Artista immenso, abile narratore di volti e caratteri, Fellini ha scritto pagine fondamentali della storia del cinema. Asti ha scelto di rendergli omaggio con l’evento «Il sogno e la visione», organizzato da Comune (assessorato alla Cultura), circolo cinematografico Vertigo e Fondazione Mazzetti. L’omaggio al regista riminese è stato inaugurato ieri con la mostra che dà il titolo al calendario di appuntamenti nel nome di Fellini: allestita a Palazzo Mazzetti (corso Alfieri 357), «Il sogno e la visione» raccoglie disegni tratti dal «Libro dei sogni». Pubblicato nel 2007 a cura di Tullio Kezich, è una sorta di grande album che rappresenta l’inconscio felliniano, un diario onirico che lui stesso definiva «un insieme di segnacci, appunti affrettati e sgrammaticati». Un’opera che Fellini ha elaborato con impegno scrupoloso per un trentennio, dagli Anni ’60 ai ’90, sotto consiglio dello psicanalista junghiano Ernst Bernhard, con il quale è stato in analisi dal ‘60 al ‘65.
Negli schizzi di Fellini, disegnatore straordinario, sono immortalati personaggi della sua vita pubblica e privata come Marcello Mastroianni, Sandra Milo, Anita Ekberg, Sophia Loren, la moglie Giulietta Masina. Nell’allestimento i disegni sono presentati in sezioni intitolate «La famiglia Fellini», «Sognare e filmare», «Incubi», «Giulietta Masina», «Personaggi famosi» e «Amarcord». La mostra si completa con la sezione «Fellini: pagine e immagini», con fotografie e pubblicazioni sulla sua opera. Stampe originali dell’epoca, raccontano sogni e visioni del grande regista: ci sono foto di scena tratte dai set di 8½, Roma, La dolce vita, La città delle donne, ma anche momenti di vita pubblica e privata con scatti firmati da fotografi come Pierluigi Praturlon, Giovanni Battista Poletto, Angelo Frontoni (noto come «fotografo delle dive»).
Tra i volumi, sono in mostra edizioni originali delle sceneggiature di Fellini. La sezione è stata realizzata con materiale dalle collezioni della Libreria antiquaria Coenobium di Asti, a cura di Alessandro Santero e Sara Poeta. Il viaggio è accompagnato da un video, con indimenticabili colonne sonore. «Con questa inaugurazione diamo il via ai due mesi dedicati a Fellini. Poterlo raccontare è un’occasione per capirne l’animo più profondo, attraverso i suoi disegni e i suoi film e la mostra è la dimostrazione di come si muovesse tra sogno, segno e disegno – ha detto l’assessore alla Cultura Massimo Cotto – Credo che il riconoscimento più grande per il regista riminese non sia tanto legato a Oscar e premi, quanto piuttosto al fatto che il suo nome sia diventato un aggettivo. Quante volte definiamo qualcosa felliniano? Questo significa che Fellini è entrato nell’immaginario collettivo».
Per la prima volta nel Nord Italia, la mostra resterà aperta fino al 31 marzo, da martedì a domenica (orario 9,30-18,30) con ingresso libero.
Per le informazioni:
http://www.lastampa.it/2014/03/02/edizioni/asti/appuntamenti/luniverso-di-fellini-tra-sogni-e-visioni-hF7MTCEaY99IajhE9IsHaL/pagina.html
LEA VERGINE: “IO, SIGNORA DELL’ARTE, MI SENTO UNA DERELITTA IN QUESTO MONDO DOMINATO DAL MERCATO” . La critica e curatrice si racconta insieme ad amori, pittori e colleghi
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 2 marzo 2014
Sembra di attraversare una nuvola di bianca tristezza. E invece sono le sue parole. Quelle di Lea Vergine. Un nome d’artista, pensavo. In realtà critica d’arte che ha scritto saggi acuti e importanti sul linguaggio del corpo e la Body art. E di lei avevo apprezzato, giusto un paio di anni fa, la bellissima mostra, curata al Mart di Rovereto, sul gruppo di Bloomsbury. Ha una voce piena di spigoli. Lea. Che sembra dica: stai abusando della mia pazienza. In realtà sono soprattutto le Esportazioni che fuma a eccitare una certa asprezza. Una certa rabbia che l’età non più giovane contiene con rassegnata saggezza. Contro chi? Le chiedo. Mi guarda incuriosita: “Contro me stessa innanzitutto. Conosco come pochi l’arte dell’autolesionismo”. E allora torna quella sensazione di tristezza iniziale. Quelle parole che scendono come pioggia invisibile. Lea è stata una donna bella. Non che non lo sia ancora. Ma è infastidita dal ricordo di un’immagine remota. Dalla tara che ogni memoria deve fare su di sé. Dall’avvilimento che non siamo più ciò che un tempo fummo. Mi guarda perplessa dalla teatralità morale dello studio milanese dove sediamo. I libri, i cataloghi, le schede raccontano “la vita, forse l’arte”, come recita il titolo del suo nuovo libro appena edito da Archinto.
Quando ha avuto questa sensazione?
“Quale sensazione?”.
Di essere cambiata. Di non essere più quella di una volta.
“C’è stato un momento in cui ho pensato che i miei piccoli anni eroici non andassero più visti nella compostezza dell’indifferenza, come qualcosa che semplicemente non c’era più. Ma nel vuoto che avevano scavato. In quel momento ho provato la sensazione che la malinconia non fosse più un sentimento sterile, ma dannoso”.
Collocabile in quale tempo?
“In questi anni, così prossimi da sentirne il respiro e il disagio, anni in cui tutto è maledettamente cambiato”.
