ALTRO CHE FREUD E LACAN, ORA C’È RECALCATI
di Elisabetta Ambrosi, Il Fatto Quotidiano, 10 maggio 2014
Sono il tradimento protagonista assoluto del libro di Massimo Recalcati Niente è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Cortina editore). Sono soddisfatto, perché il libro è in classifica da un bel po’ di settimane, il che significa che tutto sommato sono stato sdoganato. Però nel libro lo psicoanalista che legge Lacan un po’ a modo suo (come tutti i lacaniani, d’altronde, essendo Lacan incomprensibile) mi bastona parecchio. Lo so, lo so, l’“amore senza vincoli è un’illusione che ha generato solo fuochi fatui” così come il “cinismo iperedonistico del discorso capitalista”. Lo so, lo so, Freud si sbagliava, perché ciabatta e passione, amore e desiderio, possono anche andare d’accordo. Però vorrei spezzare una lancia a mio favore: sicuri che i tempi siano così cambiati da aver reso il libertinaggio addirittura un “inedito dovere superegoico”? E che io non svolga alcuna nobile funzione, specie visti gli scarsi quattrini in giro? Ma soprattutto mi piacerebbe che quando si parla di me non si dicesse che “i maschi tendono a sorvolare sul valore effettivo della fedeltà” e le donne no (mentre poi quando tocca a loro le cose si rovesciano, perché “gli uomini soffrono per la ferita da castrazione” e le donne meno, visto che “la castrazione appartiene alla struttura stessa del loro essere”). Né che si dicesse che “la libertà sessuale guadagnata faticosamente dalle donne rischia di ricalcare i passi falsi della nevrosi maschile”. Perché così si finisce per ricadere in vecchi cliché, e sempre a carico delle donne. Mentre forse la vera differenza, quando si tratta di me, passa tra le persone, non tra i generi.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/10May2014/10May201486857530b58ac4b7edb8ce95b5c223ea.pdf
GAY O ETERO, MA CON AMORE. ELOGIO DEI GENITORI IMPERFETTI. Un figlio cresce sano se chi se ne prende cura lo riconosce come “altro” e lo fa sentire unico. In edicola con Repubblica il nuovo iLibra. Michela Marzano indaga sulle identità personali e familiari
Sono il tradimento protagonista assoluto del libro di Massimo Recalcati Niente è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa (Cortina editore). Sono soddisfatto, perché il libro è in classifica da un bel po’ di settimane, il che significa che tutto sommato sono stato sdoganato. Però nel libro lo psicoanalista che legge Lacan un po’ a modo suo (come tutti i lacaniani, d’altronde, essendo Lacan incomprensibile) mi bastona parecchio. Lo so, lo so, l’“amore senza vincoli è un’illusione che ha generato solo fuochi fatui” così come il “cinismo iperedonistico del discorso capitalista”. Lo so, lo so, Freud si sbagliava, perché ciabatta e passione, amore e desiderio, possono anche andare d’accordo. Però vorrei spezzare una lancia a mio favore: sicuri che i tempi siano così cambiati da aver reso il libertinaggio addirittura un “inedito dovere superegoico”? E che io non svolga alcuna nobile funzione, specie visti gli scarsi quattrini in giro? Ma soprattutto mi piacerebbe che quando si parla di me non si dicesse che “i maschi tendono a sorvolare sul valore effettivo della fedeltà” e le donne no (mentre poi quando tocca a loro le cose si rovesciano, perché “gli uomini soffrono per la ferita da castrazione” e le donne meno, visto che “la castrazione appartiene alla struttura stessa del loro essere”). Né che si dicesse che “la libertà sessuale guadagnata faticosamente dalle donne rischia di ricalcare i passi falsi della nevrosi maschile”. Perché così si finisce per ricadere in vecchi cliché, e sempre a carico delle donne. Mentre forse la vera differenza, quando si tratta di me, passa tra le persone, non tra i generi.
http://www.zeroviolenzadonne.it/rassegna/pdfs/10May2014/10May201486857530b58ac4b7edb8ce95b5c223ea.pdf
GAY O ETERO, MA CON AMORE. ELOGIO DEI GENITORI IMPERFETTI. Un figlio cresce sano se chi se ne prende cura lo riconosce come “altro” e lo fa sentire unico. In edicola con Repubblica il nuovo iLibra. Michela Marzano indaga sulle identità personali e familiari
di Michela Marzano, repubblica.it, 10 maggio 2014
François Hollande l’aveva promesso durante la campagna elettorale: se fosse stato eletto presidente della Repubblica, avrebbe riaperto il dibattito sul matrimonio e sull’adozione delle coppie omosessuali. Pochi mesi dopo la vittoria del candidato socialista, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault annuncia che il progetto di legge sarà finalmente presentato in Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, scatenando immediatamente le polemiche. Perché i gay e le lesbiche non si accontentano del Pacs e vogliono anche loro sposarsi? Il matrimonio non dovrebbe essere riservato alle coppie eterosessuali?
Per tutti coloro che si oppongono all’estensione del matrimonio e dell’adozione alle coppie omosessuali, è soprattutto la questione dell’adozione ad essere problematica. Permettere alle coppie omosessuali di adottare, significherebbe per loro non solo impedire ad un bimbo di avere un padre e una madre, ma anche privarlo della possibilità di crescere in modo armonioso, identificandosi con la figura maschile (se si tratta di un bambino adottato da una coppia di lesbiche) o con la figura femminile (se si tratta invece di una bambina adottata da una coppia di gay). Per non parlare poi dei danni a livello psicologico: per poter avere accesso a quello che alcuni psicoanalisti chiamano “l’ordine simbolico”, sembrerebbe infatti necessario vivere in una “famiglia normale”. Ma che cosa vuol dire “normale”? Esiste un unico modo di occuparsi dei bambini oppure questa normalità è solo un modo per discriminare gli omosessuali?
In realtà, l’idea di normalità non ha alcun senso quando si parla dell’educazione dei figli. Esistono solo tanti percorsi diversi, per i bambini, di imparare a “tenersi su”, come direbbe il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Ossia tanti modi diversi per capire che si ha diritto di essere quello che si è, indipendentemente dalle aspettative altrui. E che l’amore che si riceve non ha né sesso né orientamento sessuale. Non è vero che le madri hanno tutte un istinto materno. Esattamente come non è vero che i padri sono tutti, per natura, incapaci di occuparsi dei propri figli.
Dietro la maggior parte delle obiezioni al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali, si nascondono contraddizioni e luoghi comuni. Tanto per cominciare, in Francia, è possibile già da molti anni adottare anche quando si è single. Questo significa che, fino ad ora, l’eventuale problema dell’assenza dell’altro genitore non si era posto. E che lo si solleva solo nel momento in cui entra in gioco l’orientamento sessuale dei genitori adottivi. Ma il nodo del problema è altrove, visto che l’”ordine simbolico” di cui si parla tanto, altro non è che la capacità di integrare il fatto che al mondo esistono due categorie di persone: gli uomini e le donne. Peccato che le scelte sessuali di una persona non c’entrino affatto con la negazione della differenza dei sessi, a meno che non si confonda il concetto di “identità sessuale” con quello di “orientamento sessuale”. Ma questo tipo di confusione, in fondo, sono solo alcuni eterosessuali a farla, non capendo che l’identità sessuale dell’oggetto del desiderio di una persona non rimette affatto in discussione la consapevolezza del fatto che ognuno di noi sia “maschio” o “femmina”.
