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CUORI E INTERRRUTTORI

8 Mag 14

A cura di FRANCESCO BOLLORINO

Nella notte dei tempi gli uomini venivano al mondo senza cuore, li aveva voluti così il Padreterno per preservarli dal dolore:“per ogni questione troveranno una risposta razionale e in pace ed ordi-ne cresceranno nell’Universo di cui saranno i Principi.”- si era detto nel fare quella scelta.
In effetti le cose andavano così come Egli aveva previsto con l’unico difetto che le sue creature pre-ferite cresceva¬no e si moltiplicavano secondo sani programmi pianificati senza, però, riuscire nemmeno per un attimo ad essere felici.
Il Padreterno molto si lagnò con i suoi più stretti collabo¬ratori per questa situazione ma alla fine di rapide e mag¬matiche cogitazioni pose mano ad una prima modifica di quegli esseri a lui tanto cari, dotando ogni uomo di un cuore pulsante senti¬menti ed emozioni, sperando di ovviare con ciò ad un difetto tanto evidente quanto, con la sua onnipotenza, facilmente riparabile.
Così potranno godere delle bellezze del creato e far salire fin quassù l’amore per me che tutto ciò ho loro donato”- si disse il Padreterno, contento della sua decisione e convinto dei buoni risultati che avrebbe sortito.
Purtroppo le sue aspettative andarono in parte deluse: se da un lato, infatti, gli uomini incomincia-rono ad emozionarsi e ad amarsi, dall’altro iniziarono anche a odiarsi e a soffrire senza che la men-te che comprende le cose sempre dopo e sempre parzialmente potesse in qualche modo limitare il dolore, che divenne da quel giorno il compagno fedele del principe dell’Universo.
Credevo di renderli immuni dalla sofferenza facendoli senza cuore e invece li avevo creati immuni dalla felicità, ho dato loro un cuore per far loro provare le emozioni ma ciò che giunge da laggiù è solo un grido di dolore, impastato appena con qualche spruzzo di felicità; sarà meglio che trovi una nuova modifica, definitiva e certa.”- disse il Padreterno al suo segretario particolare e al suo biografo che lo accompagnavano, come ogni giorno, nella sua passeggiatina tra le stelle del firmamento.
Detto fatto, Egli dotò ogni uomo di un interruttore per spegnere e accendere il cuore e contestualmente gli donò la facoltà di scegliere in quale posizione tenerlo a secon¬da delle necessità del momento; convocò, quindi, i suoi angeli preferiti e distesosi a pancia in giù sulle nuvole, la lunga bar-ba bianca appoggiata sulle mani intrecciate, le gambe dondolanti piegate all’insù, si mise con curiosità ad osservare il risultato della seconda modifica.

A essere onesti e obiettivi e, lo potete ben immaginare, Dio lo era molto con se stesso, i risultati non erano all’altezza delle aspettative, per essere più chiari potremmo dire che la situazione, che si pre-sentava davanti ai suoi occhi beatissimi, si poteva definire, con divino eufemismo, un po’ confusa: vi erano, certo, uomini che cor¬rettamente utilizzavano la nuova possibilità a loro data, trovando un tempo per il sentimento ed un tempo per il raziocinio accanto a uomini che tenevano gelosamente sempre spento il loro cuore per paura, per scelta, per necessità, per convenienza; inoltre, da una parte vi erano un certo numero di uomini che, appena dotati della modifica, cominciarono ad accendere e spegnere l’interruttore provocando un gran sconcerto tra i loro simili per il repentino cambiamento di stile, dall’altra vi era il problema delle accensioni accidentali o involontarie che finivano per distrarre con la luce di un tramonto o con il suono di una voce o con l’odore di una pel-le o con il lampo di uno sguardo atarassici periodi di ritiro e sconquassare tranquilli momenti di meditazione matematica provocando invasioni improvvise di emozioni inaspettate e guai a non finire; in sovrappiù, vi era poi il macroscopico problema degli incontri tra umani con una costellazione di innumerevoli possibilità di combinazione: potevano incontrarsi felicemente, infatti, esseri con il cuore di entrambi acceso, o, tristemente, esseri con il cuore spento o, peggio, uno col cuore acceso e l’altro col cuore spento o, ancora, umani col cuore spento recalcitranti all’idea di lasciare che un altro glielo accendesse o ancora esseri col cuore spento ed il desiderio di lasciare che qual-cuno spostasse il loro interruttore, accendendoli, che incontravano altri esseri non disposti a compiere tale operazione perché non disposti in assoluto avendo il loro interruttore spento o perché in attesa di una particolare accensione che tardava ad arrivare, per non parlare poi di quelli che ave-vano dimenticato la collocazione del loro interruttore e spendevano i loro giorni nel vano tentativo di spegnere o accendere il loro cuore: insomma una alchimia di rapporti e situazioni veramente esplosiva Iddio scosse la testa, rassegnato a porre mano ad un’ennesima modifica, ma poi, per un attimo, ristette, rendendosi conto che forse più di così, nella sua infinita sapienza, non poteva fare per quegli esseri tanto complicati che aveva voluto a popolare il mondo; diede uno sguardo di nuovo a quel groviglio di ingegno, razionalità, sentimento e contraddizione che alla fin fine aveva creato, decise di chiamarlo Vita e sorridendo ritornò finalmente soddisfatto alla sua casa in cima al Cielo.