In peggio?
“È una china invisibile. Si scende senza far troppo rumore. Cosa c’è di più deprimente?”.
Ma è una depressione che ha origine dalla memoria o dal fisico?
“Direi da entrambi. Se penso alla mia nascita mi vedo senza una madre e consegnata ai nonni all’età di tre mesi”.
Cosa accadde?
“Venni concepita, fuori dal matrimonio, da una fanciulla totalmente estranea al mondo di mio padre. Una ragazza povera, bella e sventata. Nel 1938 non si davano nozze riparatrici. Mio padre, famiglia borghese, si presentò a mia nonna, una Ruffo di Calabria, e disse: “Mammà, ho una figlia”".
Suo padre cosa faceva?
“Era laureato in legge. Ma i sogni si legavano alla musica. Il nonno lo mise davanti alla scelta: abbandoni la musica ed entri in uno studio legale e noi ci occuperemo della piccola”.
E si occuparono di lei?
“Pienamente. Sono stata con loro per lungo tempo. A Napoli. Crescevo con le attenzioni che si dedicano a una signorina. Ero bella e agiata. Ma anche stupida”.
Stupida?
“Non nel senso dell’oca giuliva. Ma per le opportunità che ho mancato nella vita. Ho sempre fatto il contrario di ciò che sarebbe stato meglio per me. Non sono mai stata capace di scegliere il male minore”.
È considerata tra le eccellenze della critica d’arte. Perché si denigra?
“Quello che ho realizzato nel mondo dell’arte avrei potuto farlo con mille altri mestieri. Dov’è l’unicità? Aver scritto di artisti che pensano che il loro mondo sia il mondo? E che tutto inizia e finisce varcata la soglia del loro studio?”.
In fondo sono loro le primedonne. Perché sorprendersi o restarne delusi?
“Perché dietro il “genio” scopri spesso l’ometto, la mezza calzaumana. Ricordo la volta che andai a Parigi a trovare Jean Fautrier. Mi aspettavo di incontrare un maestro. Vidi quest’uomo sdraiato nel suo atelier circondato da un clan di fanciulle che lo accarezzavano. Restai allibita. Dai suoi sorrisetti, dalle sue frasi ambigue di vecchio Ganimede”.
Però un grande artista.
“Non ne dubito, almeno nel suo caso. Ma ciò che le racconto non è per puro pettegolezzo, ma perché sono convinta che uno dei risultati della modernità è il divorzio tra ciò che sei e ciò che appari”.
Le dà così fastidio?
“Non mi dà fastidio. Constato la presenza di più stili di vita e di maschere. Semmai quello che ho notato più spesso negli artisti è ciò che gli psichiatri chiamerebbero disturbo della personalità. Sono spesso legati al proprio Io in maniera patologica”.
A chi pensa?
“Una persona, che pur nella mediocrità del proprio talento, ha saputo sfruttare le numerose potenzialità del proprio Io è stato Salvador Dalì”.
Un artista scandaloso che fiutò il proprio tempo come un cane da caccia la sua preda.
“È vero, aveva fiuto. Ma non si tradusse mai in una grande opera. Fu un surrealista di terz’ordine; un mitomane in grado di autopromuoversi come pochi. I suoi quadri “metafisici” non hanno nulla della grandezza allucinatoria di De Chirico, le sue opere scandalose viste oggi sono solo rancidamente sentimentali o oleografiche”.
Eppure, è considerato un grande del Novecento.
“Ci sono ragioni diverse da quelle smaccatamente commerciali? Tutto in lui è stato kitsch e pop”.
Buñuel, per fare un solo esempio, vide in quest’uomo contraddittorio l’artista totale.
“Buñuel gli fu amico in gioventù. Ma non smise mai di considerarlo un esibizionista e, per le sue idee politiche, un cinico che si mise a disposizione del franchismo. La protervia del suo Io si tradusse in qualcosa di grottesco. Corteggiò Freud senza esito. Volle ingraziarsi Lacan, che era stato surrealista, senza riuscirci. Si è dovuto accontentare dell’omaggio di Armando Verdiglione”.
È molto dura e sarcastica verso gli altri.
“Forse perché lo sono verso me stessa. Bisogna saper ritrovare negli altri le proprie patologie”.
Da quali è affetta?
“Il mio psichiatra mi assicura che non sono psicotica, come certi artisti, ma solo una banale nevrotica”.
Sembra quasi delusa.
“No, affatto. Ma l’arte, quella vera, si nutre di follie insondabili e di sofferenze e dolori profondissimi. Da dove crede sia nata la serie Otages, gli “Ostaggi”, che Fautrier dipinse tra il 1942 e il ’45, se non dallo sconvolgimento per le atrocità commesse dai nazisti?”.
L’arte ha solo l’aspetto tragico?
“È il lato che più di ogni altro mi ha coinvolto. L’arte di oggi, invece, è sempre meno una faccenda di persone per bene”.
In che senso?
“È un luogo dove non ci sono quasi più valori tragici, ma solo prezzi di mercato”.
Può immaginare un’arte senza il mercato?
“Sarebbe impensabile. In passato accadeva però che una nuova tendenza – pensi all’Impressionismo, alla Body art o all’Arte Povera – nascesse in contrasto con il mercato e solo in un secondo momento ne veniva riassorbita. Oggi il “mercato” è il feticcio per eccellenza. Ma la verità è che siamo in uno stagno dove sguazzano piccoli squali travestiti da papere”.
Chi decide?