Il vero problema dell’adozione non è quello dell’orientamento sessuale della coppia che adotta, ma quello del posto che si lascia a un bambino. Questo problema, però, lo si ha sempre, indipendentemente dal fatto che un bimbo cresca accanto a due uomini, due donne, o un uomo e una donna. Quando si ha a che fare con un figlio, la cosa più difficile è riconoscerne l’alterità. Per poter accedere a quel famoso “ordine simbolico”, per crescere, ogni bimbo ha bisogno di essere accettato nella propria alterità, e quindi di essere riconosciuto come “altro” rispetto ai propri genitori. Proprio perché è unico.
È solo in questo modo che si ha poi accesso all’ordine simbolico secondo cui non solo la donna è diversa dall’uomo, ma ogni persona è diversa da tutte le altre. Incentrare il dibattito sulla questione dell’unicità e dell’individualità, però, costringerebbe ognuno di noi ad interrogarsi sulla propria capacità di tollerare ciò che è diverso. Sapendo benissimo che i bambini, quando crescono, si identificano non solo con i genitori, ma anche con tutti gli altri adulti che contribuiscono alla loro educazione. E che tanti problemi, nella vita, nascono quando non si è stati accettati e riconosciuti per quello che si era. Anche quando si è cresciuti in una famiglia “normale”, con un papà e una mamma.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/05/10/news/gay_o_etero_ma_con_amore_elogio_dei_genitori_imperfetti-85725179/
DALL’OCCULTO ALL’INCONSCIO
François Hollande l’aveva promesso durante la campagna elettorale: se fosse stato eletto presidente della Repubblica, avrebbe riaperto il dibattito sul matrimonio e sull’adozione delle coppie omosessuali. Pochi mesi dopo la vittoria del candidato socialista, il primo ministro francese Jean-Marc Ayrault annuncia che il progetto di legge sarà finalmente presentato in Consiglio dei Ministri il 31 ottobre 2012, scatenando immediatamente le polemiche. Perché i gay e le lesbiche non si accontentano del Pacs e vogliono anche loro sposarsi? Il matrimonio non dovrebbe essere riservato alle coppie eterosessuali?
Per tutti coloro che si oppongono all’estensione del matrimonio e dell’adozione alle coppie omosessuali, è soprattutto la questione dell’adozione ad essere problematica. Permettere alle coppie omosessuali di adottare, significherebbe per loro non solo impedire ad un bimbo di avere un padre e una madre, ma anche privarlo della possibilità di crescere in modo armonioso, identificandosi con la figura maschile (se si tratta di un bambino adottato da una coppia di lesbiche) o con la figura femminile (se si tratta invece di una bambina adottata da una coppia di gay). Per non parlare poi dei danni a livello psicologico: per poter avere accesso a quello che alcuni psicoanalisti chiamano “l’ordine simbolico”, sembrerebbe infatti necessario vivere in una “famiglia normale”. Ma che cosa vuol dire “normale”? Esiste un unico modo di occuparsi dei bambini oppure questa normalità è solo un modo per discriminare gli omosessuali?
In realtà, l’idea di normalità non ha alcun senso quando si parla dell’educazione dei figli. Esistono solo tanti percorsi diversi, per i bambini, di imparare a “tenersi su”, come direbbe il pediatra e psicoanalista Donald Winnicott. Ossia tanti modi diversi per capire che si ha diritto di essere quello che si è, indipendentemente dalle aspettative altrui. E che l’amore che si riceve non ha né sesso né orientamento sessuale. Non è vero che le madri hanno tutte un istinto materno. Esattamente come non è vero che i padri sono tutti, per natura, incapaci di occuparsi dei propri figli.
Dietro la maggior parte delle obiezioni al matrimonio e all’adozione delle coppie omosessuali, si nascondono contraddizioni e luoghi comuni. Tanto per cominciare, in Francia, è possibile già da molti anni adottare anche quando si è single. Questo significa che, fino ad ora, l’eventuale problema dell’assenza dell’altro genitore non si era posto. E che lo si solleva solo nel momento in cui entra in gioco l’orientamento sessuale dei genitori adottivi. Ma il nodo del problema è altrove, visto che l’”ordine simbolico” di cui si parla tanto, altro non è che la capacità di integrare il fatto che al mondo esistono due categorie di persone: gli uomini e le donne. Peccato che le scelte sessuali di una persona non c’entrino affatto con la negazione della differenza dei sessi, a meno che non si confonda il concetto di “identità sessuale” con quello di “orientamento sessuale”. Ma questo tipo di confusione, in fondo, sono solo alcuni eterosessuali a farla, non capendo che l’identità sessuale dell’oggetto del desiderio di una persona non rimette affatto in discussione la consapevolezza del fatto che ognuno di noi sia “maschio” o “femmina”.
Il vero problema dell’adozione non è quello dell’orientamento sessuale della coppia che adotta, ma quello del posto che si lascia a un bambino. Questo problema, però, lo si ha sempre, indipendentemente dal fatto che un bimbo cresca accanto a due uomini, due donne, o un uomo e una donna. Quando si ha a che fare con un figlio, la cosa più difficile è riconoscerne l’alterità. Per poter accedere a quel famoso “ordine simbolico”, per crescere, ogni bimbo ha bisogno di essere accettato nella propria alterità, e quindi di essere riconosciuto come “altro” rispetto ai propri genitori. Proprio perché è unico.
È solo in questo modo che si ha poi accesso all’ordine simbolico secondo cui non solo la donna è diversa dall’uomo, ma ogni persona è diversa da tutte le altre. Incentrare il dibattito sulla questione dell’unicità e dell’individualità, però, costringerebbe ognuno di noi ad interrogarsi sulla propria capacità di tollerare ciò che è diverso. Sapendo benissimo che i bambini, quando crescono, si identificano non solo con i genitori, ma anche con tutti gli altri adulti che contribuiscono alla loro educazione. E che tanti problemi, nella vita, nascono quando non si è stati accettati e riconosciuti per quello che si era. Anche quando si è cresciuti in una famiglia “normale”, con un papà e una mamma.
http://www.repubblica.it/cultura/2014/05/10/news/gay_o_etero_ma_con_amore_elogio_dei_genitori_imperfetti-85725179/
DALL’OCCULTO ALL’INCONSCIO
di Giuliano Castigliego, giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com, 11 maggio 2014
Leggo sui giornali italiani che 13 milioni di italiani andrebbero dai maghi. Luca Sofri peraltro si domanda, a ragione, quale sia l’attendibilità di tali cifre visto che le inchieste che le sostengono appaiono piuttosto oracolari e i titoli dei quotidiani al riguardo si ripetono praticamente invariati da anni.
Leggo sull’inserto psichiatrico della rivista medica svizzera Medical Tribune un articolo sui possibili effetti collaterali della psicoterapia, dal titolo ad effetto (collaterale?) “Quanto è dannosa la psicoterapia?” Anche qui la pubblicazione della notizia, peraltro nota, torna, in questa o in analoghe forme, ciclicamente. Già nel dicembre 2012 lo Zeit onlinetitolava “Foglietto illustrativo per la psicoterapia” riferendosi alla scherzosa e provocatoria proposta del presidente della società degli psicologi tedesca (DGPs) nonché docente di psicologia clinica e psicoterapia all’Università di Bochum, Jürgen Margraf, di avvertire i pazienti dei rischi e degli effetti collaterali della psicoterapia con un foglietto illustrativo analogo a quello dei farmaci.
