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Io speriamo che me la cavo

10 Mar 14

A cura di Redazione Psychiatry On Line Italia

Ezio Mauro in un recente editoriale dopo aver elencato lucidamente una serie di motivi che facevano disperare sul futuro del governo che stava nascendo, concludeva che, proprio per questo, Matteo Renzi era condannato a far bene. Come dire che un medico, che manifestamente non sa che pesci pigliare, sia condannato, perché non può fare altrimenti, a salvare il suo paziente.
Non potendo scappare dall'ospedale, come sicuramente l'ipotetico paziente avrebbe fatto, gli italiani potrebbero essere tentati a assecondare la conclusione paradossale di Mauro. In realtà tutti nel loro intimo sanno bene che dal nuovo governo e dall'attuale situazione politica (Berlusconi, Renzi, Grillo) non ci si può aspettare nulla di buono come, più o meno, dalla polmonite. Nessuno, anche il più incallito degli ottimisti, scambia la malattia con il rimedio e la rassegnata speranza di resurrezione nasconde appena il ragionevole pessimismo collettivo.
L'idea che gli italiani siano tradizionalmente alla ricerca dell'uomo della provvidenza (diventata un luogo comune) non è credibile: nessuno degli uomini che ha preteso di incarnare in sé l'avvenire del paese ha mai ottenuto una vera maggioranza di consensi. Ci si avvicina di più alla comprensione della realtà attuale rispolverando un libro di venticinque anni fa: "Io speriamo che me la cavo" di Marcello D'Orta. Il titolo del libro, una presentazione di temi scritti dai bambini di una scuola elementare della provincia di Napoli, è  dato dalla frase con cui uno degli alunni conclude un suo tema sulla "fine del mondo".  Il libro era stato presentato all'epoca come genuino spaccato di una realtà difficile vista con gli occhi dei bambini, in cui, nonostante la corruzione, la camorra e l'abdicazione dell'autorità statale, l'onestà e la dignità continuavano ad essere dei valori pur tra mille contraddizioni e difficoltà. 
Riconsiderandolo oggi, quando i suoi protagonisti di allora sono diventati adulti e con il senno di poi, il suo senso si rivela diverso: speranza di una salvezza personale avulsa dalla prospettiva di un riscatto collettivo  -reso inverosimile dal clima di stagnazione che col passare degli anni si esteso dalla periferia di Napoli e dal sud a tutto il paese. Nulla può rappresentare meglio l'atteggiamento psicologico  degli italiani nei confronti della paralisi permanente in cui vivono da parecchio tempo, di questo narcisismo di sopravvivenza che, sotto la superficie della delega irragionevole al demagogo di turno, funziona come argine contro l'angoscia di un drammatico sconvolgimento della loro vita.
La dissoluzione progressiva dei legami dei cittadini con la polis e la loro trasformazione in individui coltivatori del proprio giardino, che sottende l'investimento narcisistico del futuro, vanno di pari passo con la convinzione che la soluzione della crisi verrà da sviluppi esterni alla loro volontà, sui quali non possono influire. Come nelle epidemie. nelle carestie e nelle guerre si fa ricorso all'esperienza, direttamente vissuta o trasmessa dalle generazioni precedenti, dell'alternarsi della cattiva e della buona sorte e si aspetta il sole dopo il diluvio con l'auspicio che ciascuno fa per conto suo che non tocchi proprio a lui affogare. C'è del buono in questo atteggiamento (che esprime fiducia nel mondo in cui si vive e nel suo avvenire e proietta il singolo individuo oltre le avversità) ma a parte il fatto che è meglio prevenire le catastrofi invece di aspettare la loro fine, bisogna pure essere consapevoli che nel persistere nell'attesa di tempi migliori si raschia il fondo del barile.      

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