“Non è più il mercante o il gallerista a determinare le cose. Sono i collezionisti a stabilire le quotazioni di un artista o chi deve dirigereil tal museo o il talaltro. In fondo non è neanche così insolito. Nel Cinquecento era la committenza di principi e cardinali a decidere il destino dell’arte. Allora non andò così male”.
E i critici?
“Annaspiamo. Ricorda qualcosa di memorabile, al di là delle contese da cortile? Siamo come quei battitori di tamburi disposti lungo una battuta di caccia per spaventare la tigre. Una volta, a Procida, incontrai Cesare Brandi, grande storico dell’arte, cultura poliedrica con tendenze omo. Fece una mossetta e poi con quel suo accento senese mi disse: “Fiorellino, mi spiace dirtelo, ma non hai più il fulgore di una volta”. Ecco, non abbiamo più il fulgore. Ci siamo spenti”.
Ha conosciuto anche Argan?
“Molto bene. Un giorno mi raccontò che aveva passato parte dell’adolescenza nel manicomio di Torino, dove sembra che il padre ricoprisse qualche incarico. Mi disse che spesso faceva giocare la piccola Carol Rama, che credo avesse ricoverata la vecchia madre. Pensi che allegria!”.
Cos’è per lei la felicità?
“Non saprei. Mi sono quasi sempre sentita alla stregua di un cane. C’è un dipinto di Botticelli nel quale si vede una ragazza con la testa china, le mani che nascondono la faccia, si intitolaLa derelitta. Ecco, mi sento così”.
Cosa pensa di dover espiare?
“Dicono che sono un po’ cattivella. La verità è che sono cresciuta nella paura di sbagliare e di non essere accettata”.
Che rapporto è stato quello con suo padre?
“Per me è stato come un fidanzato che vedevo poco. Credo che mi amasse molto e quando è morto, all’età di 46 anni, sono stata malissimo. Mi ha inferocito quella morte. Come se mi avessero rubato la cosa più preziosa. Per vent’anni non sono riuscita a parlarne. E per mettere tutto a tacere, poco dopo, mi sposai. Un matrimonio compensatorio durato nove anni. Non mi sarei aspettata che alla fine di quella lunga e noiosa stagione avrei ritrovato il grande amore”.
Nella persona di chi?
“Di Enzo Mari. Mi sarei volentieri trasferita a Roma, volevo vivere nella bellezza meteca e sguaiata di quella città. Per Enzo decisi di andare a Milano. Era il 1966. Stiamo insieme da 48 anni. E nei suoi riguardi ho sviluppato un’ossessione amorosa”.
Che tradurrebbe come?
“Una situazione in cui sai che non puoi fare a meno dell’altro, anche se tutto consiglierebbe che dovresti allontanartene. È questo che intendo. Una malattia, come tutte le ossessioni”.
Lei ha scritto ne La vita, forse l’arte:”È un pezzo che Milano è diventata un luogo a forte rischio di ridicolo”. Di cosa l’accusa?
“Quando vi arrivai mi parve una città bruttina ma gradevole. Piena di voglia di fare. Adesso è giuliva come un cimitero. Una città sciagurata “.
Una città in ogni caso importante per l’arte.
“Per la musica continua a esserlo. Ma per il resto? E poi quando mai è stata rilevante per l’arte? Importanti furono Torino e Roma. Non certo Milano, la cui riconoscibilità finì con Lucio Fontana. Che fu un uomo stupendo e generoso. Assolutamente raro in un mondo afflitto da egolatria”.
Che visione si è fatta del mondo in cui vive?
“La visione vorrebbe essere disincantata”.
Crede in Dio?
“Non credo dall’età di 14 anni. Però certe notti, mentre mi rivolto nel letto, metto la testa sotto il cuscino e dico: chiunque tu sia fammi morire nel sonno. Almeno questo concedimelo”.
In cambio di cosa?
“Del dolore, dello smarrimento, dell’ansia, del panico. Sono conciata malissimo. Chiedo solo un piccolo risarcimento. Del resto questi ultimi anni sono stati un vortice di sorprese e non tutte gradevoli”.
Cosa è accaduto?
“Con Enzo ci siamo fortemente impoveriti. Siamo un esempio antropologico di quella classe media, un tempo orgogliosa e florida, oggi messa a durissima prova. Inoltre sono stata operata al cuore. Un organo ricostruito, come dico io, con dei pezzi presi da una mucca. Ogni volta che passo davanti a una macelleria penso al sacrificio di quei poveri animali”.
È sempre così paradossale?
“Paradossale? Diciamo lievemente patetica”.
E un po’ snob. Non trova?
“Lo snobismo è morto da tempo. Va di moda il grottesco. Lo snobismo fu un’arte difficile, severa, sempre sul punto di cadere nell’affettazione. Una snob straordinaria fu Virginia Woolf”.
Come del resto lo fu tutto il circolo di Bloomsbury.
“Me ne sono occupata. E sono giunta alla conclusione che solo Virginia poteva aspirare a quella forma di “santità”. Gli altri – come Lytton Strachey, Vanessa Bell, Duncan Grant e lo stesso grande economista Keynes – furono piuttosto personaggi intelligentissimi, curiosi e forniti di quella promiscua libertà che li portava, tra loro, ad andare a letto con tutti. Si opponevano al regime vittoriano e furono uno degli ultimi esempi di una società letteraria autoreferenziale”.
E lei?
“Io cosa?”.
Si sente dentro un mondo chiuso o autoreferenziale?
“Molte immagini esterne mi rimandano i miei stati d’animo. Ma cosa posso farci? Più invecchi e più ti isoli. I vecchi non credono più all’anagrafe. Ma c’è un momento della giornata in cui tornano giovani, quando avevano i loro sogni nelle tasche. Poi basta passare davanti a uno specchio o uscire da una doccia perché l’incantesimo si rompa”.
