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Maggio I – Indagini sul pensiero: insegnare, perdonare, dipingere, sognare, scrivere…

12 Mag 14

A cura di Luca Ribolini

ADULTI E BAMBINI: IMPARARE INSIEME

di Lea Melandri, 27esimaora.corriere.it, 1 maggio 2014
 
Adulti e bambini. Come imparare, divertirsi e modificarsi insieme a loro. Nel diario in cui lo psicanalista Elvio Fachinelli scriveva le sue osservazioni sull’asilo autogestito di Porta Ticinese (1969-1971), si legge: «…la distruttività di Nino fa veramente venire la voglia di prenderlo a schiaffi -e se lo si facesse, non faremmo probabilmente che ripetere l’atteggiamento coercitivo di suo padre, a cui egli appunto risponde prendendo a calci le cose e così via. Per tentare di sciogliere queste membra paralizzate è essenziale che si presenti al bambino un adulto diverso».
L’esperienza, a cui si riferisce Fachinelli, si colloca in un particolare contesto storico- quello della “dissidenza giovanile” del ’68, ma penso abbia molto da dire anche sui problemi educativi che si trova ad affrontare oggi la scuola.
L’idea di creare un’«istituzione modello per l’educazione collettiva» era nata, non a caso, nel controcorso della Facoltà di Pedagogia dell’Università Statale di Milano, con l’obiettivo di recuperare all’educazione e alla politica «i rapporti col corpo, con la dimensione biologica degli individui».
Dietro c’era la convinzione che l’autoritarismo comincia dall’infanzia, dai rapporti famigliari, per cui, se non si vogliono far crescere individui passivi, sfiduciati o violenti, era necessario abituare i bambini a un’«autoregolazione più naturale, non coercitiva». Questo era possibile solo se si stabiliva, tra adulto e bambino «un uso reciproco, in vista di un reciproco imparare, divertirsi e modificarsi insieme». È la stessa idea su cui si muoveva in quegli anni la pratica non autoritaria degli insegnanti in altri ordini di scuola e da cui uscirà il libro L’erba voglio (Einaudi 1971) e la rivista omonima (1971-1977).
Nella Prefazione si sottolineava il fatto che i rapporti di potere erano gestiti in modo sempre più burocratico e anonimo; si parlava di “depersonalizzazione” –cancellazione di sé come progetto e desiderio -, di incipiente “servitù di massa”. Per contrastarla erano importanti la “presa di parola” di tutti, la pratica assembleare, la critica alla divisione tra chi decide e chi esegue, la ricerca di un’uguaglianza tra diversi.
Si può dire che dalla scuola partiva un capovolgimento di valori e priorità tra vita e cultura, vita e politica, che avrebbe dovuto investire la società tutta intera. Ciò che era stato considerato fino allora il “fuori tema” rispetto alla conoscenza, ai saperi tradizionali, diventava “il tema”.
Si profilava, in sostanza, a partire dagli asili, l’uscita da tutte le contrapposizioni che abbiamo ereditato – corpo/pensiero, natura/ cultura, individuo/società, ecc.- e quindi anche un’idea diversa di ciò che è “reale” e “possibile”. In una nota redazione sulla rivista L’erba voglio (n.1. luglio 1971) scrivevamo: «Per poter veramente lavorare con le gente, per poterla concretamente toccare, bisogna passare, non è ironia, proprio attraverso i suoi sogni». Direi che il movimento non autoritario nella scuola e il femminismo, che nasce negli stessi anni, sono stati per un verso il sintomo della modificazione dei confini tra privato e pubblico, per l’altro l’embrione di un’idea politica ripensata sulla base di tutto ciò che era stato considerato fino allora “non politico”: la soggettività, la vita personale, il corpo e le vicende che lo attraversano, in particolare il rapporto tra i sessi.
L’originalità dell’analisi di Elvio Fachinelli sta nell’aver spinto la psicanalisi ad andare “oltre” il suo campo specifico, che è stato quello dell’individuo, per interrogare i “nuovi paesaggi” aperti dai giovani e dalle donne, ma anche per mettere in evidenza i processi sempre più totalitari di intervento diretto sulla formazione degli individui. Quello che è avvenuto dopo, per effetto di una società sempre più consumista e incline allo spettacolo, è stata la perdita totale di confini.
Il privato, il corpo, la sessualità, l’immaginario, l’inconscio, hanno oggi un protagonismo sulla scena pubblica che non hanno mai avuto in precedenza. Caduti molti divieti e tabù, insieme all’autoritarismo patriarcale, ci troviamo di fronte a una società che assomiglia un po’ a quella descritta da Fachinelli nel suo articolo Masse a tre anni: tutto è lecito, compresa la legge del più forte. Ma c’è un aspetto ancora più inquietante, ed è quello che sembra confondere in un tutto magmatico le “diversità”, comprese quelle generazionali. Non si capisce più chi è l’adulto e chi il bambino, o perché persi in un sogno di contemporaneità, eterna giovinezza, o perché i mezzi di comunicazione e le maggiori consapevolezze, di cui oggi dispone un adolescente, lo rendono più autorevole dei genitori. Non è raro sentire ragazzi che dicono di fare da sostegno a un padre, a una madre, di raccoglierne le confidenze.
La crisi della famiglia tradizionale, la messa in discussione del ruoli genitoriali, è come se li rendesse mentalmente adulti prima del tempo, pur restando emotivamente bambini. È evidente che oggi la scuola e la politica non hanno più davanti un “cittadino” astratto ma un “individuo” nella sua interezza, coi suoi bisogni essenziali e i suoi desideri di partecipazione alla vita comune.
L’intuizione degli anni anni ’70 – “il personale è politico”- appare più attuale di allora. Un cambiamento carico di conseguenze anche sul piano educativo è sicuramente quello che riguarda il rapporto tra uomini e donne. Se vogliamo parlare di “disorientamento”, direi che è soprattutto maschile. Gli uomini hanno ereditato inconsapevolmente l’idea che le donne vivono in funzione dell’altro sesso, che il loro compito – come diceva Rousseau – era di «allevare gli uomini da piccoli, averne cura da grandi, consigliarli, rendere loro la vita piacevole e dolce». Quando la donna non è più nel luogo dove pensa di trovarla, quando afferma la libertà di chiudere un rapporto, l’uomo realizza la sua dipendenza e reagisce col rancore con la violenza, una violenza che spesso rivolta su di sé, uccidendosi, come se insieme all’amore dell’altra perdesse anche l’amore di se stesso.
È chiaro che la critica delle identità di genere, tradizionalmente intese, ha delle ricadute educative. Cambiando i rapporti di potere, la divisione sessuale del lavoro, l’idea di virilità e femminilità, si modificano anche le figure genitoriali: i figli avranno davanti sempre di più, anziché padri e madri, individui con le loro passioni, i loro interessi.
In altre parole: adulti capaci – come scriveva Elvio Fachinelli – di «imparare, divertirsi, modificarsi insieme a loro».
http://27esimaora.corriere.it/articolo/adulti-e-bambini-imparare-insieme/
 