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3 Commenti

  1. sansoni.riccardo

    Buona sera, ho letto con
    Buona sera, ho letto con simpatia l’articolo sulla “corrente alternata” in amore e volevo condividere con voi una mia riflessione su di una questione a cui da tempo penso.
    Ovviamente in relazione mie esperienze personali, mi sono sempre chiesto: cosa resta di un amore quando la storia finisce? Dove va? Nel cestino o vive segretamente nell’animo? Vive o è un ricordo bianco e nero? Può dar vita a fenomeni di stranizione…..sono nel presente ma vorrei fosse tutto come prima? Cos’è il ricordo…..negazione rimozione o sublimazione? O un po’ di tutto?
    Questa è l’essenza della sofferenza amorosa: una risposta c’è!!!……ma è nascosta in luoghi profondi dell’animo. Nel nostro e, ancora più difficile e impossibile da raggiungere, nell’animo della persona amata e perduta. È possibile che intimamente l’amore resista alla separazione?! “Il cuore ha le sue ragioni che la ragione non puo capire”.
    Ho letto le lezioni di Massimo Recalcati su Lacan ed il seminario XX. Sono molto dense e profonde. Il vero amore, se non mi inganno, dovrebbe essere quello che coniuga Desiderio e godimento….quello che parte dalla pulsione per l’oggetto e riesce a dare significato all’amante e all’amata, ma non semplicemente quale oggetto o immagine riflessa dell’amante, ma quale Altro. In altre parole, nell’amore ciascuno deve dare significato e risposta alla solitudine dell’altro e ne deve ricevere contemporaneamente la medesima risposta, ma non solo…… In più, ed in ciò sta la differenza tra amore vero ed amore narcisistico, il partner deve essere in grado di trovare ed attribuirmi il mio vero e reale significato…..deve capire cosa io rappresento per me e non limitarsi ad attibuirmi l’immagine che lui vuole di me.
    Non è facile capirlo, figuriamoci attuarlo. Ogniuno ha i propri interessi e non so se Amore sia possibile per mezzo dell’amore stesso, cioè della pratica della comprensione, del darsi significato e del cercare di leggere l’altrui significato a vicenda o se, piuttosto, necessiti di fondo una certa compatibilità di linguaggio e di valori tra i soggetti della coppia……
    Recalcati dice, in modo condivisibile, che l’uomo è attratto dal pezzo, dall’esemplare unico, dal feticcio, dalla donna bella. La donna invece gode nel sentirsi l’unica.
    Cosa accade, quando gli interruttori creano il cortocircuito? Nelle lezioni su Lacan si dice che la sofferenza maschile sia maggiore. L’uomo soffre della perdita dell’oggetto. Mi è capitato di rimanere imbrigliato a pensare perchè mi mancasse spesso una fidanzata passata piuttosto dell’altra. Più bellina? Più dolce? Mancanza dell’oggetto o dolore per non aver piu trovato qualcosa che si avvicinasse cosi tanto al Desiderio e alle mie proiezioni? D’accordo la fine della storia genera rimpianto nell’uomo. Cosa accade nella donna? (Conoscerlo può servire ad elaborare il lutto) Recalcati dice che possono soffrire la paura della perdita dell’oggetto ma che una volta perso sono più plastiche nell’elaborazione del lutto. La donna è piu abituta alla castrazione e al sacrificio. Appena trova qualcuno che la faccia sentire unica dimentica tutto? o se la storia precedente ha scavato maggiormente nell’Altro…..nel suo reale significato…… tutto ciò conserva maggiore significato….. Vivo o ricordo sbiadito? Uomini e donne sono davvero cosi diversi?! lo stolking è un fenomeno patologico prevalentemente maschile, cosa prova una donna quando la storia finisce perché amore e sentimento c’era ma anhe i problemi? Personalmente non ho mai avuto modo di avere una mezza risposta……forse colpa mia o delle persone che ho scelto…… Oppure è il fare femminile che puo amare all’infinto ed anche odiare allo stesso modo?!
    Grazie