È il corpo che non mente?
“Ci parla. E non è arte. Non sono discorsi. È solo nuda vita”.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/03/02/news/lea_vergine_io_signora_dell_arte_mi_sento_una_derelitta_in_questo_mondo_dominato_dal_mercato-80075107/
TAVOLI. LUIGI ZOJA
di Claudio Franzoni, doppiozero.com, 3 marzo 2014
Piccolo, il tavolo, ma doppio; almeno nel momento in cui viene scattata questa fotografia. Infatti, sulla pila di carte a destra è appoggiato e ripiegato il foglio di un quotidiano tedesco; e con la pagina si piega anche la vignetta, a commento di un articolo sul tema del genocidio. Potrebbe essere la recensione di un libro curato da Sybille Steinbacher, Holocaust und Völkermorde (2012). Nella vignetta uno scheletro sta scavando una fossa – sotto un tavolo appunto –, forse quello di inutili trattative. Naturalmente è una coincidenza, ciò che conta è l’argomento della recensione; ma la tentazione è di pensare il contrario, tanto è attraente in motivo del doppio proprio lì dove lavora uno psicoanalista. Sta di fatto che il tavolo disegnato è come en abyme rispetto alla foto che ritrae il tavolo reale e le sue adiacenze. Lo spazio della scrivania è piccolo, si diceva, tanto che la stampante, collocata su un altro tavolinetto di legno, se ne prende una parte e lascia poco spazio a un portatile bianco e a tre pile di carte da un lato e dall’altro. A sinistra c’è un racconto di Henry Bauchau, Diotime et les lions (1991). Il libro copre in parte un volume edito da Le Monde, l’Atlas des utopies (2012). A destra, un altro volume: Walden and Other Writings di Henry David Thoreau, in una edizione del 1992. Il libro (1854) racconta i due anni passati da Thoreau quasi in solitudine, tra i boschi di Walden Pond (Concord, Massachusetts). Piccola irruzione dell’attualità sul vassoietto metallico di fronte al computer: un cartoncino rosso della campagna “L’Italia sono anch’io”. Ma ciò che colpisce di più, della fotografia, è la posizione del tavolo nella stanza, tutto addossato alla parete. Con ogni probabilità non è la parete con i suoi contenitori in cartone colorati, con i suoi dossier in bustine trasparenti, ad attrarre il tavolo. E’ la porta-finestra che si intravede nella parte alta della fotografia a condizionarne la posizione. Dietro alla porta-finestra dovrebbe esserci un balcone: c’è qualcosa da vedere, si direbbe. Una poltrona lì accanto sembra confermarlo: ci si siede a leggere, perché c’è più luce, ma anche perché c’è da guardare. Trent’anni fa Wolfgang Liebenwein dedicò un saggio, Studiolo, alla storia dei luoghi dedicati allo studio; se c’è un aspetto che ricorre di continuo, dal Medioevo fino all’età moderna, è la posizione elevata di questi ambienti, capaci di offrire una vista vasta e piacevole. Il luogo in cui si studia, per quanto da sempre di modeste proporzioni architettoniche, deve essere un luogo per aprire orizzonti. Che cosa si vede dal tavolo di Luigi Zoja? La porta finestra si apre su un giardino di città? O su alberi alti come quelli di Walden Pond?
Per vedere la foto dello studio:
http://www.doppiozero.com/materiali/speciali/tavoli-luigi-zoja
PSICOANALISI: COME LAVOREREBBERO FREUD E JUNG CON IL FIGLIO DI UNA COPPIA GAY?
Come si può prendere contatto con l’inconscio di un essere umano senza sapere dove e in che modo questo essere umano vive? Come se l’analisi fosse una bolla isolante, come se esistesse una storia solo personale, come se l’analista fosse esonerato dal pensare il mondo, o peggio, come se la dimensione sociale fosse un insieme di dati oggettivi? Il lavoro analitico è indissolubilmente intrecciato al tessuto sociale, ogni colloquio lo contiene e ne è contenuto. Intendo dire che il diritto, l’economia, la politica, il costume, la cultura sono alla base della struttura della personalità, conscia e inconscia, del paziente come dell’analista, e che quindi un lavoro che si concentri sui problemi e i desideri degli esseri umani deve tenerne conto.
Ma il diritto, la politica, l’economia, il costume e la cultura cambiano nel corso del tempo e dunque anche la psicoanalisi cambia, come tutte le cose, come noi stessi cambiamo. Ignorare queste trasformazioni non vorrebbe dire soltanto rinunciare a conoscere e a comprendere i nostri pazienti e noi stessi, ma significherebbe anche tradire il senso più profondo di ogni disciplina scientifica: quello di saper abbandonare l’ortodossia, la peggior nemica di ogni ricerca.
In questi anni molto è cambiato e a grande velocità. La fine dei blocchi contrapposti, la rivoluzione informatica, l’economia globalizzata, i diritti civili in ambito sessuale, la progressiva liberazione femminile, le nuove guerre nei paesi poveri, l’overshooting del pianeta hanno prodotto trasformazioni nello stile di vita, nel modo di pensare e di conoscere, generando nuove paure insieme a nuove opportunità. Nel nostro paese un drammatico risveglio ci costringe a vedere l’impoverimento, l’erosione dello Stato sociale, una generazione senza lavoro, la confusione fra i poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che sono alla base del nostro patto sociale, una banda di politici avidi e sanguinari, fieri della propria ignoranza, incapaci di governare, e anche solo di amministrare. Questo stato di cose sta cambiando la nostra vita, il nostro modo di reagire e le nostre abitudini consolidate.