 

ELOGIO DEL PERDONO IN AMORE, LE RAGIONI DI UN BISOGNO

di Elisabetta Ambrosi, sexandthestress.vanityfair.it, 2 maggio 2014
Chi è appassionato di libri o ama curiosare negli inserti che indicano i titoli in vetta alle classifiche avrà potuto notare che da settimane e settimane ormai uno dei libri di saggistica più venduti è quello dello psicoanalista Massimo RecalcatiNiente è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Cortina). Al di là del fatto che Recalcati è un autore molto noto, e particolarmente prolifico, che ha saputo divulgare molto bene un pensatore complesso come Lacan, credo che il motivo del successo risieda soprattutto nel titolo. E ovviamente nel concetto che porta con sé. “Niente è più come prima”: una frase che allude a qualcosa di accaduto tra due persone. Una ferita, una delusione, probabilmente un tradimento. Una frase che in qualche modo non nega come un evento doloroso, ad esempio un tradimento appunto, segni in una storia d’amore un prima o dopo. Qualcosa che non si può ignorare. Ma poi quel sottotitolo apparentemente in contrasto: elogio del perdono nella vita amorosa, che invece invita comunque a elaborare il lutto, ad accettarlo, anzi a trasformarlo.
 
«IL SUCCESSO DEL LIBRO DI MASSIMO RECALCATI, SULL’ELOGIO DEL PERDONO IN AMORE, È LA SPIA DI UN BISOGNO. QUELLO DI ACCETTARE UNA FERITA, SPESSO UN TRADIMENTO, E SAPERLA TRASFORMARE, SENZA DOVER INTERROMPERE UN RAPPORTO BENIGNO E DESIDERATO.»
 
Non c’è dubbio: se il perdono è veramente tale, se cioè coinvolge davvero tutte le parti di chi perdona, non solo la ragione mentre le emozioni profonde restano fuori, allora di sicuro diventa uno strumento formidabile per continuare a stare insieme ma anche, soprattutto, per essere felici. Chi perdona è libero, in un certo senso si mette sopra, non subisce la situazione, può andare avanti, può sopportare un dolore per poi lasciarlo andare. Vive meglio di chi invece è assediato dalla gelosia, schiavo di passioni di possesso e rancore. Credo però che dietro il successo di un libro che elogia il perdono in amore ci sia anche un’altra ragione. Non la definirei più triste, ma sicuramente più emblematica dei tempi che viviamo. Angosciati da una crisi economica che ci ha fatto perdere molte speranze, assediati da messaggi che ci dicono che è meglio attestarsi sulla difesa di ciò che abbiamo più che cambiare, gettarci in nuove imprese, rischiare forse non abbiamo altra scelte che, appunto, difendere il nostro patrimonio lavorativo ma anche affettivo. In breve, non solo il lavoro ma anche una relazione d’amore. Come se ormai fossimo convinti che “là fuori”, nel mondo, c’è solo da perdere, non ci sono sorprese se non negative, non c’è nulla, insomma, che ci aspetta. In termini di diritti civili ma anche, in paradossale sintonia, amorosi.
 
«DI SICURO IL PERDONO, SE COINVOLGE ANCHE LE EMOZIONI, E NON SOLO LA TESTA, DI CHI PERDONA, È UNO STRUMENTO FORMIDABILE PER ESSERE FELICI. CHI PERDONA È LIBERO, SI METTE SOPRA»
 
Forse è così, forse la precarietà economica è diventata anche una frammentazione sentimentale spaventosa, con l’esigenza in crescita di trovare punti fermi, qualcosa a cui appoggiarsi nel fluttuare degli eventi e nell’incertezza, soprattutto psicologica, che viviamo. E poi curare un rapporto, saperlo nutrire nonostante tutto ciò che accade, è sicuramente una capacità meravigliosa, che non può che portare effetti benigni. Mi verrebbe da dire se non fosse dettata dalla paura, ma anche questa considerazione non ha molto senso visto che i sentimenti sono legati alla situazione sociale ed economica, e se il nostro tempo produce maggiore cura anche per la paura di perdere ciò che si ha non è necessariamente vero che quella cura abbia meno valore. Ma un certo rimpianto verso un mondo di relazioni diverso, dove ad una ferita si può anche rispondere con un addio, dove ci si lasci con passione, sia pure di rabbia, dove soprattutto si possano fare scelte amorose più fluide, senza l’angoscia del domani, ecco questo rimpianto ce l’ho. E coincide col sogno di una società che appoggi concretamente le scelte di indipendenza e libertà di chi la abita, invece che scoraggiarle e punirle.
 
