La determinazione genetica dell'autismo era data per acquisita.
Nell'ambito di un'offensiva a vasta scala che ha manipolato l'impostazione della ricerca scientifica e l'interpretazione dei suoi dati, conferendo una falsa obiettività ad assunti ideologici di partenza, gli studi davano l'incidenza dei fattori genetici nell'eziopatogenesi dell'autismo al 80-90 per cento. La stessa cosa era accaduta con la schizofrenia.
Per decenni si è insistito ossessivamente sulla sua determinazione genetica fino a quando questa pretesa non è stata smentita in modo inoppugnabile e si è dovuti accontentare della trasmissione ereditaria di fattori di predisposizione alla malattia (un'ipotesi di buon senso che tuttavia non tiene conto della complessità del rapporto tra patrimonio genetico e ambiente).
Una doccia fredda per gli ardori genetisti è arrivata anche nel campo dell'autismo: uno studio congiunto del King's College di Londra e del Karolinska institute di Stoccolma, di gran lunga il più vasto fatto finora, ha attribuito la genesi della malattia per metà a fattori genetici e per metà a fattori ambientali (nell'ambito di una complessa interazione).
Per quanto riguarda i fattori ambientali i ricercatori non sanno dare risposte ma ipotizzano genericamente complicazioni di parto, problemi collegati allo stato sociale, alla salute e allo stile di vita dei genitori, alla nutrizione materna oppure all'esposizione all'inquinamento durante lo sviluppo cerebrale primario. Pur di non dare la dovuta importanza agli aspetti emotivi si arrampicano sugli specchi puntando tutto su fattori organici o comunque materiali.
Che strana è la percezione del mondo da parte di questi scienziati che studiano un mondo desertificato in cui gli occhi non sentono, non desiderano. Il loro pensiero non ascolta le emozioni e la sensualità dell'esperienza vissuta che lo fanno nascere e il loro sguardo spoglia il mondo della qualità affettiva che lo abita. Il privilegio assoluto accordato al substrato organico della nostra esistenza porta a un risultato assurdo: la verità della casa in cui alloggiamo diventa la solidità della sua struttura, delle sue tubature e della sua rete elettrica (o della tecnologia che la governa) e non il modo di abitarla, di usarla, di viverla. Sembra un pensiero folle ma si preferisce ignorare che molti scienziati di oggi ragionano in questo modo.
La nostra esistenza materiale non è il nucleo della nostra esistenza psichica (la sua intrinseca spiegazione) ma piuttosto la sua superficie. Se le condizioni oggettive della vita umana diventano la predeterminazione della nostra soggettività siamo condannati a vivere nella periferia della nostra esperienza eccitandosi per non sentirsi morti. Non è un'ipotesi fantascientifica ma una tentazione molto potente che sta alla base di tanti problemi sociali diffusi che cerchiamo di risolvere in termini giuridici moltiplicando le norme.
C'è del metodo nella follia: le quantità sono più manipolabili delle qualità e consentono una concentrazione di potere (ad alta tecnologia) mai immaginata prima. Viviamo in una democrazia formalmente sofisticata ma sempre più indebolita sul piano della sostanza.
La filosofia è sempre più impotente di fronte a una scienza che non immagina, non sente. In un mondo privo di anima è comprensibile il ritorno di un interesse di massa per la religione. La psicoanalisi resiste come alternativa laica nella cura del dolore ma a volte finisce accerchiata: come si può affrontare il problema dei bambini che hanno perduto il loro approdo alla vita se continuiamo a sprofondare in un mondo di isolamento affettivo?
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