Le conseguenze psichiche – sia personali che collettive – di questa situazione critica e turbolenta sono sotto i nostri occhi ogni giorno e quindi pensare il nostro lavoro anche solo come trent’anni fa è diventato impossibile. Come lavorerebbero Freud e Jung – solo per fare un esempio – con il figlio di una coppia lesbica? Come affronterebbero gli attacchi di panico, la violenza senza movente, il dilagare della pornografia sadica, l’apatia delle nuove generazioni? Come aiuterebbero un omosessuale che vuole fare coming out? Certo, la gran parte dell’impalcatura teorica tiene, ma oggi ci sono nuove situazioni da affrontare perché nuovo è il contesto sociale da cui traggono origine. E’ di queste nuove situazioni che scriverò in questo blog.
IL DRAMMA DEL LAVORO PERDUTO: ASSIEME SI AFFRONTA MEGLIO. Il «Barycentro» propone incontri guidati da uno psicologo. Domani il primo appuntamento di «Cantiere di parola»
Non è la prima volta. Ora il Barycentro di Port’Aquila, bar e libreria a fini sociali gestito dalla cooperativa Gruppo Spes, ci riprova. Insieme all’associazione Jonas, rete nazionale nata da un’idea dello psicoanalista Massimo Recalcati che si occupa delle varie forme del disagio contemporaneo ed ha una sede anche a Trento. Da domani e per quattro mercoledì è in programma «Cantiere di parola», incontri gratuiti per disoccupati. «Pensi che quando, la prima volta, abbiamo pensato a questa iniziativa – dice Marco Furgeri del Barycentro – in molti ci telefonavano perché pensavano che dessimo lavoro o fossimo degli intermediari. Adesso, anche con l’aiuto dei Centri per l’impiego che hanno dato la loro disponibilità a pubblicizzare l’iniziativa, siamo riusciti a tarare e a far capire meglio la proposta». Che in un momento di crisi come questo altro non è che uno spazio a disposizione per chi voglia relazionarsi con altri che si trovano nella medesima situazione. Non tanto uno sfogatoio ma la possibilità di intravedere, almeno psicologicamente, un futuro con qualche speranza. «Non saranno – afferma Furgeri – delle sedute terapeutiche e neanche un gruppo di auto mutuo aiuto. Piuttosto, un’occasione per confrontarsi sui propri vissuti». Al «Cantiere di parola» si sono iscritti in sei, tre uomini e altrettante donne. In molti hanno telefonato per informarsi di cosa si trattasse. Piccoli numeri. Ma parlare di sé, del proprio disagio causato magari da un lavoro di decenni ormai perso non è facile per nessuno. E ci vuole anche coraggio. A condurre gli incontri sarà lo psicoterapeuta e psicoanalista Mauro Milanaccio, responsabile di Jonas Trento. «Non farò altro che introdurre, la mia sarà un’azione passiva – sottolinea – Poi saranno i partecipanti a confrontarsi. Sarà uno spazio aperto dove parlare delle difficoltà, delle paure, delle preoccupazioni provocate dalla perdita del lavoro. Un luogo dove provare a ritrovare fiducia e speranza. Per tentare di non chiudersi in sé stessi raccontando invece la propria storia, con disponibilità di spirito, e cercare di reinventarsi. Cercheremo insomma di “smuovere” qualcosa. Certo non sarà dipeso magari da questi incontri, ma è almeno un buon segno, beneaugurante, che un paio di persone che hanno partecipato alla precedente edizione abbiano poi trovati un nuovo lavoro». Che il momento continui ad essere difficile è testimoniato pure da altri segnali, magari minimi, ma indicativi. Da un po’ di tempo al Barycentro c’è un angolo a disposizione degli hobbysti che mettono in mostra i loro oggetti di piccolo artigianato, dalla bambole di pezza agli accessori ricreati con bottoni e fili colorati. Sempre di più, rispetto al passato, sono quelli che oltre a mostrarli li mettono in vendita per ricavare qualche euro. E aumenta anche chi invece di comprarsi il cappotto nuovo “rigenera” quello vecchio. Come ci conferma Patrizia Salvalaio, appassionata di maglieria, che giovedì si incontrerà con chi fosse interessato e ad aprile terrà un laboratorio proprio al Barycentro.
http://trentinocorrierealpi.gelocal.it/cronaca/2014/03/04/news/il-dramma-del-lavoro-perduto-assieme-si-affronta-meglio-1.8779706
IL PAPA E FREUD
«Sigmund Freud diceva, se non sbaglio, che in ogni idealizzazione c’è un’aggressione». Lo dice papa Francesco nell’intervista rilasciata a Ferruccio De Bortoli e pubblicata sul Corriere della Sera e su La Nacion di Buenos Aires, in occasione del primo anno di pontificato (vd. Link qui sotto). Che un papa citi Freud è già sintomo di apertura mentale e di apertura al nostro tempo. Ma la cosa ancora più significativa è che lo citi con un’affermazione come questa. Il vedere nell’idealizzazione una minaccia, spiega la straordinaria libertà di questo Papa rispetto ai media. Quella libertà che gli permette con assoluta naturalezza di affrontare ogni situazione e ogni intervista, senza farsi problema davanti a nessuna domanda. Mi spiego: c’è stata una lunga stagione in cui il pontificato è stato enfatizzato mediaticamente, trasformato in attore di primo piano del grande spettacolo globale. Oggi Papa Francesco ha raffreddato in modo drastico questo ruolo del papato, tanto da definirsi in primis vescovo di Roma («Non mi aspettavo questo cambiamento di diocesi», dice con una sottile ironia oggi nell’intervista al Corriere). Ma l’accenno così tagliente e realistico al rischio di ogni idealizzazione, va aldilà della concezione del proprio ruolo. È una cosa che riguarda da vicino il modo con cui la cultura di oggi devia le aspettative degli uomini su figure mitiche, anche fossero figure buone. Ma così facendo, oltre ad esporsi al rischio di cocenti delusioni, si subisce un senso di impotenza: impossibile raggiungere il livello teorico dei personaggi idealizzati.
