La fluidità e la comprensibilità della comunicazione all’interno della famiglia, così come la risonanza emotiva che la caratterizza, è fondamentale per l’acquisizione di legami di attaccamento sicuri e lo sviluppo di una buona capacità di mentalizzazione. Esiste un’ampia e documentata varietà di modelli teorici cui riferirsi per la comprensione delle famiglie ed alcuni di questi utilizzano un approccio operazionale, vale a dire si avvalgono di strumenti psicometrici in grado di valutare i diversi stili familiari. Il più conosciuto di questi metodi è forse il MacMaster Model of Family Functioning (MMFF), messo a punto da Bishop, Epstein & Levin (1978), che fornisce una cornice teorico/concettuale per la valutazione e la diagnosi del funzionamento familiare. Uno degli strumenti che il MMFF utilizza è il Family Assessment Device (FAD), questionario composto da 60 item ad auto-somministrazione per la valutazione dello stile di funzionamento familiare su specifiche aree (Epstein et al., 1983, 2000). Epstein e collaboratori propongono di classificare le famiglie secondo i punteggi ottenuti rispetto a sei dimensioni:
- “Problem Solving”: fa riferimento alla capacità della famiglia di risolvere i problemi mantenendo un funzionamento globale efficace;
- “Comunicazione”: misura lo scambio d’informazioni all’interno della famiglia lungo un continuum i cui poli opposti sono “chiara e diretta” e “confusa e indiretta”;
- “Ruoli Familiari”: valuta le strutture comportamentali ridondanti in base alle quali i singoli membri adempiono alle funzioni della famiglia;
- “Risonanza Emotiva” e “Coinvolgimento Affettivo”: mettono a fuoco la gamma familiare delle risposte affettive e il grado in cui i componenti valorizzano le attività e gli interessi degli altri;
- “Controllo del Comportamento”: definisce lo stile adottato dalla famiglia nello stabilire le norme e le regole, e il grado di scostamento da esse che è disposta a tollerare;
- “Funzionamento Generale”: dà indicazioni di come viene percepito il funzionamento globale dell’intero nucleo familiare.
Nel cinema sono innumerevoli gli esempi di stili familiari proposti. Una selezione di film centrati su questo argomento è praticamente impossibile. Per dare un’idea IMDb, il più grande data-base di ricerca sul cinema, elenca attualmente 10.673 film sulle relazioni familiari e 1.445 film sulla famiglia disfunzionale. E’ un materiale immenso, ricco di informazioni e denso di spunti. Tra i tanti esempi possibili, ho selezionato alcune scene che utilizzo per la didattica sulla comunicazione. Queste scene si riferiscono ad occasioni in cui un protagonista improvvisamente rivela la propria idea di come sono andate le cose. Definirei questo momento come “lo svelamento”. Trovo che sia interessante l’analisi di queste scene, perché in esse si rivelano meccanismi nascosti di funzionamento familiare, proprio come avviene nel corso delle psicoterapie, quando improvvisamente emergono verità fino ad allora nascoste.
In Gente comune di Robert Redford (1980), Conrad non ha potuto salvare dall’annegamento il fratello maggiore Buck, con cui era uscito in barca durante una tempesta, e per i sensi di colpa ha poi cercato di suicidarsi. Mentre il padre cerca di aiutarlo, la madre lo rimprovera della morte del fratello, il figlio prediletto. Con l’aiuto di uno psichiatra informale ed empatico, Conrad riesce a elaborare i propri sentimenti e a realizzare il vero ruolo avuto durante la tempesta. Riesce così a stare di nuovo bene, grazie anche all’innamoramento per una coetanea e allo shock per il suicidio dell’amica, Karen, conosciuta in ospedale. Padre e madre non riusciranno invece a ricomporre la loro unione. Il film, molto convenzionale, propone uno stile familiare permeato di un’eticità upper class tipicamente americana, come il primato della forza morale, l’importanza della fisicità virile, il valore della capacità di riscatto. Il titolo chiarisce l’idea che dinamiche familiari distorte possono essere presenti in qualunque famiglia. La psicopatologia dei protagonisti è descritta in modo puntuale e senza mezze tinte. Le interazioni con la madre comunicano tutto l’imbarazzo derivante dall’incomunicabilità dei sentimenti. Lei è una persona rigida, legata alle convenzioni sociali, incapace di aperture affettive, con un comportamento marcatamente ostile. Il padre cerca di mediare tra il desiderio di proteggere il figlio e l’algidità della moglie.