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  2. admin

    INVITI SUPERFLUI di Dino
    INVITI SUPERFLUI di Dino Buzzati

    Vorrei che tu venissi da me in una sera d’inverno e, stretti insieme dietro i vetri, guardando la solitudine delle strade buie e gelate, ricordassimo gli inverni delle favole, dove si visse insieme senza saperlo.

    Per gli stessi sentieri fatati passammo infatti tu ed io, con passi timidi, insieme andammo attraverso le foreste piene di lupi, e i medesimi genii ci spiavano dai ciuffi di muschio sospesi alle torri, tra svolazzare di corvi.

    Insieme, senza saperlo, di là forse guardammo entrambi verso la vita misteriosa, che ci aspettava.Ivi palpitarono in noi per la prima volta pazzi e teneri desideri. “Ti ricordi?” ci diremo l’un l’altro, stringendoci dolcemente, nella calda stanza, e tu mi sorriderai fiduciosa mentre fuori daran tetro suono le lamiere scosse dal vento.

    Ma tu – ora mi ricordo – non conosci le favole antiche dei re senza nome, degli orchi e dei giardini stregati. Mai passasti, rapita, sotto gli alberi magici che parlano con voce umana, né battesti mai alla porta del castello deserto, né camminasti nella notte verso il lume lontano lontano, né ti addormentasti sotto le stelle d’Oriente, cullata da piroga sacra. Dietro i vetri, nella sera d’inverno, probabilmente noi rimarremo muti, io perdendomi nelle favole morte, tu in altre cure a me ignote. Io chiederei “Ti ricordi?”, ma tu non ricorderesti.

    Vorrei con te passeggiare, un giorno di primavera, col cielo di color grigio e ancora qualche vecchia foglia dell’anno prima trascinata per le strade dal vento, nei quartieri della periferia; e che fosse domenica. In tali contrade sorgono spesso pensieri malinconici e grandi, e in date ore vaga la poesia congiungendo i cuori di quelli che si vogliono bene.

    Nascono inoltre speranze che non si sanno dire, favorite dagli orizzonti sterminati dietro le case, dai treni fuggenti, dalle nuvole del settentrione. Ci terremo semplicemente per mano e andremo con passo leggero, dicendo cose insensate, stupide e care. Fino a che si accenderanno i lampioni e dai casamenti squallidi usciranno le storie sinistre delle città, le avventure, i vagheggiati romanzi. E allora noi taceremo, sempre tenendoci per mano, poiché le anime si parleranno senza parola.

    Ma tu – adesso mi ricordo – mai mi dicesti cose insensate, stupide e care. Né puoi quindi amare quelle domeniche che dico, né l’anima tua sa parlare alla mia in silenzio, né riconosci all’ora giusta l’incantesimo delle città, né le speranze che scendono dal settentrione. Tu preferisci le luci, la folla, gli uomini che ti guardano, le vie dove dicono si possa incontrar la fortuna. Tu sei diversa da me e se venissi quel giorno a passeggiare, ti lamenteresti di essere stanca; solo questo e nient’altro.