Francesco è molto pragmatico, è uomo che conosce le regole del mondo per cui sa come non farsi intrappolare. E sa che l’idealizzazione del suo ruolo è la trappola più pericolosa perché distoglie le persone dalla necessità di una responsabilità di ciascuno, verso un rinnovamento della chiesa e poi verso un necessario superamento delle sperequazioni economiche e e sociali che segnano il mondo d’oggi.
Francesco è il contrario dell’one man show, e la straordinaria simpatia umana che riscuote e che lo ha “costretto” per tutto l’inverno a tenere le udienze di mercoledì in piazza San Pietro per rispondere alle richieste, è qualcosa di potentemente altro rispetto al profilo della star. Francesco insomma, con la sua concretezza, tiene i media a stecchetto. Non permette spettacolarizzazioni, né strumentalizzazioni. Ma come in ogni cosa, Francesco apre strade percorribili da tutti: e così questo modo di tenere a bada i media, di non farsene cooptare mentalmente diventa pratica attuabile per ciascuno.
Certo ci vuole quella scaltrezza che non a caso Gesù auspicava nel Vangelo. Alla domanda trabocchetto sul perché abbia rinnovato il passaporto argentino, Francesco ha risposto seraficamente: «L’ho rinnovato perché scadeva». E a quella sul possibile viaggio in Argentina, domanda che implicava l’idea di un viaggio trionfale e celebrativo, Francesco spiega che sì gli piacerebbe tornare in patria per trovare sua sorella malata, ma «questo non giustifica un viaggio in Argentina: la chiamo per telefono e questo basta». Anche Freud applaudirebbe.
http://blog.vita.it/ricchiepoveri/2014/03/05/il-papa-e-freud/
L'intervista a Francesco di Ferruccio De Bortoli è disponibile qui:
DIMENTICHIAMO EDIPO. A FERIRE NELL’INTIMO SONO I TRAUMI DELL’INFANZIA. Freud addio, le neuroscienze riscoprono Janet
Sigmund Freud non ha scoperto l’inconscio. Nonostante la leggenda costruita dai vincitori di un confronto che ha segnato un’epoca, quando Freud iniziò a occuparsene esisteva già un concetto d’inconscio maturo e sviluppato. Si può affermare, con Ellenberger, che Freud, più che scoprire l’inconscio, ne formulò una sistematizzazione personale, della quale fu abile divulgatore: ebbe così tanto successo da far dimenticare tutte quelle precedenti.
Prima di Freud l’influenza dell’inconscio nella vita psicologica era un fatto tanto scontato che già Darwin utilizzò questo concetto per spiegare i comportamenti sessuali umani. L’influenza inconscia degli avvenimenti dimenticati, in particolare, era stata chiarita in psichiatria dagli studi sul trauma dello psichiatra francese Pierre Janet, il vero fondatore, dimenticato, della moderna psicologia del profondo.
Freud riconobbe solo in parte il suo debito nei confronti di Janet, il quale, infastidito, decise di consegnare alla storia la sua versione dei fatti, approfittando della ribalta del congresso internazionale di medicina di Londra del 1913, alla presenza dei maggiori psicoanalisti del tempo, escluso Freud.
Nella conferenza – di cui ho curato l’edizione per l’editore Bollati Boringhieri – Janet mosse una serie di critiche riconducibili a tre categorie: 1) L’accusa a Freud di aver solo rielaborato il sapere del tempo e di essersi appropriato, per la prima parte, delle scoperte dello stesso Janet; 2) l’approssimazione, la semplificazione e l’integralismo della metodologia di ricerca della psicoanalisi; 3) l’accusa di metafisica, misticismo e l’uso di strumenti più consoni a una setta che a una scuola di pensiero scientifica.
Inutile dire che Janet perse la sua battaglia e fu progressivamente emarginato. Quando morì, nel 1947, otto anni dopo Freud, sembrava un sopravvissuto. La sua opera rimase a lungo sepolta sotto abbondanti strati di polvere.
Persa una guerra, ce ne volle un’altra per dare inizio alla riscoperta di Janet. In questo caso si trattò della guerra del Vietnam. Negli Anni 70 gli Usa si trovarono di fronte al problema dei reduci che manifestavano serie patologie mentali. L’associazione «Vietnam Veterans Against the War» organizzò gruppi terapeutici con la partecipazione volontaria di psichiatri. L’iniziativa si diffuse rapidamente e portò a un rinnovato interesse verso gli studi sul trauma, che non poteva certo essere compreso in base al Complesso di Edipo freudiano. Come avviene in questi casi, gli psichiatri ripresero le opere degli autori che avevano scritto su quel tema, rivalutando studi dimenticati. Fu così che si trovarono di fronte alla «città sepolta» di Janet, che aveva descritto la dissociazione strutturale della personalità come il processo psicologico fondamentale con il quale l’individuo reagisce alle esperienze che lo sovrastano.