«MA RESTO CONVINTA CHE, IN PARTE LA NECESSITÀ DEL PERDONO NASCA ANCHE DA UNA SOCIETÀ IN CRISI ECONOMICA. CHE INVITA DI FATTO A DIFENDERE E CURARE QUELLO CHE SI HA E CHE INVECE SCORAGGIA CHI TENTA DI CAMBIARE, DI FARE SCELTE DI INDIPENDENZA E LIBERTÀ»
 
http://sexandthestress.vanityfair.it/2014/05/02/elogio-del-perdono-in-amore-le-ragioni-di-un-bisogno/
 
 

(NON) SAPER VEDERE. SGUARDI INCROCIATI E CECITÀ DI PSICOANALISI, NEUROSCIENZE E PSICOLOGIA SPERIMENTALE

di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 3 maggio 2014
È noto che noi maschi non vediamo la giacca nell’armadio, la camicia nel cassetto, talvolta neanche la birra nel frigorifero. Oggetti che invece improvvisamente si materializzano quando le nostre più o meno divertite o spazientite partners ce li “fanno vedere”.
Anche alcune scienze non hanno saputo (e tanto meno voluto) reciprocamente vedersi, almeno fino a poco tempo fa: la psicologia sperimentale (e in particolare il cognitivismo), la psicoanalisi e le neuroscienze. Come bene illustra Antonio Imbasciati professore emerito di Psicologia Clinica all’Università degli Studi di Brescia nonché psicanalista e autore con Loredana Cena di  Neuroscienze e teoria psicoanalitica, “la psicoanalisi ha ignorato la complessità dell’apprendimento” , mentre “gli sperimentalisti hanno studiato l’apprendimento ignorando lo studio del lavoro inconscio”.
Neuroscienze e psicoanalisi – aggiunge Loredana Cena Professore Associato di psicologia Clinica, all’Università di Brescia, psicoterapeuta, nonché co-autrice del saggio – hanno un comune oggetto di indagine: il cervello/mente, studiato da vertici differenti: la psicoanalisi studia la mente esplorandola con altre menti, mentre le neuroscienze studiano il cervello nei processi biologici sottesi ai processi mentali”. Lo studio dei fenomeni psichici, scrive ancora Cena, “è stato affrontato prevalentemente secondo una visione dicotomica di indagine, biologica per il cervello e psicologica per la mente, prospettive che riflettono una difficoltà storica di dialogo tra le due scienze, biologiche e psicologiche”… “Gli attuali sviluppi delle neuroscienze…stanno aprendo prospettive di superamento di questa dicotomia mente/cervello, per una visione integrata del funzionamento mentale”. Uno dei meriti del saggio “ Neuroscienze e teoria psicoanalitica “, edito da Springer nel gennaio scorso e disponibile anche come eBook, è appunto di dar conto degli sviluppi di queste scienze e degli straordinari risultati – peraltro ancora provvisori – consentiti dal sia pur timido dialogo da poco avviato tra loro. Lo stesso saggio citato è il risultato di un incontro tra persone – e dunque anche tra le loro diverse emozioni, storie, memorie e idee – avvenuto in occasione del congresso “Psicoanalisi senza teoria freudiana” e del Seminario Internazionale “Psicoanalisi e Neuroscienze” svoltisi nella Facoltà di Medicina dell’Università di Brescia nel novembre 2012*.
Platone avrebbe forse lasciato da parte il libro partecipando invece al simposio. Egli è stato infatti tra i primi a sostenere che per la trasmissione di conoscenze non bastano i libri, è necessario invece uno scambio (synousia) costante tra l’allievo e il maestro, anzi “il motore dello scambio filosofico è l’amore, la philía” (Harrison). Nella (verosimilmente) sua settima lettera scrive infatti Platone: “questa non è una scienza che si possa insegnare come le altre: è qualcosa che nasce all’improvviso nell’anima dopo un lungo rapporto (synousia) e una convivenza assidua con l’argomento, come la scintilla che scaturisce dal fuoco e poi si nutre di se stessa” (Platone, cit. da Harrison, in Giardini ).
Le neuroscienze gli danno oggi ragione. Quello che conta infatti non solo ai fini della trasmissione della conoscenza, dunque dell’apprendimento, ma della stessa costruzione e del funzionamento del cervello è l’esperienza vissuta, un’esperienza che è sempre in relazione con l’altro, dunque intersoggettiva. Questa in estrema sintesi la scintilla del libro e del congresso, anzi il nuovo paradigma, che potrebbe risolvere dualismi e contrapposizioni tra le scienze citate. “L’esperienza…centrata e modulata sulle e dalle relazioni interpersonali…struttura la morfologia del cervello e ne costruisce la funzionalità… e questa strutturazione a sua volta condiziona il peculiare modo con cui quel soggetto [quel preciso individuo] farà esperienza” (Imbasciati).
Tutti noi abbiamo fatto esperienza di quanto siano decisivi i rapporti vivi e vissuti con i nostri genitori, fratelli, sorelle, amici, amiche, insegnanti, colleghi/e, per imparare a costruire la nostra identità e le nostre relazioni con il mondo e con gli altri. Una delle geniali intuizioni di Freud è stata quella di capire quanto sia decisivo il rapporto tra paziente e terapeuta per comprendere, modificare e rendere meno dolorose le relazioni del paziente con sé stesso, gli altri e il mondo e quanto giochi l’inconscio in tutte queste relazioni.
Nel frattempo la psicoanalisi si è ampiamente evoluta dal modello freudiano sia nella teoria che nella pratica clinica. Non è però cambiata di molto nell’immaginario collettivo in cui l’analista viene ancora (spesso) visto come il detective chiamato a individuare gli indizi del trauma infantile, svelato il quale poi la patologia magicamente svanirà. Indicativi in tal senso gli straordinari films di Hitchcock, primo tra tutti Marnie.