Lo svelamento avviene quando padre e madre si confrontano e lui definisce l’incapacità di lei di saper amare qualcuno se non Buck, e lei a quel punto abbandona la famiglia. Padre e figlio allora si riuniscono e si parlano con affetto, con una profondità mai espressa prima. La sceneggiatura è di immediato impatto emotivo, ma ad un’analisi critica soffre di una eccessiva semplificazione delle situazioni e dei dialoghi, con una marcata dicotomizzazione della famiglia, da una parte la madre e Buck e dall’altra il padre e Conrad. La mancata elaborazione del lutto è alla base della separazione finale con espulsione della madre “cattiva”. Si potrebbe però anche dire che le comunicazioni superficiali hanno mantenuto formalmente insieme la famiglia, mentre le verità più vere ne sanciscono la fine. Questo avviene anche nella realtà di alcune famiglie.
La famiglia di Ettore Scola (1987) ritrae una famiglia borghese italiana vista dall’interno di un appartamento del rione Prati di Roma. Il protagonista Carlo è seguito dal suo battesimo fino all'ottantesimo compleanno. La storia procede con bruschi salti di circa un decennio che dividono il film in nove parti, ognuna introdotta da una lunga carrellata sul corridoio dell’appartamento.
Lo svelamento avviene nella nona e ultima parte del film, tra Carlo e suo fratello Giulio. Carlo confessa a Giulio che trenta anni prima non aveva neppure degnato di uno sguardo il romanzo che Giulio gli aveva dato per un parere preventivo. Ora Carlo l’ha letto trovandolo "bellissimo, pieno di sensibilità". Ovviamente ora non è più pubblicabile, mentre forse trent'anni prima avrebbe risolto i problemi economici di Giulio. Colpisce in questo caso come i pregiudizi intra-familiari (Carlo non avrebbe mai ritenuto Giulio capace di scrivere) uniti alla decisione di non dire al verità, portino a decisioni che hanno conseguenze di rilievo.
Interiors di Woody Allen (1978) descrive una famiglia americana colta e benestante, nella quale esplodono insofferenze, insicurezze, frustrazioni. La madre, personalità depressivo-anancastica, non riesce a rassegnarsi all’abbandono del marito e, quando lui si risposa, si suicida annegandosi sulla spiaggia davanti alla loro casa sulla West Coast. Nel film sono delineati con accuratezza tutti i personaggi, dalla madre anaffettiva e intrusiva delle vite altrui, alle figlie ognuna con una nevrosi personale, al padre abbastanza sano, il cui cammino professionale è stato plasmato dalla moglie, ma che alla fine decide di risposarsi con una donna iperaffettiva, semplice, concreta ed estroversa, all’opposto della prima moglie.
Lo svelamento avviene quando nel corso di una seduta psicoanalitica una delle tre figlie, Renata, confessa la gelosia per sua sorella Joey prediletta dal padre, e rievoca la scena familiare che si svolge a tavola – presenti i genitori e le due figlie Renata e Joey – in cui il padre, descrivendosi come “marito decente e un padre responsabile”, comunica senza rammarico di aver preso la decisione di andare via di casa. La scena si svolge fin dove è possibile con grande compostezza formale, nel tentativo del padre di mantenere sotto controllo una situazione di portata drammatica. I tempi e i modi della comunicazione sono evidentemente sbagliati (perché il padre non ne ha parlato prima con la moglie?) a causa della confusione dei ruoli e delle comunicazioni familiari.
La mia vita a Garden State di Zach Braff (2004) narra la breve visita che Andrew, giovane attore che lavora in realtà come cameriere a Los Angeles, compie al paese natale nel New Jersey (il Garden State), dove rincontra il padre (psichiatra) e i suoi vecchi amici. Andrew è un ragazzo apatico, abulico e spaesato. Il suo ritorno a casa avviene perché la madre, paraplegica, è morta per affogamento nella vasca da bagno. Scopriamo che da quando aveva nove anni, Andrew è in terapia con psicofarmaci (litio e svariati antidepressivi) prescritti dal padre nell’illusione di renderlo felice. Alla base di tutto c’è un incidente involontario avvenuto quando da bambino Andrew aveva reso paraplegica la madre, già fortemente depressa. I sensi di colpa, unitamente all’incomunicabilità con il padre e agli stessi farmaci, avevano reso Andrew progressivamente apatico, portandolo infine alla decisione di tentare la fortuna in California. Nel suo breve soggiorno nel Garden State, Andrew conosce Sam, una ragazza strampalata e solare, con la quale inizia a riscoprire il sapore della vita. Il film si regge sulla recitazione vagamente surreale del protagonista, che rende piuttosto bene il senso dell’impossibilità di avvertire sentimenti vitali e di partecipare alle esperienze dei suoi amici. D’altronde, se Andrew è sotto psicofarmaci, i suoi amici sono dediti alla cocaina e all’alcol, in un quadro desolante di tristezze e fallimenti. Un aspetto centrale del film è la feroce critica agli psicofarmaci, che Andrew assume acriticamente in grande abbondanza da anni. Il responsabile di questo misfatto è il padre, che ha fatto da psichiatra al figlio in modo dissennato, così come aveva fatto con la moglie depressa.
Lo svelamento è quello che si svolge nel dialogo finale tra padre e figlio, quando Andrew inchioda il padre alla sua responsabilità di averlo condannato (sadicamente) ad una ricerca della felicità attraverso la chimica. Il padre peraltro dice “sono sicuro che ci sono molte cose nella tua vita per le quali puoi essere arrabbiato, ma quello che non capisco è perché tu sei arrabbiato con me. Io non ho mai desiderato altro che vedere tutti felici, di nuovo felici. …… Potremmo provarci [ad essere di nuovo felici] se riesci a perdonarti per quello che hai fatto”. Andrew gli dice allora che forse quello che la mamma voleva più di tutto era farla finita e che invece era lui, Andrew, a dover perdonare il padre per tutti i farmaci che gli aveva dato. Il padre allora dice “contravvenire alle prescrizioni del tuo medico è un esperimento piuttosto rischioso, non credi?” (!!). Vediamo anche in questo caso come le rappresentazioni personali sganciate dal confronto con la realtà (modalità pre-mentalizzante del “fare finta”) condizionino le vite delle famiglie per molti anni.
Come ultimo esempio porto Dolce è la vita di Mike Leigh (1990), che descrive la vita quotidiana in una famiglia della lower class inglese. Le due figlie gemelle ventenni sono diversissime: Natalie è attenta, collaborativa e disponibile, ma ha abdicato a una propria femminilità, acconciandosi da maschio e scegliendo di fare il mestiere dell’idraulico; Nicola è gratuitamente aggressiva verso tutti, confusa e arrabbiata con il mondo, affamata di sesso e anoressica. Nicola rappresenta il problema maggiore della famiglia, per l’odio che comunica e per i suoi comportamenti inadeguati. Di notte si abbuffa e vomita, di giorno accoglie clandestinamente in casa un ragazzo con cui pratica giochi sessuali perversi, attualizzando la sua convinzione che i maschi siano solo stupratori, pervertiti e approfittatori. Il ragazzo, che vorrebbe in realtà valorizzarla, deve a un certo punto arrendersi e lasciarla. Attorno alla famiglia girano amici e conoscenti incapaci, complessati e approfittatori. Ciò che regge il tutto è l’unione tra i genitori e il loro sforzo di non arrendersi al quotidiano. Un poco alla volta si apre una breccia in Nicola, che inizia a rendersi conto di avere raggiunto il fondo. Inizia un dialogo con la madre e Natalie, e forse questo è l’inizio di un riscatto personale.
Lo svelamento è quello tra madre e Nicola, quando la prima le rivela tutto l’amore che le ha dato e del quale Nicola non sembra avere coscienza. Le spiega che quando aveva diciassette anni Nicola stessa aveva corso un serio pericolo di vita e che tutti erano stati angosciati per lei. La madre le racconta altri particolari della sua vita e di come fosse stato difficile per loro far fronte alle difficoltà economiche e alle rinunce necessarie ad andare avanti. Questa scena demarca uno spartiacque netto tra uno stile di comunicazione superficiale e leggero presente in famiglia (soprattutto da parte della madre) precedente, ed uno successivo più adeguato e partecipe tra i membri familiari. Forse c’era la necessità di varcare una determinata soglia emotiva, purtuttavia una riflessione è necessaria sull’inadeguatezza della figura materna, pur nella sua simpatia, nel rappresentare un’identità femminile valida.
Un’adeguata capacità di comunicare, una chiara definizione dei ruoli dei singoli all’interno della famiglia, un caldo coinvolgimento affettivo, uno stile di comportamento sufficientemente elastico e la capacità di risolvere insieme i problemi sono alla base di un buon funzionamento della famiglia. Le scene di svelamento che ho presentato possono rappresentare un esempio per una riflessione sui meccanismi familiari che sono alla base di tanti comportamenti disfunzionali. Ci si deve ricordare che i disturbi mentali sono in buona parte frutto di relazioni patologiche nate e cresciute all’interno della famiglia. Coinvolgere le famiglie nel trattamento, al fine di migliorarne lo stile comunicativo, si rivela perciò con una certa frequenza l’arma vincente per ottenere risultati non solo sul singolo paziente ma anche su tutti i componenti della famiglia. E’ importante che questi concetti facciano parte del bagaglio professionale del professionista della psiche.
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