Le ricerche neuroscientifiche moderne sembrano dare ragione a Janet e mostrano come l’Io, la coscienza e l’inconscio non siano proprietà unitarie, com’erano immaginate da Freud, bensì il prodotto di insiemi e sottoinsiemi differenti, distribuiti nel cervello. Questi diversi stati psicologici sono ben coordinati da un individuo sano, che riesce a tollerare stati conflittuali di se stesso.
I pazienti che hanno subito un trauma grave perdono proprio la capacità di sintesi personale tra la moltitudine di impulsi interiori: questi sistemi diventano impermeabili gli uni agli altri e provocano comportamenti, emozioni, sentimenti e pensieri dissociati, impedendo così una vita equilibrata.
Mentre Janet evidenziava l’importanza del trauma nell’origine delle nevrosi, Freud sosteneva che il ruolo patogeno spettasse al conflitto tra pulsioni biologiche e norme sociali, mettendo l’accento sulle fantasie sessuali, in particolare quelle incestuose. Difficile pertanto non imputare all’influenza della psicoanalisi il ritardo con cui siamo giunti a capire che la maggior parte dei problemi psicologici deriva dall’accumulo di eventi traumatici ripetuti nel corso dello sviluppo infantile. Oggi, anche psicoanalisti freudiani stanno rivalutando Janet e l’idea che uno sviluppo traumatico infantile sia il fattore ambientale maggiormente patogeno, piuttosto che le fantasie incestuose come invece pensava Freud. Ed è proprio di uno psicoanalista, Philip Bromberg, la migliore immagine della situazione attuale: il fantasma di Janet, scacciato dal castello della cultura psicologica e analitica da Freud un secolo fa, torna oggi per tormentare i suoi discendenti.
http://rassegnastampa.unipi.it/rassegna/archivio/2014/03/05SIJ3049.PDF
CARLO DICE NO ALLA NEKNOMINATION: LA LIBERTA' VALE PIU' DI UNA SBRONZA
di Luigi Ballerini, ilsussidiario.net, 7 marzo 2014
Neknomination è un termine che i frequentatori di Facebook conoscono bene, soprattutto se hanno fra i loro contatti molti giovani o se lo sono loro stessi. È una pratica importata dall’Australia – dove è nata a gennaio – che si è rapidamente diffusa in Europa e ora anche da noi. Bastano alcune bottiglie di alcolici, una connessione in rete e una webcam per realizzare, nella sua forma più completa, una recita che prevede quattro atti. Atto primo: ci si attacca al collo della bottiglia (nek) di un alcolico e superalcolico, possibilmente fino a ubriacarsi. Atto secondo: si compie una bravata da ubriachi. Atto terzo: si posta il tutto in rete (perché ovviamente i primi due atti sono stati accuratamente filmati). Atto quarto: si nomina (nomination) qualcuno che entro 24 ore deve fare lo stesso. La “moda” ha già mietuto alcune vittime nel mondo, si parla di qualche decina di giovani morti per overdose di alcol o per le conseguenze dei gesti compiuti in completo stato di ebbrezza e incoscienza.
Per fortuna la pratica assume generalmente una forma molto più blanda, meno estrema, si riduce a scolare tutta di un fiato una bottiglia di birra e nominare successivamente una serie di amici che devono fare altrettanto. Fa una certa impressione tuttavia osservare come i (tantissimi) nominati non riescano a sottrarsi a perpetuare questa catena, anzi contribuiscano ad amplificarla nominando a loro volta più persone, trovandolo divertente. Si tratta di una “prova” da superare per testimoniare di essere forti, di non essere dei codardi, di essere forse grandi. Sottrarsi sarebbe interpretato come un gesto da pavidi, da deboli. Poco importa qui il contenuto della nomination, al quale potremmo mettere la classica x di indeterminatezza, resta il fatto che basta che l’altro mi nomini perché io debba eseguire. La nomina diventa infatti un comando irresistibile, cui sembra impossibile sottrarsi, cui il soggetto si sente costretto a obbedire per dimostrare a sé e al mondo dei pari di che pasta è fatto, la pasta dei duri, di quelli che non dicono no.
Che atto di forza e potenza sarebbe invece dire no! Significherebbe anteporre il proprio giudizio al comando di un altro, quel pensiero che fa valutare se un atto convenga realmente, se porta frutto o danno, se interessa davvero oppure no. All’appagamento narcisistico di un’impresa da postare ed esibire in rete si sostituirebbe allora la soddisfazione di un atto di pensiero che ha valutato il vantaggio del proprio operare e ha agito di conseguenza.
Sarebbe sufficiente considerare come il potere stia tutto dalla parte di ignorare la nomination, non seguirla. Non basta infatti che mi venga chiesta una cosa perché io la faccia, occorre che vi dia un assenso motivato e ragionevole. Per fortuna c’è anche chi ci riesce e la Rete gli rende merito. Proprio in questi giorni è diventato virale il video di Carlo Alberto, studente di giurisprudenza a Torino, che ha risposto alla nomina con una ironica tazzona di aranciata. Con la neknomination è in gioco per i più giovani anche la questione di chi è l’amico. Un amico che sfida non è quello che prova a incastrare l’altro pubblicamente in una nomina cercando di fare leva sul suo orgoglio. È piuttosto colui che propone idee e ipotesi interessanti, quello che offre la sua compagnia reale, quello che, semmai, ti porta fuori a gustare una birra insieme mentre si chiacchiera della vita invece di spingerti a tracannarla d’un fiato, senza neanche assaporarla. Dopo la notte degli Oscar, continuano a esserci tante nomination in rete. Troppe. In questo caso “the winner” è proprio chi sa tirarsi indietro, chi riesce a dire no grazie, a questo gioco non ci sto. Amico, nominami pure, ma per qualcosa che valga la pena. Io non aspetto altro.