Nella realtà clinica della psicanalisi e nelle psicoterapie ad indirizzo psicoanalitico il detective è sparito da un pezzo e con lui le interpretazioni dei contenuti come unico e/o decisivo mezzo dell’analisi. Già nel 1970 Balint in ‘Six minutes for the patient’ scriveva “Adesso non viene più richiesta al medico la soluzione di avvincenti enigmi e problemi ma un…preciso “modularsi” (tune in) sulla frequenza delle comunicazioni del paziente”. Almeno da allora, ma in realtà fin da molto prima, l’attenzione del terapeuta e della teoria psicanalitica è piuttosto centrata sulla ricerca dell’adeguata lunghezza d’onda (Balint), della sintonizzazione affettiva (Stern) tra paziente e terapeuta. Ma tale modulazione affettiva ricrea e, se possibile, rimodella un altro rapporto affettivo ancora più importante, quello tra madre e bambino. L’analogia, già ampiamente intuita da Freud, è divenuta però da tempo oggetto di ricerca scientifica sperimentale. Da un lato tutti gli straordinari lavori dell’infant research, dei cosiddetti baby watchers (dalla Bick, a Bowlby, alla Ainsworth a Winnicott, a Stern alla Beebe) hanno consentito di filmare, monitorare e evidenziare con riproducibile obiettività i comportamenti, gli atteggiamenti, le mimiche e le micro-espressioni decisive nell’interazione madre-bambino fino ad individuare obiettivi stili di attaccamento e di interazione madre-bambino destinati a permanere nel tempo e ad influenzare le successive modalità di relazione dell’individuo adulto.
D’altra parte (alcune) basi neurofisiologiche della stessa capacità di comprensione e modulazione affettiva tra individui, dunque dell’empatia, sono state individuate negli ormai famosi neuroni specchio, scoperti da un team di ricercatori dell’Università di Parma (Fadiga, Fogassi, Gallese, Rizzolatti) già agli inizi degli anni ’90. Quando osserviamo gli altri si attivano in noi le stesse aree cerebrali che presiedono alle azioni/emozioni delle persone osservate, ma in noi le vie che conducono all’azione sono bloccate. Nell’osservazione dell’azione altrui scatta in noi un una simulazione molto particolare che Gallese definisce “incarnata” perché essa avviene automaticamente, prima di ogni consapevolezza, “in un formato corporeo di rappresentazione, non linguistico”. “L’intersoggettività – scrive Gallese nel bel capitolo “Tra neuroni ed esperienza” del citato saggio – è prima di tutto intercorporeità”. Ovvero “detto in termini molto grezzi per sintetizzare, non nasciamo autistici e poi scopriamo che c’è anche l’altro, imparando a socializzare. L’altro è già fin dall’inizio co-presente”. Gallese suggerisce inoltre che la teoria della simulazione incarnata “può essere rilevante per la psicoanalisi” e aggiungerei per capire il funzionamento di ogni psicoterapia.
Perché la psicoterapia sia efficace è infatti necessario che paziente e terapeuta si incontrino (anche) su quella particolare lunghezza d’onda, già indicata, molto simile a quella del rapporto madre-bambino. In questi particolari momenti terapeutici, come nell’interazione madre-bambino conta di più il non detto, l’atmosfera affettiva che si crea. Balint per indicare momenti analoghi nel rapporto medico-paziente aveva parlato di “flash”, un illuminante “fulmine di comprensione” tra paziente e terapeuta. È come se “una luce si fosse accesa – scrive Enid Balint. E col fuoco torniamo alla scintilla platonica. Questi momenti di sintonia sono fondamentali perché organizzano diversamente l’esperienza di sé stessi. Proprio tali momenti di incontro, pure sottoposti ad uno studio sperimentale sempre più approfondito, promuovono secondo Stern il cambiamento nella psicoterapia. “Studi di neuroimaging dimostrano il collegamento tra effetti terapeutici e modificazioni dei circuiti neurocerebrali” (Cena).
Sono solo pochi cenni sui risultati del promettente ma da molti ancora osteggiato tentativo di integrazione della teoria della mente illustrato nel saggio. Vi sono ancora tanti scotomi, tanta consapevole ed inconsapevole cecità. Vi sono ancora oggi psicanalisti che ritengono che le neuroscienze li distolgano (sic!) dal loro compito; illustri esperti e commentatori di cose psichiche che accomunano la psicanalisi alle medicine alternative (sic!). Sono forse inevitabili resistenze di fronte a quel processo di integrazione tra cognitivismo, psicoanalisi e neuroscienze già prognosticato, descritto e in parte realizzato dal premio Nobel Kandel È una sua allieva, la bresciana Cristina M. Alberini ad aprire il saggio, con un affascinante capitolo sulla memoria. La Alberini cita proprio Freud che in una lettera a Fliess scriveva più di cent’anni fa “la memoria non è presente una sola volta, non si ricrea e non permane come una traccia unica, ma continua a ritornare o a rinnovarsi”. “Negli ultimi vent’anni – conferma la Alberini – si è dimostrato che, in linea con il pensiero di Freud il consolidamento della memoria non avviene una sola volta” ma passa attraverso un complesso processo di riconsolidamento delle memorie che ella stessa con i suoi collaboratori nel suo laboratorio newyorkese ha contribuito a delineare.
Credo che nulla meglio di questo avvincente mix tra le “vecchie” parole di Freud e gli attualissimi risultati della ricerca di laboratorio illustri l’utilità (e la necessità) dell’integrazione tra queste discipline, per l’innovazione e il benessere di tutti noi. Perché in fondo come ricorda Fonagy – citato da Merciai nel suo appassionato e documentatissimo capitolo “Cavarsela alla meno peggio” – “C’è un cervello solo: non c’è un cervello della terapia cognitivo-comportamentale, un cervello psicoanalitico, un cervello sistemico e un cervello kleiniano. Alla fine dei conti ci sono solo poche cose che fanno stare meglio le persone e sono queste le cose che dobbiamo davvero capire”.
Dal congresso internazionale ‘Psicoanalisi senza teoria freudiana’ sono in realtà risultati due saggi: dalle prime due giornate è risultato “ Psicoanalisi senza teoria freudiana “, di A. Imbasciati, Borla, Roma, 2013 che fa il punto sull’enorme sviluppo della clinica psicoanalitica, rimasto però fino ad ora privo di adeguata ed aggiornata formulazione teorica “scientifica”; dal Seminario Internazionale “Psicoanalisi e Neuroscienze: verso una nuova teoria della mente” promosso e organizzato da Loredana Cena come prosecuzione dell’International Congress “Psychoanalysis and Neuroscience” tenutosi nel 2010 a New York, è scaturito appunto “Neuroscienze e teoria psicoanalitica. Verso una teoria integrata del funzionamento mentale”, Springer, Milano, 2014).
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/03/non-saper-vedere-sguardi-e-cecita-di-psicoanalisi-neuroscienze-e-psicologia-sperimentale/
 