Ora ilProf. Linden – autore con Bernhard Strauß, Marie-Luise Haupt, Sophie Kaczmarek – di un approfondito studio su effetti indesiderati, effetti collaterali e sviluppi distorti della psicoterapia parte dalla constatazione che il tema è stato a lungo ignorato e “silenziato” proprio dai terapeuti, feriti nel loro narcisismo quando devono riconoscere gli effetti negativi del loro operato. Il professor Linden e colleghi hanno intanto cominciato ad occuparsi di quello altrui ed hanno messo a punto, con psichiatrico quanto tedesco amor dell’ordine, un questionario per raccogliere e ordinare sistematicamente gli effetti collaterali della psicoterapia. I problemi cominciano, come sempre, con le definizioni che appaiono, a ragione, ispirate al tommasiano distingue saepe (effetti indesiderati, conseguenze negative, effetti collaterali, danni da imperizia, assenza di risposta alla terapia, peggioramenti della malattia, rischi terapeutici, controindicazioni) e sulle quali non è certo qui il caso di soffermarsi – l’innamoramento nel/lla terapeuta in che categoria va messo? La portata delle conseguenze diventa però molto più facilmente intuibile se si passa agli esempi degli effetti collaterali primo tra tutti quello dei falsi ricordi, soprattutto di abusi sessuali. Basti dire che negli USA esiste già una False Memory Syndrome Society che si occupa principalmente – e con notevole successo – di denunziare terapeuti a nome dei pazienti danneggiati appunto dai falsi ricordi. Sono stato io stesso testimone di gravi conflitti familiari indotti da infondati sospetti di molestie sessuali evocati durante le molto discusse e discutibili costellazioni familiari di Bert Hellinger
E io? ho indotto o assecondato involontariamente anch’io falsi ricordi nelle mie certo più convenzionali sedute? Quanti/e pazienti ho involontariamente ferito essendo rimasto troppo distante e quante/i ne ho danneggiato essendomi avvicinato troppo alle loro ferite? Quanti pazienti non saputo o voluto capire?
Più facile tornare agli altri. Che frequenza hanno gli effetti collaterali della psicoterapia? e quali sono? Un primo piccolo studio condotto dalla Prof.ssa Einsle all’Università Tecnica di Dresda su 70 pazienti ambulatoriali (3/4 donne, perlopiù con disturbi d’ansia e disturbi affettivi) evidenzia che l’84% dei/lle pazienti lamentavano almeno un effetto indesiderato, perlopiù un peggioramento temporaneo dei sintomi. Il 17% dei/lle pazienti si sentivano poi feriti/e dalle affermazioni del terapeuta. Nello studio in questione sono, contrariamente alle aspettative, le terapeute ad indurre più frequentemente nei/lle pazienti effetti indesiderati – absit iniuria exitis – forse a causa della maggiore capacità empatica, che potrebbe comportare una riduzione della distanza terapeutica.
Torno ai maghi (italiani) che con i terapeuti (tedeschi) non c’azzeccano apparentemente nulla. Però. Come terapeuta porto con me, oltre alle doverose esigenze di scientificità, una ricca (e non sempre facile) eredità di parenti, curatori, medici d’anime e anche di maghi. Chiarisco subito a scanso di equivoci. È un cammino durato secoli quello che ha consentito di sottrarre l’occulto alle stelle e di osservarlo con tollerante comprensione dove sta. Dentro di noi, (anche) come inconscio, grazie alla geniale intuizione di Freud, che sembra venir sempre più convalidata dalle attuali neuroscienze.
Pur tra errori e manchevolezze, presunzioni e colpe, è stata possibile un’evoluzione dall’aspettativa passiva della divinazione all’illusione manipolatoria della magia fino alla faticosa ma quanto mai preziosa ed efficace realtà umana e scientifica del rapporto terapeutico attuale. Che è prima di tutto (dal greco therapeia) servizio, cura, nel senso originario appunto di prendersi cura di chi ha bisogno. Una cura che si è a sua volta evoluta secondo procedure codificate e sempre più sottoposte al vaglio della scienza in un equilibrio sempre precario e tutt’altro che facile tra le ragioni di obiettività della scienza e quelle soggettive dell’individuo. A beneficiarne dovrebbe essere il paziente, colui che patisce, non solo la sofferenza psichica ma anche le difficoltà di una trasformazione terapeutica per superarla. A lui dobbiamo serietà scientifica – forse anche in forma di foglietto informativo o, meglio, di consenso informato – ma anche la partecipazione umana del “prendersi cura”.
Se la psicoterapia può avere effetti collaterali è perché, a differenza della magia e dell’astrologia, essa fa effetto, agisce sulle sinapsi cerebrali e su “quelle dell’anima”, è scientificamente e soggettivamente efficace nel lenire il dolore del paziente e consentirgli, attraverso il rapporto sincero col terapeuta, di prendersi “ancora e sempre” cura di sé stesso. E delle stelle che ognuno di noi porta dentro di sé.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/11/dallocculto-allinconscio/
“IO SPARO AL BENE MA SALVO IL LUSSO E LA GIOIA DI VIVERE”. L’eroina del nuovo romanzo è una rapinatrice che snobba la ricchezza di benpensanti e borghesi. In questo assomiglia all’autore…
Leggo sui giornali italiani che 13 milioni di italiani andrebbero dai maghi. Luca Sofri peraltro si domanda, a ragione, quale sia l’attendibilità di tali cifre visto che le inchieste che le sostengono appaiono piuttosto oracolari e i titoli dei quotidiani al riguardo si ripetono praticamente invariati da anni.
Leggo sull’inserto psichiatrico della rivista medica svizzera Medical Tribune un articolo sui possibili effetti collaterali della psicoterapia, dal titolo ad effetto (collaterale?) “Quanto è dannosa la psicoterapia?” Anche qui la pubblicazione della notizia, peraltro nota, torna, in questa o in analoghe forme, ciclicamente. Già nel dicembre 2012 lo Zeit onlinetitolava “Foglietto illustrativo per la psicoterapia” riferendosi alla scherzosa e provocatoria proposta del presidente della società degli psicologi tedesca (DGPs) nonché docente di psicologia clinica e psicoterapia all’Università di Bochum, Jürgen Margraf, di avvertire i pazienti dei rischi e degli effetti collaterali della psicoterapia con un foglietto illustrativo analogo a quello dei farmaci.
Ora ilProf. Linden – autore con Bernhard Strauß, Marie-Luise Haupt, Sophie Kaczmarek – di un approfondito studio su effetti indesiderati, effetti collaterali e sviluppi distorti della psicoterapia parte dalla constatazione che il tema è stato a lungo ignorato e “silenziato” proprio dai terapeuti, feriti nel loro narcisismo quando devono riconoscere gli effetti negativi del loro operato. Il professor Linden e colleghi hanno intanto cominciato ad occuparsi di quello altrui ed hanno messo a punto, con psichiatrico quanto tedesco amor dell’ordine, un questionario per raccogliere e ordinare sistematicamente gli effetti collaterali della psicoterapia. I problemi cominciano, come sempre, con le definizioni che appaiono, a ragione, ispirate al tommasiano distingue saepe (effetti indesiderati, conseguenze negative, effetti collaterali, danni da imperizia, assenza di risposta alla terapia, peggioramenti della malattia, rischi terapeutici, controindicazioni) e sulle quali non è certo qui il caso di soffermarsi – l’innamoramento nel/lla terapeuta in che categoria va messo? La portata delle conseguenze diventa però molto più facilmente intuibile se si passa agli esempi degli effetti collaterali primo tra tutti quello dei falsi ricordi, soprattutto di abusi sessuali. Basti dire che negli USA esiste già una False Memory Syndrome Society che si occupa principalmente – e con notevole successo – di denunziare terapeuti a nome dei pazienti danneggiati appunto dai falsi ricordi. Sono stato io stesso testimone di gravi conflitti familiari indotti da infondati sospetti di molestie sessuali evocati durante le molto discusse e discutibili costellazioni familiari di Bert Hellinger
E io? ho indotto o assecondato involontariamente anch’io falsi ricordi nelle mie certo più convenzionali sedute? Quanti/e pazienti ho involontariamente ferito essendo rimasto troppo distante e quante/i ne ho danneggiato essendomi avvicinato troppo alle loro ferite? Quanti pazienti non saputo o voluto capire?
Più facile tornare agli altri. Che frequenza hanno gli effetti collaterali della psicoterapia? e quali sono? Un primo piccolo studio condotto dalla Prof.ssa Einsle all’Università Tecnica di Dresda su 70 pazienti ambulatoriali (3/4 donne, perlopiù con disturbi d’ansia e disturbi affettivi) evidenzia che l’84% dei/lle pazienti lamentavano almeno un effetto indesiderato, perlopiù un peggioramento temporaneo dei sintomi. Il 17% dei/lle pazienti si sentivano poi feriti/e dalle affermazioni del terapeuta. Nello studio in questione sono, contrariamente alle aspettative, le terapeute ad indurre più frequentemente nei/lle pazienti effetti indesiderati – absit iniuria exitis – forse a causa della maggiore capacità empatica, che potrebbe comportare una riduzione della distanza terapeutica.
Torno ai maghi (italiani) che con i terapeuti (tedeschi) non c’azzeccano apparentemente nulla. Però. Come terapeuta porto con me, oltre alle doverose esigenze di scientificità, una ricca (e non sempre facile) eredità di parenti, curatori, medici d’anime e anche di maghi. Chiarisco subito a scanso di equivoci. È un cammino durato secoli quello che ha consentito di sottrarre l’occulto alle stelle e di osservarlo con tollerante comprensione dove sta. Dentro di noi, (anche) come inconscio, grazie alla geniale intuizione di Freud, che sembra venir sempre più convalidata dalle attuali neuroscienze.
Pur tra errori e manchevolezze, presunzioni e colpe, è stata possibile un’evoluzione dall’aspettativa passiva della divinazione all’illusione manipolatoria della magia fino alla faticosa ma quanto mai preziosa ed efficace realtà umana e scientifica del rapporto terapeutico attuale. Che è prima di tutto (dal greco therapeia) servizio, cura, nel senso originario appunto di prendersi cura di chi ha bisogno. Una cura che si è a sua volta evoluta secondo procedure codificate e sempre più sottoposte al vaglio della scienza in un equilibrio sempre precario e tutt’altro che facile tra le ragioni di obiettività della scienza e quelle soggettive dell’individuo. A beneficiarne dovrebbe essere il paziente, colui che patisce, non solo la sofferenza psichica ma anche le difficoltà di una trasformazione terapeutica per superarla. A lui dobbiamo serietà scientifica – forse anche in forma di foglietto informativo o, meglio, di consenso informato – ma anche la partecipazione umana del “prendersi cura”.
Se la psicoterapia può avere effetti collaterali è perché, a differenza della magia e dell’astrologia, essa fa effetto, agisce sulle sinapsi cerebrali e su “quelle dell’anima”, è scientificamente e soggettivamente efficace nel lenire il dolore del paziente e consentirgli, attraverso il rapporto sincero col terapeuta, di prendersi “ancora e sempre” cura di sé stesso. E delle stelle che ognuno di noi porta dentro di sé.
http://giulianocastigliego.nova100.ilsole24ore.com/2014/05/11/dallocculto-allinconscio/
“IO SPARO AL BENE MA SALVO IL LUSSO E LA GIOIA DI VIVERE”. L’eroina del nuovo romanzo è una rapinatrice che snobba la ricchezza di benpensanti e borghesi. In questo assomiglia all’autore…
di Luigi Mascheroni, ilgiornale.it, 11 maggio 2014
Primitivo e raffinato, sangue caldo da mammifero e testa fredda da rettile, Aurelio Picca è stato il primo della sua generazione, nata sull’ultimo lembo vulcanico dei Colli Albani alla fine degli anni Cinquanta, a impennare in motorino. Un ninja in Kawasaki, e andava sempre fuori misura. In moto, nella vita e in letteratura. Andando in analisi, pur non credendo alla psicoanalisi, a causa di una depressione, male che per lui non esiste, dopo la morte della madre. «Per due motivi: per sublimare una forma di corteggiamento verso la mia psicoanalista, e perché questi incontri erano carichi di gioia: la cura non era fare l’amore con lei, ma fare l’analisi, che era la stessa cosa perché alla fine della seduta era come avessimo fatto l’amore. Ne uscivamo entrambi soddisfatti». Ma questo, con la gioia del suo nuovo romanzo che presenta oggi al Salone di Torino, Un giorno di gioia (Bompiani), non c’entra.
Forse c’entra il Bene, però cos’è il Bene?
«Il bene non so cosa sia, io semmai so cosa sono la passione e la generosità. Il bene fa parte delle cose facili della vita, come dare la mancia al cameriere o regalare un euro all’extracomunitario. Cose che sanno fare tutti. Le cose difficili sono altre. Mio nonno, un repubblicano severissimo, e mia madre, una cristiana delle origini, mi hanno allevato a cose estreme: la generosità nei confronti degli altri e la passione per la vita. Questo è difficile. Alle persone che per me sono importanti, io non voglio bene. Io a loro mi appassiono, per loro mi consumo».
E alla Letteratura, cosa fa bene?
«Le stesse cose: alla letteratura serve generosità e passione. Io sono stato educato non alle illusioni, ma alle ambizioni. E così la letteratura. Che non deve incamminarsi sulle illusioni del facile successo, del consenso di massa, della scontata attualità. Ma deve essere passionale, prima di tutto verso la grande tradizione della nostra lingua, che è una ricchezza immensa, e deve lavorare sempre per una grande ambizione. Lo insegna Albert Camus quando dice che non bisogna scrivere i libri che si desidera scrivere, ma quelli che serve scrivere. Ecco: la letteratura italiana oggi è carica di facili illusioni, senza alcuna vera ambizione».
L’illusione è come il Bene: troppo facile.
«È così. Io col mondo non ho rapporti di potere, ma sentimentali: di passione, di ambizione, di amore per le persone che mi circondano e per il lavoro che porto avanti. Cose ben più difficili che fare il bene».
E la gioia che sta al centro del tuo libro?
«La gioia è questo: riuscire a scrivere un libro estremo. E cosa significa scrivere un libro estremo? Costruire attorno alla trama, al genere narrativo e alla vita interiore dei personaggi – una madre rapinatrice e il suo bambino in un romanzo d’azione ambientato negli anni Cinquanta – una struttura narrativa estrema che tenga dentro tutto: la visione, il cinema, il sogno e la realtà quotidiana. E che tenga dentro soprattutto il lusso».
Il lusso?
«La madre, protagonista del romanzo, dice La ricchezza è per benpensanti e per borghesi, io preferisco il lusso. E anch’io: alla ricchezza preferisco il lusso, come al bene preferisco la gioia: qualcosa che oggi si ha, domani si può perdere. Voglio dire che alla Letteratura io chiedo atteggiamenti fuori dalla norma e dalle consuetudini. Paul Bowles si chiedeva: Quante cose ricorderemo alla fine della vita? Quante albe, quante persone tra tutte quelle che abbiamo visto rimarranno nella nostra memoria? Due o tre al massimo. Ecco. La Letteratura non è fatta dalla facile routine, ma da quei due o tre momenti estremi di gioia e di lusso della nostra esistenza: quei momenti diventano il mio romanzo. Coco Chanel diceva che tutti credono che il lusso sia l’opposto della povertà. No: lo è della volgarità. La Letteratura è quando tutto sulla pagina è estremo, perfetto, in ordine. Sono i momenti di gioia, dove niente è volgare».
La stessa cosa per la scrittura.
«Sì, anche la scrittura dev’essere lusso e gioia: qualcosa di perfetto, controllato, appassionato, ricercato, lontano dalla routine. Io, nei miei libri, tiro la lingua italiana all’estremo, usandola dal lusso al kitsch, sintetizzo tutti i linguaggi: noir, memoires, cinema, giornalismo, poesia. In questo sono malapartiano: sfruttando tutte le potenzialità di ogni lingua, non faccio capire cos’è vero e cos’è falso. Come Malaparte in Kaputt. E come ci arrivi a questo? Lavorando, come dicevano gli antichi artigiani italiani, facendo le cose con passione e con i materiali più lussuosi. Facendo le cose a regola d’arte».
Cosa fa bene al libro?
«Io lo so. Ho insegnato per anni Italiano alle superiori. E nel 1995 ho scritto il romanzo L’esame di maturità. Gli studenti li conquisti solo con la passione, facendo leggere a voce alta direttamente gli autori, subito, senza sovrastrutture, facendo parlare i ragazzi con il testo e parlando, tu professore, degli scrittori che si leggono in classe come persone vive, mentre i ragazzi pensano siano nati già morti. Bisogna far vedere che quegli autori quando scrivevano erano vivi: amavano, odiavano, lottavano, andavano in moto, baravano a carte, facevano le cose che facciamo tutti noi. Al libro serve una scuola dove si leggano le pagine e si raccontino le vite dei Parise, dei Bianciardi, dei Comisso, dei Piovene».
E la tv?
«Deve fare la stessa cosa. Non parlare di libri, ma leggere i libri. E far vedere che gli scrittori sono persone vive».
Come chi?
«Come Picca».
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/io-sparo-bene-salvo-lusso-e-gioia-vivere-1018045.html
Primitivo e raffinato, sangue caldo da mammifero e testa fredda da rettile, Aurelio Picca è stato il primo della sua generazione, nata sull’ultimo lembo vulcanico dei Colli Albani alla fine degli anni Cinquanta, a impennare in motorino. Un ninja in Kawasaki, e andava sempre fuori misura. In moto, nella vita e in letteratura. Andando in analisi, pur non credendo alla psicoanalisi, a causa di una depressione, male che per lui non esiste, dopo la morte della madre. «Per due motivi: per sublimare una forma di corteggiamento verso la mia psicoanalista, e perché questi incontri erano carichi di gioia: la cura non era fare l’amore con lei, ma fare l’analisi, che era la stessa cosa perché alla fine della seduta era come avessimo fatto l’amore. Ne uscivamo entrambi soddisfatti». Ma questo, con la gioia del suo nuovo romanzo che presenta oggi al Salone di Torino, Un giorno di gioia (Bompiani), non c’entra.
Forse c’entra il Bene, però cos’è il Bene?
«Il bene non so cosa sia, io semmai so cosa sono la passione e la generosità. Il bene fa parte delle cose facili della vita, come dare la mancia al cameriere o regalare un euro all’extracomunitario. Cose che sanno fare tutti. Le cose difficili sono altre. Mio nonno, un repubblicano severissimo, e mia madre, una cristiana delle origini, mi hanno allevato a cose estreme: la generosità nei confronti degli altri e la passione per la vita. Questo è difficile. Alle persone che per me sono importanti, io non voglio bene. Io a loro mi appassiono, per loro mi consumo».
E alla Letteratura, cosa fa bene?
«Le stesse cose: alla letteratura serve generosità e passione. Io sono stato educato non alle illusioni, ma alle ambizioni. E così la letteratura. Che non deve incamminarsi sulle illusioni del facile successo, del consenso di massa, della scontata attualità. Ma deve essere passionale, prima di tutto verso la grande tradizione della nostra lingua, che è una ricchezza immensa, e deve lavorare sempre per una grande ambizione. Lo insegna Albert Camus quando dice che non bisogna scrivere i libri che si desidera scrivere, ma quelli che serve scrivere. Ecco: la letteratura italiana oggi è carica di facili illusioni, senza alcuna vera ambizione».
L’illusione è come il Bene: troppo facile.
«È così. Io col mondo non ho rapporti di potere, ma sentimentali: di passione, di ambizione, di amore per le persone che mi circondano e per il lavoro che porto avanti. Cose ben più difficili che fare il bene».
E la gioia che sta al centro del tuo libro?
«La gioia è questo: riuscire a scrivere un libro estremo. E cosa significa scrivere un libro estremo? Costruire attorno alla trama, al genere narrativo e alla vita interiore dei personaggi – una madre rapinatrice e il suo bambino in un romanzo d’azione ambientato negli anni Cinquanta – una struttura narrativa estrema che tenga dentro tutto: la visione, il cinema, il sogno e la realtà quotidiana. E che tenga dentro soprattutto il lusso».
Il lusso?
«La madre, protagonista del romanzo, dice La ricchezza è per benpensanti e per borghesi, io preferisco il lusso. E anch’io: alla ricchezza preferisco il lusso, come al bene preferisco la gioia: qualcosa che oggi si ha, domani si può perdere. Voglio dire che alla Letteratura io chiedo atteggiamenti fuori dalla norma e dalle consuetudini. Paul Bowles si chiedeva: Quante cose ricorderemo alla fine della vita? Quante albe, quante persone tra tutte quelle che abbiamo visto rimarranno nella nostra memoria? Due o tre al massimo. Ecco. La Letteratura non è fatta dalla facile routine, ma da quei due o tre momenti estremi di gioia e di lusso della nostra esistenza: quei momenti diventano il mio romanzo. Coco Chanel diceva che tutti credono che il lusso sia l’opposto della povertà. No: lo è della volgarità. La Letteratura è quando tutto sulla pagina è estremo, perfetto, in ordine. Sono i momenti di gioia, dove niente è volgare».
La stessa cosa per la scrittura.
«Sì, anche la scrittura dev’essere lusso e gioia: qualcosa di perfetto, controllato, appassionato, ricercato, lontano dalla routine. Io, nei miei libri, tiro la lingua italiana all’estremo, usandola dal lusso al kitsch, sintetizzo tutti i linguaggi: noir, memoires, cinema, giornalismo, poesia. In questo sono malapartiano: sfruttando tutte le potenzialità di ogni lingua, non faccio capire cos’è vero e cos’è falso. Come Malaparte in Kaputt. E come ci arrivi a questo? Lavorando, come dicevano gli antichi artigiani italiani, facendo le cose con passione e con i materiali più lussuosi. Facendo le cose a regola d’arte».
Cosa fa bene al libro?
«Io lo so. Ho insegnato per anni Italiano alle superiori. E nel 1995 ho scritto il romanzo L’esame di maturità. Gli studenti li conquisti solo con la passione, facendo leggere a voce alta direttamente gli autori, subito, senza sovrastrutture, facendo parlare i ragazzi con il testo e parlando, tu professore, degli scrittori che si leggono in classe come persone vive, mentre i ragazzi pensano siano nati già morti. Bisogna far vedere che quegli autori quando scrivevano erano vivi: amavano, odiavano, lottavano, andavano in moto, baravano a carte, facevano le cose che facciamo tutti noi. Al libro serve una scuola dove si leggano le pagine e si raccontino le vite dei Parise, dei Bianciardi, dei Comisso, dei Piovene».
E la tv?
«Deve fare la stessa cosa. Non parlare di libri, ma leggere i libri. E far vedere che gli scrittori sono persone vive».
Come chi?
«Come Picca».
http://www.ilgiornale.it/news/cultura/io-sparo-bene-salvo-lusso-e-gioia-vivere-1018045.html
PROSTITUTA UCCISA, IL PIANTO DI UNA MADRE E L’OMBRA DEL SADISMO
di Elisabetta Ambrosi, ilfattoquotidiano.it, 11 maggio 2014
Anche se ho imparato che di fronte a notizia tragiche di cronaca sarebbe meglio limitarsi a ricordare ed eventualmente denunciare, senza lasciar spazio al dolore – che talvolta nasce dall’incontro tra un destino tragico di una persona sconosciuta e vissuti personali infantili di abbandono e di sofferenza che riguardano più noi che, forse, una reale empatia verso la vittima –nel caso dell’uccisione di Cristina Zamfir mi riesce quasi impossibile mettere a tacere un sentimento di tristezza profonda. Specie quando vedo, oggi pubblicata dai giornali, il viso di sua madre portata davanti al palo legata al quale è morta sua figlia. A sua volta madre di una bimba, come spiegavano i sottotitoli del giorno dopo il delitto che purtroppo non avrei mai voluto leggere.
Ben poca consolazione è venuta dall’arresto quasi immediato di Riccardo Viti (già autore di sevizie e violenza), che anzi ricorda che, visti i precedenti, se fosse stato preso prima oggi non ci sarebbero né una figlia orfana né una madre orfana di figlia. Come, forse, non ci sarebbero se gli abitanti che durante quella notte avvertirono chiaramente i lamenti della ragazza che stava morendo dissanguata avessero almeno chiamato la polizia, anche se non c’è dubbio che delle condizioni di degrado della zona in cui la ragazza si prostituiva fa parte anche una comunità che al degrado reagisce, appunto, con l’isolamento e la chiusura.
E in questo quadro di abbandono, anche mediatico, visto che le prostitute sono donne di serie b, donne che arrivano alla cronaca solo se brutalizzate e uccise, Cristina Zamfir ha avuto la sfortuna di incontrare sulla sua strada un sadico. Perché il delitto di Firenze è diverso dai i classici femminicidi, che in genere colpiscono mogli e fidanzate che hanno deciso di separarsi e scegliere una vita di autonomia. “Come mai Riccardo Viti non ha seviziato e ucciso, ad esempio, la donna delle pulizie ucraina che – almeno secondo l’anagrafe – era sua moglie?”, si chiede lo psicoanalista Sergio Bevenuto, autore di numero pubblicazioni sulle perversioni. “Credo che la risposta sia proprio nel carattere sadico dell’uomo: “Nel delitto sadico – che non a caso è seriale, potrebbe continuare all’infinito – è tutt’altra cosa: il sadico vuole far soffrire fino all’orlo della morte La Donna, o, se preferite, tutte le donne”.
Ma perché accanirsi contro una donna delle più deboli? “È questo il capolavoro del rancore sadico, perversione così barocca”, risponde lo psicoanalista, “perché la prostituta è la più innocente. Il sadismo gode nel punire non il colpevole – la bellissima donna che ti guarda dall’alto in basso e che ti rifiuta come partner in un letto – ma l’innocente. Seviziare la puttana è infierire sulla santa. Il godimento del sadismo non è tanto nel vedere la donna soffrire: ma nel sapere che questa sofferenza è ingiusta, e che grida vendetta. Perché solo nella punizione ingiusta dell’innocenza – le prostitute sono le sole donne che non lo rifiutino – il sadico rinnova, attualizza, il danno profondo da cui la sua passione si scatena: il danno di essere un uomo, di essere qualcuno che deve mendicare sesso e amore da esseri troppo potenti chiamati “donne”. Il sadismo è la rivolta implacabile contro la Donna”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/11/prostituta-uccisa-il-pianto-di-una-madre-e-lombra-del-sadismo/980715/
Anche se ho imparato che di fronte a notizia tragiche di cronaca sarebbe meglio limitarsi a ricordare ed eventualmente denunciare, senza lasciar spazio al dolore – che talvolta nasce dall’incontro tra un destino tragico di una persona sconosciuta e vissuti personali infantili di abbandono e di sofferenza che riguardano più noi che, forse, una reale empatia verso la vittima –nel caso dell’uccisione di Cristina Zamfir mi riesce quasi impossibile mettere a tacere un sentimento di tristezza profonda. Specie quando vedo, oggi pubblicata dai giornali, il viso di sua madre portata davanti al palo legata al quale è morta sua figlia. A sua volta madre di una bimba, come spiegavano i sottotitoli del giorno dopo il delitto che purtroppo non avrei mai voluto leggere.
Ben poca consolazione è venuta dall’arresto quasi immediato di Riccardo Viti (già autore di sevizie e violenza), che anzi ricorda che, visti i precedenti, se fosse stato preso prima oggi non ci sarebbero né una figlia orfana né una madre orfana di figlia. Come, forse, non ci sarebbero se gli abitanti che durante quella notte avvertirono chiaramente i lamenti della ragazza che stava morendo dissanguata avessero almeno chiamato la polizia, anche se non c’è dubbio che delle condizioni di degrado della zona in cui la ragazza si prostituiva fa parte anche una comunità che al degrado reagisce, appunto, con l’isolamento e la chiusura.
E in questo quadro di abbandono, anche mediatico, visto che le prostitute sono donne di serie b, donne che arrivano alla cronaca solo se brutalizzate e uccise, Cristina Zamfir ha avuto la sfortuna di incontrare sulla sua strada un sadico. Perché il delitto di Firenze è diverso dai i classici femminicidi, che in genere colpiscono mogli e fidanzate che hanno deciso di separarsi e scegliere una vita di autonomia. “Come mai Riccardo Viti non ha seviziato e ucciso, ad esempio, la donna delle pulizie ucraina che – almeno secondo l’anagrafe – era sua moglie?”, si chiede lo psicoanalista Sergio Bevenuto, autore di numero pubblicazioni sulle perversioni. “Credo che la risposta sia proprio nel carattere sadico dell’uomo: “Nel delitto sadico – che non a caso è seriale, potrebbe continuare all’infinito – è tutt’altra cosa: il sadico vuole far soffrire fino all’orlo della morte La Donna, o, se preferite, tutte le donne”.
Ma perché accanirsi contro una donna delle più deboli? “È questo il capolavoro del rancore sadico, perversione così barocca”, risponde lo psicoanalista, “perché la prostituta è la più innocente. Il sadismo gode nel punire non il colpevole – la bellissima donna che ti guarda dall’alto in basso e che ti rifiuta come partner in un letto – ma l’innocente. Seviziare la puttana è infierire sulla santa. Il godimento del sadismo non è tanto nel vedere la donna soffrire: ma nel sapere che questa sofferenza è ingiusta, e che grida vendetta. Perché solo nella punizione ingiusta dell’innocenza – le prostitute sono le sole donne che non lo rifiutino – il sadico rinnova, attualizza, il danno profondo da cui la sua passione si scatena: il danno di essere un uomo, di essere qualcuno che deve mendicare sesso e amore da esseri troppo potenti chiamati “donne”. Il sadismo è la rivolta implacabile contro la Donna”.
http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/11/prostituta-uccisa-il-pianto-di-una-madre-e-lombra-del-sadismo/980715/
LA RABBIA: UNA PASSIONE CREATIVA
di Roberto Lucchetta, oggitreviso.it, 12 maggio 2014
La rabbia, base pulsionale biologica naturale, rappresenta uno scandaglio dell’Anima, un moto interiore per accedere ad un contatto più preciso con il Sé. È la più acuminata tra le emozioni, quella che viene vista più col naso storto. Un conto è quando parliamo d’amore, ci brillano gli occhi, sorridiamo, quando parliamo di un individuo o di un personaggio innamorato, già ci gocciola il cuore di commozione. Ma quando parliamo di individuo rabbioso, ci spostiamo su un versante di timore. Non sempre però, perché quando ci prefiguriamo un individuo dai comportamenti irosi, arretriamo di un passo, ma se qualcuno ci racconta di una giusta rabbia (lavoratori licenziati, donne maltrattate, bambini abusati, ecc.), la rabbia non ci fa più paura, anzi, ci schieriamo. La rabbia è una dimensione che ha a che fare con l’aggressività, è una tensione contro qualche cosa, movimento significativamente differente dall’amore che è un movimento verso qualcosa. Ma sempre di movimenti si parla.
Il tema dell’aggressività è stato fortemente approfondito subito dopo le due Guerre Mondiali; lì il tema dell’aggressività ha immediatamente scaldato gli animi. All’interno della Scienza della Psicologia ci sono due modalità di leggerla: una, più psicoanalitica, è la tendenza alla distruzione, alla distruttività, non solo ma anche all’auto-distruttività. Un’altra, che prende spunto dalla radice latina del termine, indica una tendenza ad andare avanti, che ha a che fare con l’aggredire la vita, il penetrare la vita. Due movimenti differenti quindi, uno teso a distruggere, uno a progredire.
Il tema più grosso è relativo a vedere se la rabbia sia istintiva o culturale. La Sociologia tende a definire il fenomeno aggressività come un fenomeno culturale, legato a fattori socio-ambientali, così nelle teorie della frustrazione, l’individuo frustrato dalle condizioni tende all’aggressività. In una teoria dell’apprendimento, l’aggressività viene appresa all’interno dei gruppi di riferimento. C’è un qualche cosa dell’ambiente che sollecita una realtà preesistente dentro di noi o è l’ambiente che crea l’aggressività? La parte favorevole all’innatismo prende una buona parte dell’antropologia, dell’etologia e della psicanalisi.
L’etologo Konrad Lorenz, racconta come nel mondo animale, gli animali stessi tendano ad un’aggressività intra-specifica, cioè un’aggressività che sta all’interno della specie, e che si orienta verso l’esterno principalmente per motivi di nutrimento. Ma è all’interno della specie semplicemente per stabilire dei rapporti di forza. Quindi, due leoni che si affrontano per determinarne il capo branco, il più forte (e questo ha tutto un suo senso dal punto di vista evolutivo), sarà colui che feconderà la femmina e produrrà una discendenza più ricca e capace di adattarsi alla natura. Due leoni lottano aggressivamente fino al momento in cui uno dei due abbassa la criniera, si mette a pancia in su (lo si vede anche nei cani), e nel momento in cui l’altro si arrende, la guerra è finita. Lo stato di sottomissione e riconoscimento della superiorità altrui, genera l’interruzione del momento aggressivo. Aggressività sana, naturale, tesa allo sviluppo. Per Lorenz, l’aggressività è innata.
Dove è diverso l’uomo? L’uomo è diverso quando non guerreggia più corpo a corpo, quando non è più in grado di valutare il momento difensivo dell’altro. Nel momento in cui si utilizza l’arma, l’altro è troppo lontano per poter proferire o cantare il suo grido di sottomissione. Per cui l’uomo uccide e uccide sotto un’aggressività deviata, cioè senza rispettare i codici della Natura.
Freud formula una teoria delle pulsioni, due in particolare: di vita e di morte (Eros e Thanatos). Queste due pulsioni reggono la vita dell’individuo. La pulsione di vita ci porta ad essere nella realtà, a penetrare nella realtà, a creare immaginazione, a creare riproduzione, a creare vita. La pulsione di morte mira esattamente al contrario, alla distruzione psichica dell’uomo, ai momenti depressivi, al suicidio e, all’esterno, alla distruzione dell’altro. Sono due pulsioni coesistenti. L’uomo può rivolgere aggressività verso se stesso o verso il mondo: verso il mondo potrà essere positiva o negativa, mentre verso di sé potrà farlo solo in maniera negativa. Il problema è che dovrà canalizzarla verso qualche cosa…e quindi dice: “In fondo l’uomo, ogni uomo, è messo di fronte ad una terribile scelta: uccido me o uccido il mondo?” L’uomo è in possesso di una pulsione di morte naturale che può essere distruttiva o auto-distruttiva.
Erich Fromm parla di due tipi di aggressività: una che è simile a quella degli animali, attacco e fuga, un’aggressività benigna. Poi parla di un’aggressività distruttiva malevola, maligna, volta unicamente alla distruzione e non contenuta all’interno dell’aggressività tipicamente naturale.
Alfred Adler, psichiatra e psicanalista austriaco, parte da una visione del bambino, dell’essere nascente come inadeguato. Parla di una presenza di inadeguatezza in ogni essere umano che tende a chiedere aiuto all’altro, e l’altro è il genitore. Per lui bisogna vedere quanto questo grido di aiuto venga sentito ed aiutato. Quando l’ambiente esterno sorregge il bambino e lo aiuta a superare il suo senso di inadeguatezza, crescerà sano e con una propensione attiva verso il mondo. Meno l’ambiente familiare riuscirà a reggere questo senso di inadeguatezza, più si formerà un complesso di inferiorità. Il complesso di inferiorità genera aggressività, il più delle volte incapace di esprimersi. Anche per Adler è una componente innata che tende allo sviluppo e si aspetta dal mondo esterno una risposta di contenimento.
C. G. Jung semplicemente dice: “l’aggressività va conosciuta. Un volta riconosciuta bisogna imparare a controllarla. Una volta imparato a riconoscerla e controllarla, la si può spendere nel mondo. Ogni individuo è dotato di due leoni al guinzaglio da richiamare al momento opportuno”. Non sempre le persone riescono a riconoscere una propria aggressività, o la riconoscono ma non sanno usarla e quindi è come se avessero bisogno di sperimentare l’aggressività per conoscerla.
Donald Winnicott, pediatra inglese poi psicoanalista, a proposito dell’aggressività dice questo: “L’idea principale di questo studio sull’aggressività è che, se la società è in pericolo non è tanto a causa del comportamento aggressivo dell’uomo, quanto a causa della rimozione della propria aggressività che avviene nell’individuo.L’uomo non è pericoloso perché aggressivo, ma perché rimuove la propria aggressività. Noi diventiamo più pericolosi quando ci rendiamo buoni. L’aggressività è presente prima dell’integrazione della personalità, cioè prima che il bambino cresca”. Il bambino tira calci nel ventre materno, ma non si può pensare che egli stia cercando di uscire. Il neonato di poche settimane batte l’aria con le braccia, ma non si può pensare che intenda colpire. Mastica con le sue gengive il capezzolo della madre, ma non si può pensare che egli voglia distruggere o far male. È esperienza istintuale. All’origine l’aggressività è quasi sinonimo di attività; si tratta di una funzione parziale. Sono queste funzioni parziali che il bambino crescendo trasforma ed organizza gradualmente in aggressività. Il comportamento finisce per diventare intenzionale nella misura in cui il comportamento ha uno scopo. L’aggressività fa parte dell’espressione primitiva dell’amore. Il bambino compie gesti di relazione, di movimento, che tendono ad uno spostamento intenzionale o semi-intenzionale nello spazio. Da questi movimenti, attraverso la relazione con l’altro, inizierà a capire quanto questi comportamenti siano o meno aggressivi. Culturalmente si svilupperà l’aggressività che però parte da un dato istintivo. L’aggressività, i movimenti, hanno sempre a che fare con la relazione. E la relazione è sempre un gesto d’amore. Quindi l’aggressività è in relazione con l’amore.
La rabbia contiene una relazione con l’aggressività. Il fatto che l’aggressività sia considerata un istinto o un aspetto della cultura, ha una rilevanza essenziale ad esempio nell’educazione. Noi non ci pensiamo mai (e funzioniamo in un modo un po’ stereotipato), ma se assumessimo coerentemente il presupposto che noi siamo aggressivi, quindi non possiamo non esserlo, potremo mediarla ma non escluderla. Forse dovremmo immaginare nella famiglia e nelle scuole un’educazione alla rabbia, educazioni che tengano presente di questo dato invece di una continua enfatica educazione alla pace. Se si parla con un bambino che si presupponga sperimenti in sé l’aggressività, cosa significa dirgli che la pace è l’unica cosa valida? Che lui è sbagliato. C’è anche una pace certo ma dovrei spiegare che insieme al desiderio e la tensione verso la pace tu contieni una spinta anche verso l’aggressività. Tu sei anche arrabbiato. Mi viene in mente l’abitudine che hanno le madri Tuareg di strappare il bambino dal seno in diversi momenti della suzione per allevare in loro la rabbia e l’aggressività per poter sopravvivere nel deserto. Con “il giusto sta nella pace il male nell’aggressività”, stai dicendo al bambino che una parte di lui non è valida. Non avendo i mezzi razionali ed intellettuali per controbattere o ribadire qualcosa nel far riflettere un altro tipo di verità, si sentirà ingiusto, facendo precipitare nel mare dell’inconscio un’aggressività poi spesa diversamente. Due bambini che si contendono un pennarello, per dirla alla Lorenz, avrebbero più diritto di giocare in quei termini per conoscere una realtà naturale più consona a loro stessi. Più un bambino può entrare in contatto con quella dimensione, più farà pace con essa.
Se l’aggressività è un istinto, avrà un limite. E il limite è legato alla specificità dell’evento e alla causa che l’ha generato. L’ira funesta di Achille non è stata stigmatizzata. Lui ha fatto bene, di fronte al fatto ingiusto ha reagito con la strage. L’aggressività ha senso quando legata ad una causa. Conosciamo bene l’ira di Dio laddove sa essere giusta verso chi sbaglia o lede qualcosa della persona che subisce il torto. Bisogna colpire soltanto la persona o il gruppo che lo merita. La storia ci racconta che l’ira può generare aggressività nei confronti di chi sbaglia. Quale è il limite, il paletto dell’aggressività legato all’ira? Per essere corretti e non cadere in peccato ci vuole un giusto motivo, una giusta causa e bisogna indirizzare la propria aggressività soltanto nei confronti delle persone o persona che compie l’atto sbagliato e offensivo in relazione al gesto stesso, vale a dire punito per quella cosa specifica, non per la sua essenza di persona.
La rabbia genera aggressività, la rabbia non è l’aggressività. Sembra qualcosa che prelude all’aggressività ma non è tale. La rabbia è un insieme di emozioni e sentimenti, forse la potremmo iniziare a definire una Passione. Dovremmo chiederci che cos’è una passione. La parola passione deriva dal latino patire. Patimento, che è contrapposto all’azione. Patire ha a che fare con il subire: è una condizione di passività, di subire passivamente un qualcosa. Questa è la passione. Che cosa si subisce nella passione? Si subisce l’arrivo di un’entità, di un qualcosa dall’esterno che agisce sul nostro animo e lo fa soggiacere. Pensiamo alla passione d’amore. Restiamo inerti, come quando proviamo una rabbia. Un’emozione che sovrasta l’Io e soggiaciamo a questa emozione. Nel dizionario comune la passione “è un sentimento intenso e violento di attrazione o repulsione verso un oggetto che turba l’equilibrio psichico”. Qualche cosa che ci attira o ci repelle, che in qualche modo ci condiziona dentro procurando un blocco emotivo. Questa è la passività della passione. Qualcosa che ci blocca.
Qual è lo stato d’animo della passione? Che sia una passione d’amore, o rabbia di passione politica, sentiamo uno stato di profondo turbamento e un blocco. A questo possiamo agire attraverso un’azione, una tensione verso l’oggetto che, nel caso dell’amore, è un procedimento quasi lineare verso un oggetto amato, nel caso di un turbamento d’ira è un movimento più complesso perché ci chiede aggressività. Perché l’oggetto è qualche cosa che non solo ci attrae, ma anche ci repelle. Nella rabbia c’è un processo verso un oggetto che però è un oggetto repellente. Una persona che ci insulta è una persona che ci provoca un blocco interno, uno stato di paralisi ma, anche se possiamo muoverci verso, sentiamo un’avversione che rende questo movimento più difficile. La passione è quindi un movimento, ci dice chi siamo e chi vorremmo essere. Serve a spiegare qualcosa di noi e della nostra ideale tendenza. Se io mi innamoro di una persona, la passione che provo in quel momento parla di me, perché la persona da cui vengo colpito racconta qualcosa di me, e mi dice qual è il movimento che vorrei fare nella vita, cioè dove vorrei andare: mi dice che io vorrei essere lì con quella persona.
In questo la passione contiene sempre una dimensione eroica. La passione fa sì che io faccia domande su me stesso, mi chiede di spostarmi in una direzione, una passione mi obbliga a muovermi, a spostarmi dalla mia condizione precedente. Un individuo che non ha passioni rimane sempre uguale a se stesso. Un individuo che coltiva la passione è in una continua dinamica. L’esperienza di passione non è mai pura interiorità, non è mai qualcosa che sta sempre dentro, la passione deve uscire in qualche modo. Attraverso le parole, i gesti, il corpo. Se sono arrabbiato posso gridare la mia rabbia verso qualcuno, oppure se non riesco a farlo certifico la mia presenza passionale: arrossisco, sudo, tremo ma devo comunicare al mondo la mia passione. Dentro non posso tenerla, altrimenti non è passione ma un’altra cosa. Il soggetto che libera passione, percepisce la propria passione attraverso l’altro. Se io sono molto arrabbiato fulmino l’altro con lo sguardo, genero nell’altro un mutamento che si riflette in me. Io vedo la mia ira traverso lo sguardo spaventato dell’altro. Oppure vedo il mio amore attraverso lo sguardo dolce dell’altro. Specchi. Anche quando ascoltiamo due fidanzati parlare in una lingua lontana, dagli occhi con cui si parlano percepiamo che si tratta di fidanzati perché muovevano la bocca come qualsiasi tipo di innamorato, una gestualità tipica della passione. Lo stesso anche per la rabbia, anche se non la capiamo la leggiamo ugualmente. La passione, che sia amore o rabbia, deve contenere un aspetto relazionale. La passione vuole comunicare, non può tenere dentro assolutamente niente. Quindi possiamo dire che l’emozione diventa passione quando si può esprimere attraverso gesti, parole. L’emozione diventa passione quando ha un nome e quando si comunica.
La passione è relazione. C’è una differenza profonda tra l’emozione e la passione. Tra la pulsione, l’emozione e il sentimento. La pulsione è qualcosa di primitivo, è puramente azione. Io sperimento una cosa, ad esempio sono arrabbiato e non so di esserlo, mi muovo, cammino avanti e indietro per la stanza, faccio dei gesti e non capisco cos’ho. L’emozione è un avvicinamento a questo istinto attraverso una percezione della pancia. