le parole? Non generano forse queste risonanze imprevedibili che allargano il nostro orizzonte di senso?
Il libro si apre con la scena di un primo giorno di scuola dove un maestro mostra ai suoi scolari le ventuno lettere dell’alfabeto contenute in una scatola di legno che sembra uno scrigno. Spiega che ci si «può fare tutto, si può costruire, distruggere il mondo, nascere, morire, aiutare, chiedere, ordinare, supplicare, consolare, ridere, domandare, vendicarsi, accarezzare». Ha ragione: conoscere il segreto dell’alfabeto è rendere la vita umana, è rendere possibile l’accesso all’apertura del mondo. E tuttavia Bajani ci ricorda che la vita non esclude il disordine, il caos, l’aleatorietà, l’imprevisto, non rispetta mai l’ordine che anima invece il sogno stolto dell’autodidatta descritto da Sartre nella Nausea: assimilare tutto il sapere della biblioteca leggendo i libri per ordine alfabetico e pensando che in questo modo avrebbe potuto dominare integralmente la vita!
Il maestro di Bajani invece non pretende di spiegare la vita con le lettere, ma invita i suoi allievi ad impossessarsi di esse per nominare il mistero della vita senza presumere di giungere a governarlo, e a sceglierne alcune, a comporre singolarmente il mistero della parola. Per questo la poesia traumatizza sempre la lingua già codificata. Bajani, che ha un rapporto profondo con la poesia della parola, lo sa bene. E, come il suo maestro, ci conduce altrove, nel punto dove l’evento della parola ci trascina via, oltre il mondo già visto e già saputo. È il punto dove ogni vero maestro si ferma e inizia la scrittura della vita.
IL LIBRO – La vita non è in ordine alfabetico di Andrea Bajani, Einaudi, pagg. 136, euro 12,50.
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2014/02/25/lettere-che-vivono-oltre-alfabeto.html?ref=search
* Segnalato da http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com
“IO È UN ALTRO”
di Umberta Telfener, blog.iodonna.it, 25 febbraio 2014
Inizio con questa frase provocatoria di Jacques Lacan per riflettere sull’obbedienza ai limiti che ci vengono suggeriti dagli altri e dalla cultura; per riflettere sulla nostra costante ricerca di coerenza. Tendiamo ad identificarci con un’immagine di noi che chiamiamo “identità” e perdiamo così la libertà di stupirci, di uscire dalle regole imposte dalla famiglia, dalla società, da noi stessi. Ci permettiamo di essere altro rispetto alle consuetudini che ci hanno imposto i nostri genitori? Tolleriamo di essere altro rispetto all’idea che abbiamo di noi? Oppure ci consentiamo soltanto di percorrere il familiare senza dare spazio all’estraneo che ci abita?
“L’altro” potrebbe essere l’aspetto “ombra” di cui parla Jung, la possibilità di rintracciare dentro di noi anche aspetti dissonanti, scomodi, opposti a come ci descriviamo, che ci possono far soffrire ma che ci possono anche stupire. Il coraggio di essere diversi, di uscire dalla narrazione che ci siamo fatti e dalle immagini che gli altri ci rimandano, che ci rassicurano, per illuminare aspetti di noi diversi, con cui dobbiamo scendere a patti, che dobbiamo imparare a conoscere: intrisi di solitudine, partecipazione, cattiveria, rancore, gioia, invidia ma pure grandiosità e altro ancora.
E’ importante immaginare che il passato non determina il futuro e che ogni giorno possiamo cambiare la nostra storia. Che siamo più complessi di come ci descriviamo e che possiamo dare voce a parti strambe e inascoltate di noi. Fare questo implica rinunciare al controllo. Non solo accettare le nostre alterità individuali (quelle che derivano dall’appartenere ad una razza diversa, ad una religione altra, all’avere un interesse sessuale idiosincratico, una dote, un difetto) ma esplorare le nostre altre potenzialità e le nostre imperfezioni. Fare i conti, imparare ad ampliare le nostre possibilità. Non controllare e guidare, non porci i limiti della volontà ma accettare ciò che vuole accadere, lasciarsi coinvolgere, fidarsi di sé e del mondo anziché doversi difendere costantemente.
http://blog.iodonna.it/umberta-telfener/2014/02/25/io-e-un-altro/
LO PSICANALISTA RICCI: «MATERNITÀ SURROGATA, MA COMPRARE UN FIGLIO NON RENDE MADRE»
di Viviana Daloiso, avvenire.it, 27 febbraio 2014
Fare di tutto per avere un figlio. Non per generarlo, non per prendersene la responsabilità in vece di qualcun altro, come avviene nel caso dell’adozione, in cui entra in gioco una maternità tutta diversa, ma pur sempre degna di questo nome. No, con le biotecnologie un figlio si crea. Il prodotto si compra e si vende. Si importa ed esporta. A piacimento. Lo psicanalista Giancarlo Ricci, autore del libro Il padre dov’era. Le omosessualità nella psicoanalisi (Sugarco edizioni), usa parole forti in merito alla vicenda milanese dell’utero in affitto, «che ci interroga con forza e prima di tutto sullo statuto del figlio». Perché se padre e madre sono «semplici acquirenti, o addirittura non esistono più, come vorrebbe l’ideologia di genere che mira alla sostituzione dei termini con genitore 1 e genitore 2, allora che fine fa il figlio? Che significato ha questa parola, prima che dal punto di vista giuridico, da quello simbolico e antropologico?». Scompare. «E d’altronde – spiega Ricci – nel ragionamento di una madre che per sentirsi tale, per realizzare il suo desiderio di maternità, paga quella di un’altra donna, il valore, e il valore sacro del figlio, non ha alcuna importanza. È il diritto a un figlio che la anima, che la spinge, che la accieca. Quel diritto assurdo che mai, dall’antichità ad oggi, è esistito in alcun codice. E per cui dal punto di vista sociale e mediatico quella donna viene trasformata persino in una vittima, come se questa condizione offrisse a lei più diritti che a qualcun altro». Il punto è che la vera vittima è quel figlio comprato, «quel figlio divorato dall’incidenza delle biotecnologie e destinato ad essere divorato anche in futuro, da una madre che si qualifica come tale solo per aver coronato l’ossessione di ottenere ciò che voleva per se stessa». Tutt’altro rispetto a come si forma e si sviluppa – lentamente e con fatica fisica – la maternità nell’interiorità di una donna. E ancora, vittima è quella madre “rimossa”, quella donna ucraina che per qualche migliaio di euro ha offerto il proprio corpo come culla per un figlio che, non importa il conto finale, le è stato portato via: «Premetto che questa pratica mi ricorda molto quella della prostituzione – continua Ricci –: in quel caso si paga per un atto sessuale, abusando della condizione drammatica di una donna spesso fragile e costretta. Qui si paga per un figlio, abusando della stessa condizione». È poi stridente il confronto tra queste due donne, «tra la madre reale e il suo fantasma. Dal punto di vista psicoanalitico – spiega Ricci – è infatti frequente l’incubo della donna in gravidanza su un’altra donna pronta a portarle via il figlio, a rubarglielo. Nel caso dell’utero in affitto è come se la biotecnologia realizzasse quell’incubo e materializzasse nella realtà quel fantasma». Così si finisce per rubare (dietro pagamento, s’intende) il figlio di qualcun altro, «come se ottenerlo a quel modo potesse supplire la mancanza ontologica della condizione di madre». Che resta.
http://www.avvenire.it/famiglia/Pagine/psicanalista-ricci-su-utero-in-affitto.aspx
Inizio con questa frase provocatoria di Jacques Lacan per riflettere sull’obbedienza ai limiti che ci vengono suggeriti dagli altri e dalla cultura; per riflettere sulla nostra costante ricerca di coerenza. Tendiamo ad identificarci con un’immagine di noi che chiamiamo “identità” e perdiamo così la libertà di stupirci, di uscire dalle regole imposte dalla famiglia, dalla società, da noi stessi. Ci permettiamo di essere altro rispetto alle consuetudini che ci hanno imposto i nostri genitori? Tolleriamo di essere altro rispetto all’idea che abbiamo di noi? Oppure ci consentiamo soltanto di percorrere il familiare senza dare spazio all’estraneo che ci abita?
“L’altro” potrebbe essere l’aspetto “ombra” di cui parla Jung, la possibilità di rintracciare dentro di noi anche aspetti dissonanti, scomodi, opposti a come ci descriviamo, che ci possono far soffrire ma che ci possono anche stupire. Il coraggio di essere diversi, di uscire dalla narrazione che ci siamo fatti e dalle immagini che gli altri ci rimandano, che ci rassicurano, per illuminare aspetti di noi diversi, con cui dobbiamo scendere a patti, che dobbiamo imparare a conoscere: intrisi di solitudine, partecipazione, cattiveria, rancore, gioia, invidia ma pure grandiosità e altro ancora.
E’ importante immaginare che il passato non determina il futuro e che ogni giorno possiamo cambiare la nostra storia. Che siamo più complessi di come ci descriviamo e che possiamo dare voce a parti strambe e inascoltate di noi. Fare questo implica rinunciare al controllo. Non solo accettare le nostre alterità individuali (quelle che derivano dall’appartenere ad una razza diversa, ad una religione altra, all’avere un interesse sessuale idiosincratico, una dote, un difetto) ma esplorare le nostre altre potenzialità e le nostre imperfezioni. Fare i conti, imparare ad ampliare le nostre possibilità. Non controllare e guidare, non porci i limiti della volontà ma accettare ciò che vuole accadere, lasciarsi coinvolgere, fidarsi di sé e del mondo anziché doversi difendere costantemente.
http://blog.iodonna.it/umberta-telfener/2014/02/25/io-e-un-altro/
LO PSICANALISTA RICCI: «MATERNITÀ SURROGATA, MA COMPRARE UN FIGLIO NON RENDE MADRE»
di Viviana Daloiso, avvenire.it, 27 febbraio 2014
Fare di tutto per avere un figlio. Non per generarlo, non per prendersene la responsabilità in vece di qualcun altro, come avviene nel caso dell’adozione, in cui entra in gioco una maternità tutta diversa, ma pur sempre degna di questo nome. No, con le biotecnologie un figlio si crea. Il prodotto si compra e si vende. Si importa ed esporta. A piacimento. Lo psicanalista Giancarlo Ricci, autore del libro Il padre dov’era. Le omosessualità nella psicoanalisi (Sugarco edizioni), usa parole forti in merito alla vicenda milanese dell’utero in affitto, «che ci interroga con forza e prima di tutto sullo statuto del figlio». Perché se padre e madre sono «semplici acquirenti, o addirittura non esistono più, come vorrebbe l’ideologia di genere che mira alla sostituzione dei termini con genitore 1 e genitore 2, allora che fine fa il figlio? Che significato ha questa parola, prima che dal punto di vista giuridico, da quello simbolico e antropologico?». Scompare. «E d’altronde – spiega Ricci – nel ragionamento di una madre che per sentirsi tale, per realizzare il suo desiderio di maternità, paga quella di un’altra donna, il valore, e il valore sacro del figlio, non ha alcuna importanza. È il diritto a un figlio che la anima, che la spinge, che la accieca. Quel diritto assurdo che mai, dall’antichità ad oggi, è esistito in alcun codice. E per cui dal punto di vista sociale e mediatico quella donna viene trasformata persino in una vittima, come se questa condizione offrisse a lei più diritti che a qualcun altro». Il punto è che la vera vittima è quel figlio comprato, «quel figlio divorato dall’incidenza delle biotecnologie e destinato ad essere divorato anche in futuro, da una madre che si qualifica come tale solo per aver coronato l’ossessione di ottenere ciò che voleva per se stessa». Tutt’altro rispetto a come si forma e si sviluppa – lentamente e con fatica fisica – la maternità nell’interiorità di una donna. E ancora, vittima è quella madre “rimossa”, quella donna ucraina che per qualche migliaio di euro ha offerto il proprio corpo come culla per un figlio che, non importa il conto finale, le è stato portato via: «Premetto che questa pratica mi ricorda molto quella della prostituzione – continua Ricci –: in quel caso si paga per un atto sessuale, abusando della condizione drammatica di una donna spesso fragile e costretta. Qui si paga per un figlio, abusando della stessa condizione». È poi stridente il confronto tra queste due donne, «tra la madre reale e il suo fantasma. Dal punto di vista psicoanalitico – spiega Ricci – è infatti frequente l’incubo della donna in gravidanza su un’altra donna pronta a portarle via il figlio, a rubarglielo. Nel caso dell’utero in affitto è come se la biotecnologia realizzasse quell’incubo e materializzasse nella realtà quel fantasma». Così si finisce per rubare (dietro pagamento, s’intende) il figlio di qualcun altro, «come se ottenerlo a quel modo potesse supplire la mancanza ontologica della condizione di madre». Che resta.
http://www.avvenire.it/famiglia/Pagine/psicanalista-ricci-su-utero-in-affitto.aspx
MASSIMO RECALCATI. ‘IL VUOTO E IL RESTO’
di Pietro Bianchi, doppiozero.com, 28 febbraio 2014
Per misurare il successo che ha riscosso l’opera di Massimo Recalcati negli ultimi anni, non basta andare a vedere gli straordinari dati di vendita dei suoi libri, la sua regolare presenza nei maggiori festival culturali italiani, i numerosi editoriali su La Repubblica o la partecipazione e l’interesse che riscuotono sempre le sue conferenze pubbliche. Ci pare ancora più significativo il fatto che le riflessioni di Recalcati siano ormai diventate parte del discorso culturale pubblico. L’influenza di un intellettuale non la si giudica soltanto dagli interventi di cui è direttamente protagonista, ma anche da come le sue parole d’ordine e riflessioni diventino patrimonio collettivo e si riproducano in modo “virale” indipendentemente dal suo controllo. Per chi lo segue da qualche anno non può che fare un certo effetto – anche se non sorprendere fino in fondo – vedere espressioni come “padre simbolico” o “desiderio dell’Altro”, che fino a poco tempo fa erano conosciute soltanto dalle piccole comunità di chi si interessava alla psicoanalisi lacaniana, essere pronunciate da conduttori di talk show o dai più noti opinionisti dei quotidiani nazionali.
Il grande talento di Recalcati in effetti è sempre stato questo: non tanto essere un esegeta scolastico dei mille rivoli del testo lacaniano, quanto essere in grado di distillare con invidiabile chiarezza l’esperienza e la teoria della psicoanalisi nella lettura della società e del contemporaneo. Non si tratta davvero di una cosa da poco. In un periodo dove la credibilità della psicoanalisi viene ripetutamente messa in discussione nella clinica e nell’accademia e dove il perdurare di un certo pregiudizio elitario (che in realtà verrebbe molto spesso smentito dai fatti) ne pregiudica la sua straordinaria attualità, Recalcati è stato in grado di dare una scossa di vitalità al pensiero psicoanalitico. Libri come Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013) o Cosa resta del padre? (Raffaello Cortina, 2011) hanno saputo far sì che la psicoanalisi venisse considerata nuovamente e a livello di massa, uno strumento legittimo ed efficace per interpretare, tra le altre cose, i cambiamenti nelle figure dei leader politici degli ultimi anni o le trasformazioni della famiglia contemporanea e dei rapporti tra genitori e figli.
Quest’operazione non va intesa semplicemente come una mera applicazione estrinseca di un apparato concettuale già bell’e pronto, ma come una vera e propria riappropriazione del testo di Lacan. Recalcati, con un procedimento che non è estraneo a quello dell’analista in seduta, apparentemente si limita a usare le parole e i concetti di Lacan, ma in realtà li “stacca” dal proprio enunciato d’origine e li fa propri, ri-significandoli e portandoli – a volte non senza spregiudicatezza – in una direzione inedita. Non è un caso infatti che espressioni come “discorso del capitalista” o “evaporazione del padre” che hanno un ruolo affatto marginale nell’opera di Lacan, siano invece al centro della riflessione di Recalcati sul contemporaneo.
Recalcati però non è solo un’intellettuale mediatico di grande successo, è anche un interprete originale e influente del pensiero di Lacan, che ha segnato in profondità la comunità analitica italiana. Anzi, l’approdo pubblico che la sua riflessione ha avuto negli ultimi due/tre anni dovrebbe essere considerato come il risultato di un attraversamento ventennale del testo di Lacan che ha trovato in Jacques Lacan: Desiderio, godimento e soggettivazione (Raffaello Cortina, 2012) un primo momento di sintesi organica, ma che affonda le sue radici all’inizio degli anni Novanta. La recente ristampa per i tipi di Mimesis de Il vuoto e il resto. Il problema del Reale in Jacques Lacan, un libro la cui prima edizione risale al 1993, può aiutarci ad illuminare questo itinerario da uno dei suoi punti di origine.
Il libro in questione raccoglie una serie di lezioni che Recalcati, allora poco più che trentenne, svolse all’Università Statale di Milano nel 1992 e nel 1993 all’interno della cattedra di Filosofia Morale del Prof. Franco Fergnani. Fergnani è un nome importante per comprendere la lettura che di Lacan dà Recalcati: si tratta di uno dei massimi interpreti italiani del pensiero di Sartre e fu anche uno dei primi maestri filosofici dell’autore. L’influenza di Sartre e dell’esistenzialismo sarà infatti uno degli elementi portanti il pensiero di Recalcati. Se ne vedono già i primi segni nei numerosi riferimenti che troviamo in questo libro, ma è un tratto che verrà conservato nel corso gli anni, tant’è vero che anche nella nuova nota introduttiva a quest’ultima edizione lo psicoanalista rivendica la propria “insistenza neo-esistenzialista sul processo di soggettivazione come irriducibile sia al paradigma strutturalista, sia a quello dialettico”.
La posta in palio teorica de Il vuoto e il resto è infatti proprio questa: il rapporto tra il soggetto e l’Altro, o meglio tra il soggetto e la catena significante. È noto che Lacan reinterpretò “linguisticamente” l’inconscio freudiano muovendolo da un asse diacronico/verticale – il deposito di esperienze passate rigettate della coscienza – a un asse sincronico/orizzontale – la catena di differenze significanti. Il risultato fu che il termine soggetto venne deprivato di quel cotè esperienziale e fenomenologico con il quale lo identificava la filosofia, e venne invece inteso in termini strettamente strutturali: per Lacan il soggetto non è nient’altro che l’intermittenza evanescente tra due significanti, il fatto che un significante sia sempre “altro da sé” e sia sempre legato in una catena di rimandi infinita. Non si tratta quindi di una sostanza, o di un “in-sé” che possa essere predicato (come invece si illude l’immaginario): il soggetto è piuttosto un’infinita “differenza”, un irriducibile atto di sottrazione. Recalcati coglie di questa riflessione le assonanze sartriane, ne spunta gli angoli più strutturalisti, e finisce per declinare la dimensione soggettiva non tanto dal lato della struttura, ma da quello della clinica dove questa “differenza” si palesa più chiaramente nell’esperienza del desiderio inconscio come “per sé” sartriano, o mancanza ad essere aperta sul mondo.
Discutere su quanto questa interpretazione sia fedele o meno al testo lacaniano sarebbe ozioso. È noto infatti come Lacan abbia lasciato ai suoi allievi non una teoria sistematica alla quale potersi adeguare, ma un’esperienza intellettuale e clinica piena di svolte, esperimenti audaci, ma anche ripensamenti, critiche e – perché no? – pure qualche errore. Recalcati, come tutti gli interpreti, ha il “suo” Lacan, che è diverso dal Lacan di Miller, da quello di Badiou, della Roudinesco, di Žižek, della Soler o di Milner: ed è evidentemente il Lacan del Seminario VII su L’etica della psicoanalisi. I riferimenti di Recalcati a questo seminario superano infatti di gran lunga quelli ad ogni altro seminario, e questo ciclo di lezioni degli anni Novanta ne sono una chiara testimonianza. Come mai Recalcati si rivolge in particolar modo a quel seminario?
Il seminario VII rappresenta uno dei punti dell’insegnamento di Lacan dove l’eterogeneità tra la batteria significante e il godimento tocca il punto più alto. Mentre il Lacan degli anni Settanta finirà per sottolineare – tramite i concetti di bordo, di frontiera e gli annodamenti borromei delle figure topologiche – gli elementi di continuità tra linguaggio e il godimento, il seminario VII, incentrato com’è, sulla “bellissima trasgressione” di Antigone o sul baratro della “das Ding” freudiana, andrà invece nella direzione opposta. Il Reale all’altezza di questo periodo dell’insegnamento di Lacan appare come un “altrove” fuori dal senso e del significante, che tuttavia – sottolinea Recalcati – non bisogna rifiutare, ma al quale è necessario “dare forma”. Sta qui l’attenzione, per così dire morfologica, da parte di Recalcati per tutto ciò che, a partire dalla metafora paterna fino alla sublimazione dell’esperienza estetica, tenta di costruire, tramite la porta della singolarità sintomatica, un paradossale rapporto tra il senso e l’oltre-senso, tra il significante e il godimento. E che lo accompagnerà anche per tutte le opere successive fino a oggi.
Oggi, a distanza di vent’anni da Il vuoto e il resto, pare che Massimo Recalcati stia mettendo un punto sulla sua lettura di Lacan con la pubblicazione dei due volumi sulla teoria e sulla clinica psicoanalitica per l’editore Raffaello Cortina. E che stia per intraprendere un percorso che legittimamente vada in qualche modo “oltre” Lacan. Tuttavia vi sono ancora molte opere degli anni scorsi che meriterebbero di essere riscoperte (come il volume sull’odio del 2004 o quello su Lacan e la filosofia curato insieme a Domenico Cosenza all’inizio degli anni Novanta per le edizioni Arcipelago) e che potrebbero dare un contributo significativo anche all’interno del dibattito lacaniano. Infatti nonostante i percorsi intellettuali di molti validi interpreti e l’enorme letteratura che esiste a riguardo, il testo lacaniano è tutt’altro che esaurito e attende ancora di essere per la gran parte scoperto e valorizzato, sia all’interno dell’esperienza della clinica sia in quella del dibattito intellettuale. E per fare questo, di Recalcati, ci sarebbe ancora grande bisogno.
http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/massimo-recalcati-il-vuoto-e-il-resto
Per misurare il successo che ha riscosso l’opera di Massimo Recalcati negli ultimi anni, non basta andare a vedere gli straordinari dati di vendita dei suoi libri, la sua regolare presenza nei maggiori festival culturali italiani, i numerosi editoriali su La Repubblica o la partecipazione e l’interesse che riscuotono sempre le sue conferenze pubbliche. Ci pare ancora più significativo il fatto che le riflessioni di Recalcati siano ormai diventate parte del discorso culturale pubblico. L’influenza di un intellettuale non la si giudica soltanto dagli interventi di cui è direttamente protagonista, ma anche da come le sue parole d’ordine e riflessioni diventino patrimonio collettivo e si riproducano in modo “virale” indipendentemente dal suo controllo. Per chi lo segue da qualche anno non può che fare un certo effetto – anche se non sorprendere fino in fondo – vedere espressioni come “padre simbolico” o “desiderio dell’Altro”, che fino a poco tempo fa erano conosciute soltanto dalle piccole comunità di chi si interessava alla psicoanalisi lacaniana, essere pronunciate da conduttori di talk show o dai più noti opinionisti dei quotidiani nazionali.
Il grande talento di Recalcati in effetti è sempre stato questo: non tanto essere un esegeta scolastico dei mille rivoli del testo lacaniano, quanto essere in grado di distillare con invidiabile chiarezza l’esperienza e la teoria della psicoanalisi nella lettura della società e del contemporaneo. Non si tratta davvero di una cosa da poco. In un periodo dove la credibilità della psicoanalisi viene ripetutamente messa in discussione nella clinica e nell’accademia e dove il perdurare di un certo pregiudizio elitario (che in realtà verrebbe molto spesso smentito dai fatti) ne pregiudica la sua straordinaria attualità, Recalcati è stato in grado di dare una scossa di vitalità al pensiero psicoanalitico. Libri come Il complesso di Telemaco (Feltrinelli, 2013) o Cosa resta del padre? (Raffaello Cortina, 2011) hanno saputo far sì che la psicoanalisi venisse considerata nuovamente e a livello di massa, uno strumento legittimo ed efficace per interpretare, tra le altre cose, i cambiamenti nelle figure dei leader politici degli ultimi anni o le trasformazioni della famiglia contemporanea e dei rapporti tra genitori e figli.
Quest’operazione non va intesa semplicemente come una mera applicazione estrinseca di un apparato concettuale già bell’e pronto, ma come una vera e propria riappropriazione del testo di Lacan. Recalcati, con un procedimento che non è estraneo a quello dell’analista in seduta, apparentemente si limita a usare le parole e i concetti di Lacan, ma in realtà li “stacca” dal proprio enunciato d’origine e li fa propri, ri-significandoli e portandoli – a volte non senza spregiudicatezza – in una direzione inedita. Non è un caso infatti che espressioni come “discorso del capitalista” o “evaporazione del padre” che hanno un ruolo affatto marginale nell’opera di Lacan, siano invece al centro della riflessione di Recalcati sul contemporaneo.
Recalcati però non è solo un’intellettuale mediatico di grande successo, è anche un interprete originale e influente del pensiero di Lacan, che ha segnato in profondità la comunità analitica italiana. Anzi, l’approdo pubblico che la sua riflessione ha avuto negli ultimi due/tre anni dovrebbe essere considerato come il risultato di un attraversamento ventennale del testo di Lacan che ha trovato in Jacques Lacan: Desiderio, godimento e soggettivazione (Raffaello Cortina, 2012) un primo momento di sintesi organica, ma che affonda le sue radici all’inizio degli anni Novanta. La recente ristampa per i tipi di Mimesis de Il vuoto e il resto. Il problema del Reale in Jacques Lacan, un libro la cui prima edizione risale al 1993, può aiutarci ad illuminare questo itinerario da uno dei suoi punti di origine.
Il libro in questione raccoglie una serie di lezioni che Recalcati, allora poco più che trentenne, svolse all’Università Statale di Milano nel 1992 e nel 1993 all’interno della cattedra di Filosofia Morale del Prof. Franco Fergnani. Fergnani è un nome importante per comprendere la lettura che di Lacan dà Recalcati: si tratta di uno dei massimi interpreti italiani del pensiero di Sartre e fu anche uno dei primi maestri filosofici dell’autore. L’influenza di Sartre e dell’esistenzialismo sarà infatti uno degli elementi portanti il pensiero di Recalcati. Se ne vedono già i primi segni nei numerosi riferimenti che troviamo in questo libro, ma è un tratto che verrà conservato nel corso gli anni, tant’è vero che anche nella nuova nota introduttiva a quest’ultima edizione lo psicoanalista rivendica la propria “insistenza neo-esistenzialista sul processo di soggettivazione come irriducibile sia al paradigma strutturalista, sia a quello dialettico”.
La posta in palio teorica de Il vuoto e il resto è infatti proprio questa: il rapporto tra il soggetto e l’Altro, o meglio tra il soggetto e la catena significante. È noto che Lacan reinterpretò “linguisticamente” l’inconscio freudiano muovendolo da un asse diacronico/verticale – il deposito di esperienze passate rigettate della coscienza – a un asse sincronico/orizzontale – la catena di differenze significanti. Il risultato fu che il termine soggetto venne deprivato di quel cotè esperienziale e fenomenologico con il quale lo identificava la filosofia, e venne invece inteso in termini strettamente strutturali: per Lacan il soggetto non è nient’altro che l’intermittenza evanescente tra due significanti, il fatto che un significante sia sempre “altro da sé” e sia sempre legato in una catena di rimandi infinita. Non si tratta quindi di una sostanza, o di un “in-sé” che possa essere predicato (come invece si illude l’immaginario): il soggetto è piuttosto un’infinita “differenza”, un irriducibile atto di sottrazione. Recalcati coglie di questa riflessione le assonanze sartriane, ne spunta gli angoli più strutturalisti, e finisce per declinare la dimensione soggettiva non tanto dal lato della struttura, ma da quello della clinica dove questa “differenza” si palesa più chiaramente nell’esperienza del desiderio inconscio come “per sé” sartriano, o mancanza ad essere aperta sul mondo.
Discutere su quanto questa interpretazione sia fedele o meno al testo lacaniano sarebbe ozioso. È noto infatti come Lacan abbia lasciato ai suoi allievi non una teoria sistematica alla quale potersi adeguare, ma un’esperienza intellettuale e clinica piena di svolte, esperimenti audaci, ma anche ripensamenti, critiche e – perché no? – pure qualche errore. Recalcati, come tutti gli interpreti, ha il “suo” Lacan, che è diverso dal Lacan di Miller, da quello di Badiou, della Roudinesco, di Žižek, della Soler o di Milner: ed è evidentemente il Lacan del Seminario VII su L’etica della psicoanalisi. I riferimenti di Recalcati a questo seminario superano infatti di gran lunga quelli ad ogni altro seminario, e questo ciclo di lezioni degli anni Novanta ne sono una chiara testimonianza. Come mai Recalcati si rivolge in particolar modo a quel seminario?
Il seminario VII rappresenta uno dei punti dell’insegnamento di Lacan dove l’eterogeneità tra la batteria significante e il godimento tocca il punto più alto. Mentre il Lacan degli anni Settanta finirà per sottolineare – tramite i concetti di bordo, di frontiera e gli annodamenti borromei delle figure topologiche – gli elementi di continuità tra linguaggio e il godimento, il seminario VII, incentrato com’è, sulla “bellissima trasgressione” di Antigone o sul baratro della “das Ding” freudiana, andrà invece nella direzione opposta. Il Reale all’altezza di questo periodo dell’insegnamento di Lacan appare come un “altrove” fuori dal senso e del significante, che tuttavia – sottolinea Recalcati – non bisogna rifiutare, ma al quale è necessario “dare forma”. Sta qui l’attenzione, per così dire morfologica, da parte di Recalcati per tutto ciò che, a partire dalla metafora paterna fino alla sublimazione dell’esperienza estetica, tenta di costruire, tramite la porta della singolarità sintomatica, un paradossale rapporto tra il senso e l’oltre-senso, tra il significante e il godimento. E che lo accompagnerà anche per tutte le opere successive fino a oggi.
Oggi, a distanza di vent’anni da Il vuoto e il resto, pare che Massimo Recalcati stia mettendo un punto sulla sua lettura di Lacan con la pubblicazione dei due volumi sulla teoria e sulla clinica psicoanalitica per l’editore Raffaello Cortina. E che stia per intraprendere un percorso che legittimamente vada in qualche modo “oltre” Lacan. Tuttavia vi sono ancora molte opere degli anni scorsi che meriterebbero di essere riscoperte (come il volume sull’odio del 2004 o quello su Lacan e la filosofia curato insieme a Domenico Cosenza all’inizio degli anni Novanta per le edizioni Arcipelago) e che potrebbero dare un contributo significativo anche all’interno del dibattito lacaniano. Infatti nonostante i percorsi intellettuali di molti validi interpreti e l’enorme letteratura che esiste a riguardo, il testo lacaniano è tutt’altro che esaurito e attende ancora di essere per la gran parte scoperto e valorizzato, sia all’interno dell’esperienza della clinica sia in quella del dibattito intellettuale. E per fare questo, di Recalcati, ci sarebbe ancora grande bisogno.
http://www.doppiozero.com/materiali/recensioni/massimo-recalcati-il-vuoto-e-il-resto
GENITORE 1, GENITORE 2
di Annalisa Borghese, panorama.it, 28 febbraio 2014
Siamo arrivati all’inimmaginabile e cioè a mettere in discussione la nostra origine, considerato che siamo tutti nati da un uomo e una donna e, fino a prova contraria, è ancora così. Tutti nascono da un uomo e una donna che diventano rispettivamente padre e madre. Non sono parole “obsolete”, come un ministro del governo appena passato ha azzardato a dire. Sono parole fatte di carne, l’avvenimento di una vita, un dato di fatto. Che vengano cancellate dai moduli per l’iscrizione all’asilo nido e alla scuola materna, come è successo a Milano, è un non senso. Tralasciamo la modalità, peraltro discutibile, con cui si è arrivati a tanto e la motivazione palesemente ideologica alla base di questa scelta, e concentriamoci sul linguaggio.
Non si vuole discriminare nessuno. Così ha affermato la consigliera comunale che ha preso l’iniziativa. Nessun dubbio che vengano forse discriminati coloro che si sentono padri e madri? Praticamente la maggioranza? Le parole “padre” e “madre” sono state cancellate e sostituite dai più generici “genitore 1” e “genitore 2”. Generici fino ad un certo punto, perché genitore è sostantivo declinabile e al femminile fa genitrice, eppure sui moduli viene considerato soltanto al maschile. E questa non è forse una discriminazione?
Anche i numeri fanno riflettere. Poiché la matematica non è un’opinione, i numeri esprimono una realtà che non è opinabile. Sono insindacabili. In una scala di valori, uno è più importante di due o comunque viene prima. Per ovviare a questa obiezione, a Bologna si è proposta la formula “altro genitore” al posto di “genitore 2”.
Modificando i termini della questione, non è solo la generatività ad essere messa in discussione, lo è pure la stessa natura umana. Cosa ne facciamo di quello che sta scritto nei grandi della letteratura, nelle sacre scritture, nei testi della psicoanalisi dove padre e madre sono al centro della ferita originaria? Correggiamo tutto in nome di una vaghezza asessuata? In nome dell’ in-differenza? In natura, senza alcuna sovrastruttura culturale, il maschile e il femminile non soltanto sono differenti, ma fanno la differenza. La ricchezza della differenza. Sono complementari, non intercambiabili, ineliminabili. Per nascere c’è bisogno di entrambe, per crescere pure.
È un diritto del bambino avere entrambe i modelli. La perdita del maschile, successiva alla rivolta del femminismo, che nel tentativo di liberarsi del padre padrone ha tralasciato di cercare il vero volto del padre, ha generato dei figli fragili e delle madri insicure. «La conseguenza – afferma lo psicanalista Giancarlo Ricci – è la dittatura del desiderio senza limiti e dagli effetti mortiferi che sono sotto gli occhi di tutti».
Ora stiamo facendo un passo in più. Stiamo abolendo anche la madre. «L’assenza del padre che guarda al figlio come maschio capace di guidare e proteggere e l’assenza della madre che guarda alla figlia come femmina capace di accogliere – prosegue Ricci – toglie al bambino la possibilità di avere un’identità precisa e limitata. Ecco perché abbiamo gente sempre più fragile, con poco amor proprio, con una bassa stima di sé, incapace di accettare rimproveri, fatiche e quindi di ottenere risultati appaganti. I sentimenti amorevoli non bastano a crescere figli sani». Occorre anche chiarezza e differenza. A partire dalle parole.
http://news.panorama.it/cronaca/specchio-venere/Genitore-1-genitore-2
VIDEO
Siamo arrivati all’inimmaginabile e cioè a mettere in discussione la nostra origine, considerato che siamo tutti nati da un uomo e una donna e, fino a prova contraria, è ancora così. Tutti nascono da un uomo e una donna che diventano rispettivamente padre e madre. Non sono parole “obsolete”, come un ministro del governo appena passato ha azzardato a dire. Sono parole fatte di carne, l’avvenimento di una vita, un dato di fatto. Che vengano cancellate dai moduli per l’iscrizione all’asilo nido e alla scuola materna, come è successo a Milano, è un non senso. Tralasciamo la modalità, peraltro discutibile, con cui si è arrivati a tanto e la motivazione palesemente ideologica alla base di questa scelta, e concentriamoci sul linguaggio.
Non si vuole discriminare nessuno. Così ha affermato la consigliera comunale che ha preso l’iniziativa. Nessun dubbio che vengano forse discriminati coloro che si sentono padri e madri? Praticamente la maggioranza? Le parole “padre” e “madre” sono state cancellate e sostituite dai più generici “genitore 1” e “genitore 2”. Generici fino ad un certo punto, perché genitore è sostantivo declinabile e al femminile fa genitrice, eppure sui moduli viene considerato soltanto al maschile. E questa non è forse una discriminazione?
Anche i numeri fanno riflettere. Poiché la matematica non è un’opinione, i numeri esprimono una realtà che non è opinabile. Sono insindacabili. In una scala di valori, uno è più importante di due o comunque viene prima. Per ovviare a questa obiezione, a Bologna si è proposta la formula “altro genitore” al posto di “genitore 2”.
Modificando i termini della questione, non è solo la generatività ad essere messa in discussione, lo è pure la stessa natura umana. Cosa ne facciamo di quello che sta scritto nei grandi della letteratura, nelle sacre scritture, nei testi della psicoanalisi dove padre e madre sono al centro della ferita originaria? Correggiamo tutto in nome di una vaghezza asessuata? In nome dell’ in-differenza? In natura, senza alcuna sovrastruttura culturale, il maschile e il femminile non soltanto sono differenti, ma fanno la differenza. La ricchezza della differenza. Sono complementari, non intercambiabili, ineliminabili. Per nascere c’è bisogno di entrambe, per crescere pure.
È un diritto del bambino avere entrambe i modelli. La perdita del maschile, successiva alla rivolta del femminismo, che nel tentativo di liberarsi del padre padrone ha tralasciato di cercare il vero volto del padre, ha generato dei figli fragili e delle madri insicure. «La conseguenza – afferma lo psicanalista Giancarlo Ricci – è la dittatura del desiderio senza limiti e dagli effetti mortiferi che sono sotto gli occhi di tutti».
Ora stiamo facendo un passo in più. Stiamo abolendo anche la madre. «L’assenza del padre che guarda al figlio come maschio capace di guidare e proteggere e l’assenza della madre che guarda alla figlia come femmina capace di accogliere – prosegue Ricci – toglie al bambino la possibilità di avere un’identità precisa e limitata. Ecco perché abbiamo gente sempre più fragile, con poco amor proprio, con una bassa stima di sé, incapace di accettare rimproveri, fatiche e quindi di ottenere risultati appaganti. I sentimenti amorevoli non bastano a crescere figli sani». Occorre anche chiarezza e differenza. A partire dalle parole.
http://news.panorama.it/cronaca/specchio-venere/Genitore-1-genitore-2
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RECALCATI E LERNER: “PSICANALIZZANDO LA POLITICA: RENZI NON È UN NUOVO BERLUSCONI. GRILLO, PADRE PADRONE ADOLESCENZIALE”. Lo psicanalista Massimo Recalcati spiega il premier più giovane della storia d’Italia e analizza un’intera classe politica. La versione integrale dell’intervista con Gad Lerner registrata per la prima puntata di Fischia il vento: Un uomo solo al comando
di Gad Lerner, repubblica.it, 28 febbraio 2014
“Renzi è un capo ma non più di tipo patriarcale. Dopo la morte di Berlinguer la sinistra ha vissuto un vuoto di leadership patriarcale, Renzi è riuscito a reintrodurre la potenza del sogno nella politica. Ma non è assimilabile a un giovane Berlusconi. Grillo e Berlusconi sono una rappresentazione adolescenziale, puberale e perversa del padre padrone. Renzi è una radicale alternativa al Berlusconismo. Non è un padre, è un fratello”.
Nello streaming dell’incontro a palazzo Chigi tra Renzi e Grillo “c’è un punto in cui Grillo rivela tutta la sua vera natura di vecchio patriarca autoritario e ideologicamente e totalmente in continuità con la figura del padre padrone: quando gli dà del ragazzo e gli dice fai parlare me”.
“La forza di Renzi è quella di aver reintrodotto nella politica la forza del sogno. La politica non è fatta solo di giudizio logico, nella politica intervengono fattori inconsci. C’è una pulsione gregaria delle masse a evitare l’esperienza solitaria della libertà e cercare rifugio in figure carismatiche. Renzi rientra in questa categoria ma la sua leadership è completamente diversa. E’ quella del figlio, non del patriarca. Renzi ha un senso profondo della situazione grave in cui gli italiani si trovano”.
Per vedere il video, clicca su:
“La forza di Renzi è quella di aver reintrodotto nella politica la forza del sogno. La politica non è fatta solo di giudizio logico, nella politica intervengono fattori inconsci. C’è una pulsione gregaria delle masse a evitare l’esperienza solitaria della libertà e cercare rifugio in figure carismatiche. Renzi rientra in questa categoria ma la sua leadership è completamente diversa. E’ quella del figlio, non del patriarca. Renzi ha un senso profondo della situazione grave in cui gli italiani si trovano”.
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