 

JANE MCADAM, L’IMPORTANZA DI CHIAMARSI FREUD. I volti del padre Lucien e del bisnonno Sigmund nella mostra On Identity.Alla galleria Martini & Ronchetti un “album di famiglia” dalla pronipote di Sigmund 

di Stefano Bigazzi, genova.repubblica.it, 3 maggio 2014
SCELTA inevitabile ricostruire un passato nella rete di relazioni familiari, inevitabile per scelta personale al di là delle facili allusioni. Jane McAdam Freud inaugura mercoledì alla galleria Martini & Ronchetti (via Roma 9, ore 18) On Identity, personale di sculture e opere di diversa elaborazione che hanno al centro la ricerca del dettato interiore mediato dalla privazione. È figlia dell’artista Lucien Freud e pronipote di Sigmund, vissuta senza il padre  –  separazione  –  e senza il cognome del padre  –  eliso dalla madre quale simbolica (e che simbolo) cesura del rapporto coniugale  –  recuperato anagraficamente e interiormente in un successivo lavorio interiore, legale e culturale. Sono opere mai esposte, “scelte con lei a Londra  –  spiega Giovanni Battista Martini  –  sul tema dell’identità: con i suoi trascorsi lavora su una dimensione familiare, di sofferenza. Ritrae se stessa, il padre e il bisnonno e li mette a confronto, significato molto legato alla sua storia. Come nell’immagine del padre morente su cui sovrappone un reticolo di carte, una texture che nasconde e evidenzia nello stesso tempo, mentre le sculture sono realizzate con una rete metallica che salda e piega, a rispecchiamento di se stessa con le figure che le sono state negate: Jane Freud ha trascorso un anno nello studio del bisnonno, studiando gli oggetti, disegnandoli come reperti, come un’eredità visiva”. Un procedimento di ricognizione visiva che dalla sottrazione del ricordo conduce a una ricomposizione dello stesso, replicando (come in un album di famiglia) le figure di Lucien e di Sigmund  –  il valore simbolico della paternità e della patriarcalità da un lato, quello dell’arte (il padre) e della scienza cui affidare la ricerca (il bisnonno) dall’altro  –  in più versioni, nelle quali inserirsi  –  il recupero dell’identità  –  in un fotomontaggio esemplare. “L’evento espositivo  –  scrive Viana Conti nel testo critico a corredo  –  risponde ad una selezione di opere sottesa alla tematica dell’identità… scelta che orienta, necessariamente, ma anche ampiamente e senza particolari preclusioni, il campo di lettura nonché gli strumenti di analisi critica. Negli effetti di rispecchiamento, di presa di distanza, a partire dalla complessa costellazione familiare, affiorano e prendono evidenza formale e virtuale le figure dell’identità e dell’alterità, della somiglianza, del doppio, del frammento, della copia speculare, della memoria, del dispositivo di appropriazione, del percorso di individuazione e di appartenenza genealogica, psicologica, sociale, culturale, artistica.
Martedì alle 18 Jane McAdam Freud sarà a Palazzo Ducale alle presentazione del volume Intanto rimaniamo uniti. Lettere ai figli di Sigmund Freud (Archinto) con Nicola Davide Angerame, filosofo e critico d’arte, Viana Conti, critico d’arte, Luca Trabucco, psichiatra. Introducono Luigi Maccioni, psichiatra, e Giovanni Battista Martini, architetto e gallerista.
http://genova.repubblica.it/cronaca/2014/05/03/news/jane_mcadam_l_importanza_di_chiamarsi_freud-85105037/
 
 