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“UNDER THE DOME”, SOTTO LA CUPOLA CON STEPHEN KING: “ADORO SPAVENTARVI, PURE IN TV”. Il celebre scrittore è sul set della seconda stagione della serie tratta da uno dei suoi bestseller. È l’autore dei primi due episodi ma ne segue anche la realizzazione. Le riprese in corso in Sud Carolina
di Silvia Bizio, repubblica.it, 7 marzo 2014
Si gira la seconda stagione della serie fantascientifica Under the dome, tratta dal romanzo di Stephen King The dome, uscito nel 2009, ed è lo stesso scrittore, autore dell’episodio pilota della prima stagione, a mettere la firma sui primi due episodi della seconda. Sviluppata da Brian K. Vaughan (fumettista e sceneggiatore, produttore di alcune stagioni di Lost), Under the dome è andata in onda nel giugno scorso in America, e in Italia su RaiDue a luglio. La serie racconta la vita degli abitanti di una piccola città del Maine che, improvvisamente e inspiegabilmente, si trovano intrappolati sotto una misteriosa cupola trasparente e indistruttibile, che ricopre completamente la città. Senza internet, cellulari e telecomunicazioni di alcun tipo gli abitanti se la devono vedere con un crescendo di tensione, tra politici inetti, risorse in esaurimento e problemi di sicurezza. Abbiamo intervistato Stephen King via Skype mentre si trova in Sud Carolina per le riprese di Under the dome.
Mr. King, aveva già in testa l’intera storia di questa serie?
Rispetto al romanzo originale ci sono differenze, ma le ho approvate tutte, erano necessarie per rendere questo uno show adatto alla televisione. Alcuni personaggi fanno lavori diversi, e i tempi delle azioni sono più lunghi rispetto a quelli del libro. Tuttavia la sostanza resta la stessa, e con mia grande soddisfazione in questi nuovi episodi iniziamo a far luce sui problemi che si stanno sviluppando nella città, dalla sovrappopolazione, all’esaurimento delle riserve di cibo, all’inquinamento. Sono felice, perché invidiavo le serie come Trono di spade e Walking Dead che vanno avanti per tante stagioni e si evolvono insieme agli spettatori. E’ una bella sfida, la seconda stagione di qualsiasi serie è sempre ostica, non hai mai la certezza che il pubblico ritorni, ma senza sfide non so vivere”.
Che differenze ci sono tra scrivere un romanzo e sceneggiare una serie tv?
A dire il vero il processo di scrittura in sé è molto simile. Inizi a visualizzare i personaggi ed entri nel loro mondo. Anzi, quando scrivo una sceneggiatura è ancora più duro per me alzarmi dalla scrivania e ritornare alla realtà, perché entro nel vivo dell’azione. Diventa un mondo parallelo, vedo con l’occhio della telecamera”.
Lei ama scrivere di incubi, conflitti, poteri soprannaturali, ma nella vita reale, di cosa ha paura?
Non sono un tipo pauroso, penso di aver passato tutte le mie paure nei libri che ho scritto. Spesso mi chiedono se nella mia infanzia ho vissuto delle esperienze molto negative che mi hanno fatto crescere così, ma a dire il vero, no. Ho sempre avuto una grande immaginazione, e per me scrivere è una psicoanalisi all’inverso. Se uno ha delle paure va da uno psicoanalista e paga 120 dollari l’ora per superarle; io invece le metto su carta e vengo anche pagato per questo. E poi mi piace spaventare la gente! Credo che l’unico evento traumatico che mi ha davvero spaventato è stato nel 1999 quando venni investito da un’automobile. Ho rischiato di morire, e peggio ancora di diventare un vegetale. Sono stati anni in cui erano il dolore e la depressione ad avere il sopravvento nelle mie giornate, avevo deciso di smettere di scrivere. Per fortuna mi sono ripreso, i dolori si sono attenuati, le idee hanno ricominciato a circolare nella mia testa, ed eccomi qui oggi”.
Che rapporto ha con il cinema e il mondo di oggi?
Cerco di non perdere mai il contatto con il mondo vero, con la cultura popolare, con i giovani, con il cinema e la televisione. Vedo molti film. Non ricordo un film che abbia davvero odiato… Ad essere sincero uno sì, Transformers, sono uscito dalla sala dopo 20 minuti per quanto era brutto e rumoroso. Ma cerco di essere aperto a tutti i generi. Quest’anno ho davvero apprezzato Blue Jasmine e American Hustle.
Come gestisce le idee e il lavoro quotidiano?
C’era un tempo in cui avevo la testa talmente piena di idee che mi sentivo scoppiare. Quasi odiavo scrivere un romanzo perché avrei voluto scriverne altri mille in contemporanea. Scrivere un romanzo è come essere sposato, devi essere fedele al tuo libro come a tua moglie. Se camminando per strada vedi una bella ragazza te la devi dimenticare, così se ti viene in mente una nuova idea devi riporla temporaneamente e concentrarti su quello che stai facendo. Tanto, se sono idee buone, si può star sicuri che resteranno vive nella testa. Oggi, a 66 anni, ho sempre tante idee, ma è diverso rispetto al vulcano che ero a 40 anni. I miei due figli, entrambi scrittori, sono sempre pieni di idee, ricordano me quando ero giovane, pieno d’entusiasmo.
Per il video:
http://www.repubblica.it/spettacoli/tv-radio/2014/03/06/news/the_dome_stephen_king-80304754/
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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