    Vorrei anche andare con te d’estate in una valle solitaria, continuamente ridendo per le cose più semplici, ad esplorare i segreti dei boschi, delle strade bianche, di certe case abbandonate. Fermarci sul ponte di legno a guardare l’acqua che passa, ascoltare nei pali del telegrafo quella lunga storia senza fine che viene da un capo del mondo e chissà dove andrà mai. E strappare i fiori dei prati e qui, distesi sull’erba, nel silenzio del sole, contemplare gli abissi del cielo e le bianche nuvolette che passano e le cime delle montagne.

    Tu diresti “Che bello!”. Niente altro diresti perché noi saremmo felici; avendo il nostro corpo perduto il peso degli anni, le anime divenute fresche, come se fossero nate allora. Ma tu – ora che ci penso – tu ti guarderesti attorno senza capire, ho paura, e ti fermeresti preoccupata a esaminare una calza, mi chiederesti un’altra sigaretta, impaziente di fare ritorno.

    E non diresti “Che bello! “, ma altre povere cose che a me non importano. Perché purtroppo sei fatta così. E non saremmo neppure per un istante felici. Vorrei pure – lasciami dire – vorrei con te sottobraccio attraversare le grandi vie della città in un tramonto di novembre, quando il cielo è di puro cristallo. Quando i fantasmi della vita corrono sopra le cupole e sfiorano la gente nera, in fondo alla fossa delle strade, già colme di inquietudini. Quando memorie di età beate e nuovi presagi passano sopra la terra, lasciando dietro di sé una specie di musica.

    Con la candida superbia dei bambini guarderemo le facce degli altri, migliaia e migliaia, che a fiumi ci trascorrono accanto. Noi manderemo senza saperlo luce di gioia e tutti saran costretti a guardarci, non per invidia e malanimo; bensì sorridendo un poco, con sentimento di bontà, per via della sera che guarisce le debolezze dell’uomo. Ma tu – lo capisco bene – invece di guardare il cielo di cristallo e gli aerei colonnati battuti dall’estremo sole, vorrai fermarti a guardare le vetrine, gli ori, le ricchezze, le sete, quelle cose meschine. E non ti accorgerai quindi dei fantasmi, né dei presentimenti che passano, né ti sentirai, come me, chiamata a sorte orgogliosa. Né udresti quella specie di musica, né capiresti perché la gente ci guardi con occhi buoni.

    Tu penseresti al tuo povero domani e inutilmente sopra di te le statue d’oro sulle guglie alzeranno le spade agli ultimi raggi. Ed io sarei solo. È inutile. Forse tutte queste sono sciocchezze, e tu migliore di me, non presumendo tanto dalla vita. Forse hai ragione tu e sarebbe stupido tentare. Ma almeno, questo sì almeno, vorrei rivederti. Sia quel che sia, noi staremo insieme in qualche modo, e troveremo la gioia. Non importa se di giorno o di notte, d’estate o d’autunno, in un paese sconosciuto, in una casa disadorna, in una squallida locanda.

    Mi basterà averti vicina. Io non starò qui ad ascoltare – ti prometto – gli scricchiolii misteriosi del tetto, né guarderò le nubi, né darò retta alle musiche o al vento. Rinuncerò a queste cose inutili, che pure io amo. Avrò pazienza se non capirai ciò che ti dico, se parlerai di fatti a me strani, se ti lamenterai dei vestiti vecchi e dei soldi. Non ci saranno la cosiddetta poesia, le comuni speranze, le mestizie così amiche all’amore. Ma io ti avrò vicina.

    E riusciremo, vedrai, a essere abbastanza felici, con molta semplicità, uomo con donna solamente, come suole accadere in ogni parte del mondo. Ma tu – adesso ci penso – sei troppo lontana, centinaia e centinaia di chilometri difficili a valicare. Tu sei dentro a una vita che ignoro, e gli altri uomini ti sono accanto, a cui probabilmente sorridi, come a me nei tempi passati. Ed è bastato poco tempo perché ti dimenticassi di me. Probabilmente non riesci più a ricordare il mio nome. Io sono ormai uscito da te, confuso fra le innumerevoli ombre. Eppure non so pensare che a te, e mi piace dirti queste cose.

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    • sansoni.riccardo

      Chissà come andrà a
      Chissà come andrà a finire?!…

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