NEI RAGAZZINI PIÙ DI UN INCUBO SU TRE RIGUARDA IL BULLISMO. Circa il 36 per cento degli brutti sogni degli adolescenti ha a che fare con episodi di prevaricazione vissuti a scuola e tra i coetanei

di Emanuela Di Pasqua, corriere.it, 6 maggio 2014
 
Ossessionati dai bulli: sono i ragazzini e i bambini di oggi che in quella che viene definita dalla psicanalisi «rappresentazione scenica della realtà», ovvero nel sogno, riportano tutte le cicatrici della vita reale. Gli incubi notturni dei bambini sono infatti popolati nel 36 per cento dei casi da episodi riconducibili al bullismo, responsabili di poco meno della metà dei casi di problemi di sonno. Un esercito di bimbi e giovani che lamenta sogni agitati e problemi nel ritmo circadiano è vittima di bullismo e l’immaginario onirico ricorda loro nei sogni notturni questa difficile condizione. Ad affermarlo è uno studio dell’Università inglese di Warwick, presentato al meeting annuale delle Pediatric Academic Societies di Vancouver, che fa luce sull’inconscio dei più piccoli e fa scattare l’allarme.
Segnali preoccupanti
Come sottolinea Suzet Tanya Leyera, alla guida dello studio, gli incubi sono estremamente ricorrenti nell’infanzia e riguardano circa il 24,2 per cento dei bambini, mentre il 12,6 per cento ha esperienze di sonnambulismo. Ma quando i sogni brutti interferiscono con il sonno e sono troppo prolungati è segno che a monte c’è una situazione problematica e che l’incubo, di per sé quasi fisiologico, è da interpretare come un segnale preoccupante. Gli studiosi hanno esaminato un campione di 6.400 bambini intervistandoli e monitorandoli negli anni e riscontrando che l’incubo era più ricorrente tra le vittime del bullismo. A conferma che i danni di questi comportamenti sono profondi e importanti, arrivando a creare veri e propri traumi che emergono con prepotenza durante la notte e nell’esperienza onirica. E come ormai sappiamo durano anche nell’età adulta, facendo sentire la propria eco anche fino a 40 anni più tardi.
http://www.corriere.it/salute/pediatria/14_maggio_05/nei-ragazzini-piu-un-incubo-tre-riguarda-bullismo-6f275cdc-d458-11e3-9778-04e759d64fc3.shtml
 
 

LETTURE. L’ANTIPOLITICA, PASOLINI E LE “MACERIE” DEL PADRE

di Cecilia Ricci, ilsussidiario.net, 6 maggio 2014
Dietro al disinteresse generalizzato per le prossime elezioni europee del 25 maggio si nasconde, neanche troppo celato, il fantasma dell’antipolitica che sta crescendo pericolosamente negli ultimi anni – complice lo sfiorato collasso dell’economia nazionale, lo smascheramento degli inganni dell’alta finanza e la crisi dei partiti politici segnati dalla crescente corruzione –.
La sfiducia nel ruolo delle istituzioni così come nel potere costruttivo del dialogo stanno diventando fenomeni transnazionali. In fondo, con il teatrino messo in piedi da Beppe Grillo un paio di mesi fa durante la diretta delle consultazioni di Renzi, è andata in onda la stessa triviliazzazione del linguaggio che ha caratterizzato, oltralpe, i toni intimidatori e razzisti della politica di Le Pen e, in scala minore e in salsa spagnola, il violento attacco verbale e fisico ricev uto da alcuni studenti di Universitas all’università Complutense di Madrid durante il volantinaggio del documento Es bueno que tu existas a sostegno del progetto di legge del ministro Gallardon in difesa del nascituro e della donna incinta.
Nel pieno rispetto di una logica di opposizione, quella che si v a affermando è una idea di politica come scontro totale in grado di radicarsi nel tempo della post-utopia davanti alle macerie degli ideali (prima il ’68 e poi il neocapitalismo liberista) verso cui ci si è scoperti prima «asserviti» e poi «traditi».
Ma dietro alla crosta della politica è in atto ciò che Pasolini definiva una «mutazione antropologica» e il cui senso è indagato da Massimo Recalcati in Il complesso di Telemaco. Genitori e figli dopo il tramonto del padre. Come spiega lo psicoanalista di fede lacaniana, un rapporto equilibrato tra le genenerazioni e una vita comunitaria volta a realizzare gli interessi della collettività, prevedono l’accettazione della «Legge della Parola», ovvero l’incontro con l’esperienza del limite che argina la tentazione di vivere la propria esistenza sotto l’apparente libertà del godimento immediato. In tal modo la Legge della Parola è quell’evento che consente di umanizzare la vita perché «ci apre alla sua dimensione finita, dipendente e lesa».
Quando, in modo del tutto ragionevole, smettiamo di assecondare i capricci infantili e narcisisti che alimentano in una spirale infinita il nostro individualismo sfrenato, lo facciamo perché abbiamo fatto esperienza che la vita è sensata, ovvero più umana, se diventa un faticoso esercizio di traduzione che richiede la «mediazione dell’Altro». «Senza la presenza dell’Altro la vita umana muore, appassisce, perde il sentimento stesso della vita, si spegne», perché l’esistenza viene nuovamente rigettata nell’individualismo libertario e narcisista che celebra il culto dell’io e il suo principio di autodeterminazione. È il tempo della pasoliniana mutazione antropologica che istituisce il dogma della «libertà priva di responsabilità». «Il fantasma della libertà rifiuta, insieme all’esperienza del limite, la discendenza, l’esperienza stessa della filiazione, rifiuta il nostro essere figli».
La dittatura della libertà ipermoderna, del godimento immediato, senza limiti, dimentica che la vera libertà nasce sempre dal dialogo con qualcuno e quindi è sempre «dipendente», sempre «seconda» ad una presenza. Da George Steiner a Flannery O’Connor la libertà è intesa come risposta all’irruzione di una Presenza ed è misurata sulla base della nostra ospitalità ad accogliere l’ingresso dell’Altro nella grande arte (Steiner) o quello della Grazia nelle nostre vite sgangherate (O’Connor). Si tratta quindi di scegliere – come ha detto il cardinale Angelo Scola nell’incontro centrale di EncuentroMadrid – tra concepirsi come l’esito del proprio esperimento (l’io narcisista sciolto da qualsiasi legame se non quello dell’assoggettamento al proprio interesse) o accettare di essere un io-in-relazione.
Ecco perché recuperare la fiducia nella mediazione delle istituzioni, nel ruolo del dibattito politico, nel valore positivo del confronto che esige sempre narrazione di sé ed ascolto, richiede di soddisfare la domanda di testimonianza. Come ricorda Recalcati, nell’epoca dell’azzeramento di ogni ideale si fa sempre più viva l’esigenza di padri-testimoni. «Il padre che oggi viene invocato non può più essere il padre che ha l’ultima parola sulla vita e sulla morte, sul senso del bene e del male, ma solo un padre radicalmente umanizzato, vulnerabile, incapace di dire qual è il senso ultimo della vita ma capace di mostrare, attraverso la testimonianza della propria vita, che la vita può avere un senso».
http://www.ilsussidiario.net/News/Cultura/2014/5/6/LETTURE-L-antipolitica-Pasolini-e-le-macerie-del-padre/496741/
 
PROUST SUL LETTINO DI PAPÀ
di Gabriella Bosco, La Stampa, 6 maggio 2014
Anche il papà di Proust andò alla ricerca del tempo perduto. E lo ritrovò. Ma agendo diversamente rispetto al figlio. Percorrendo altre vie. Anche se: agendo diversamente… percorrendo altre vie… non è poi così sicuro. Tra i due percorsi, quello del padre e quello del figlio, ci sono in realtà non pochi punti in comune. La riflessione nasce da un interessantissimo riscontro testuale, occasionato dall’uscita (per Bollati Boringhieri) di un libro sinora inedito in italiano: La psicoanalisi di Pierre Janet, un importante psicologo di fine Ottocento. Cominciamo dal riscontro testuale. Poi vedremo il collegamento con il libro di Janet. Lo riporto, il nesso con La recherche, così come me lo ha raccontato l’altra mattina per telefono Mariolina Bertini, la più illuminata e la più interessante, una vera miniera di conoscenze, tra gli studiosi di Proust. Mi chiama dunque, Mariolina Bertini, perché ha per le mani un articolo pubblicato dal papà di Marcel, il professor Adrien, in una rivista medica nel 1890. Articolo nel quale il professore riferisce del caso di un suo paziente, un noto avvocato, soggetto a crisi di sdoppiamento della personalità. Il professor Proust parla di «automatismo ambulatorio», fasi di assenza dell’avvocato da se stesso, durante le quali se ne andava in giro a commettere misfatti di varia natura, dei quali poi, tornando allo stato di coscienza originario, non ricordava nulla. Mariolina Bertini mi fa notare come il caso di questo malato figuri nella Recherche, riferito dal figlio in termini molto simili a quelli usati dal padre. Vediamo. Scrive Marcel, nel Tempo ritrovato (cito dalla traduzione Einaudi di Giorgio Caproni, sono le pagine di pastiche del diario dei fratelli Goncourt prestato al narratore da Gilberte, il brano ch’egli legge prima di addormentarsi, dove si dà conto di conversazioni nel salotto di Madame Verdurin): «E la suggestiva dissertazione passa, quindi, a un grazioso cenno della padrona di casa, dalla sala da pranzo al fumoir veneziano, dove Cottard ci narra d’aver assistito a dei veri e propri sdoppiamenti di persona, citando il caso d’uno dei suoi malati (…) al quale basterebbe toccare le tempie per destarlo a una seconda vita, vita durante la quale non ricorderebbe più nulla della prima, tanto che, uomo onestissimo in quella, vi sarebbe stato arrestato parecchie volte per furti commessi nell’altra, dove non sarebbe né più né meno che un abominevole furfante».
L’articolo del papà, pubblicato nella Tribune médicale alla rubrica «Neuropathologie», nasce da una comunicazione fatta all’Académie de sciences morales, dove fu oggetto di viva attenzione, «testimonianza dell’interesse crescente che i filosofi dimostrano per certi fatti di patologia nervosa». Il professor Proust vi racconta dunque di un suo paziente, Emile X…, 33 anni, avvocato, che «in certi momenti perde del tutto la memoria. In quei momenti tutti i suoi ricordi, i più antichi come i più recenti, sono aboliti. Dimentica completamente la sua esistenza passata. Si dimentica di se stesso. Tuttavia, siccome non perde la coscienza (…), una nuova vita, una nuova memoria, un nuovo io cominciano per lui. Allora cammina, sale in treno… Quando di colpo, come in una specie di risveglio, torna alla condizione primaria, ignora quello che ha fatto nei giorni appena trascorsi, cioè per tutto il tempo della sua condizione alterata». Ed entra poi nel dettaglio degli episodi disdicevoli, furti e altro, di cui l’avvocato fu protagonista in queste frequenti fasi di oblio di sé. 
Il caso è in tutta evidenza lo stesso. Nel pastiche, la moglie del dottor Cottard, insolitamente arguta nel resoconto attribuito ai Goncourt, non manca di far notare «che uno spunto molto simile lo ha svolto in una sua opera un narratore (…), il favorito delle serate dei suoi ragazzi, lo scozzese Stevenson». 
E qui arriviamo a Janet, lo psicologo che influenzò la nascita della psicologia dinamica con i suoi studi sulla dissociazione e sul trauma psicologico. Era stato allievo di Charcot, alla Salpêtrière, come Adrien Proust. Entrambi, il professor Proust e Pierre Janet, si occuparono di stati dissociativi e di problemi legati alle memorie traumatiche. Nel 1889, Janet aveva pubblicato la sua tesi di dottorato in filosofia dedicata proprio all’automatismo psicologico e nel 1893 conseguì un secondo dottorato in medicina con una tesi sullo stato mentale degli isterici. Il libro ora pubblicato da Bollati Boringhieri, che risale al 1914, contiene il testo che Janet pronunciò l’anno precedente al Congresso di Psicologia di Londra, nel rivendicare la paternità di certi concetti che aveva elaborato per primo e che con fastidio aveva visto in seguito attribuiti a Freud. Leggere La psicoanalisi permetterà di reimmergersi nel contesto culturale, nel clima degli studi di psicologia sperimentale che l’autore della Recherche frequentava, dei quali era attento lettore. E non solo. Come notava lo studioso svizzero Edward Bizub in un testo su Proust et le moi divisé di qualche anno fa, Proust seguivamolto da vicino gli esperimenti sui sonnambulici alla cui guarigione si cercava di giungere tramite il ricongiungimento delle loro due metà separate. Lui stesso, allievo in filosofia dello zio di Pierre Janet, Paul, aveva lavorato intorno al tema della unità e diversità dell’io. 
Torniamo adesso al professor Proust e al suo malato: per risolvere il caso, lo aveva trattato con l’ipnosi permettendogli di recuperare la memoria persa nelle fasi di sdoppiamento. Non è escluso che lo stesso Marcel sia stato ipnotizzato nel periodo di cure cui fu sottoposto nel 1906. Ma soprattutto, è suggestiva l’ipotesi che la figura del padre, oltre a quella sempre e solo citata della madre, sia alla base della concezione stessa della Recherche.
http://www.lastampa.it/2014/05/06/cultura/proust-sul-lettino-di-pap-byrIrCtyllppiqUk98spOJ/premium.html
 
 
QUANDO IN AMORE È MEGLIO NON DARE
Di Michela Marzano, vanityfair.it, 7 maggio 2014
Con l'amore si sperimenta il "campo del non-avere". È con queste parole di Jacques Lacan che la settimana scorsa ho terminato la rubrica. Una frase buttata lì in modo un po' perentorio. Perché che senso può avere il "non-avere" nell'amore quando lo sanno tutti che si può dare solo ciò che già si ha? E che non ha senso continuare a illudersi di poter dare, e dare, e dare ancora quando non c’è più niente. Quando si è sfiniti. Quando non resta altro che il silenzio… 

In realtà l’ho fatto apposta. Forse per preparare psicologicamente chi mi legge a quello che vorrei raccontare oggi. Lasciandolo magari con l’interrogativo di sapere dove voglio andare a parare. Oppure con la voglia di contraddirmi di nuovo. Perché poi, in fondo, è sempre così che va a finire quando si parla d’amore: si discute, ci si arrabbia, ci si manda a quel paese. Prima di rendersi conto che è anche così che l’amore ci attraversa. Costringendoci a fare i conti con le certezze che ci portiamo dentro.
Ma riprendiamo il filo del discorso. E cerchiamo di capire insieme che cosa può mai voler dire Lacan quando scrive che l’amore implica il "campo del non-avere". Anche perché questo misterioso "non-avere" è correlato da un almeno altrettanto misterioso "non-volere". «Amare», continua infatti Lacan, «è donare quello che non si ha a qualcuno che non lo vuole». Ma in che senso? Come? Niente, però, è più semplice di quest’osservazione apparentemente incomprensibile del celebre psicanalista francese. Se ci si ferma un istante a riflettere, infatti, ci si rende conto che è qualcosa che ognuno di noi sperimenta quotidianamente. Visto che, quando amiamo, cerchiamo tutti, ma proprio tutti, di dare alla persona amata quello che vorremmo ricevere da lei. Ad esempio quell’attenzione o quella tenerezza che ci manca tanto, che non abbiamo, che non riceviamo. E che però ci incaponiamo a donare all’altra persona. Proprio perché la amiamo.
Peccato che poi l’altro, essendo d’altronde altro rispetto a noi, molto probabilmente non sa che farsene della tenerezza o dell’attenzione che gli diamo. E che ciò che gli manca è, appunto, sempre altro. Terribilmente altro. Proprio mentre, a sua volta, insiste a darci quello che non ha, e che noi non vogliamo. Come volevasi dimostrare! Anche se, dopo un po’, la testa gira. Perché non si capisce più bene di cosa si stia parlando. E poi questi filosofi che giocano con le parole e che non riescono mai a essere concreti! Che diamine! Facciamo un esempio concreto. E prendiamo quella donna che la sera torna a casa e che per tutta la giornata non ha fatto altro che dirsi che nessuno la ascolta, che nessuno le dà mai ragione, che in fondo basterebbe soltanto che la lasciassero parlare, che non è giusto, e così via. Ebbene, questa donna cui manca tanto l’ascolto non appena incontra il marito (o il compagno o la compagna) chiederà molto probabilmente a questa persona di raccontarle la sua giornata. «Io lo/la amo», si dice in buona fede la donna. «Quindi l’ascolto». Solo che magari il marito o la compagna ha passato la giornata a parlare, discutere, litigare. E se c’è una cosa di cui ha veramente bisogno, è proprio il silenzio. «Perché non me lo racconta lei quello che ha fatto?».
È allora che l’incomprensione si installa. Nonostante le migliori intenzioni. Perché ci si ostina a dare quello che non si ha. Invece di accettare che nell’amore è anche e proprio il "non dare", che permette poi di fare la pace con tutto quello che manca e che, forse, mancherà per sempre…
http://www.vanityfair.it/news/italia/14/05/07/michela-marzano-amore-merita
 
 
Video

RECALCATI A CHE TEMPO CHE FA

da rai.tv, 3 maggio 2014
http://rassegnaflp.wordpress.com/2014/05/03/recalcati-a-che-tempo-che-fa-3/

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
 

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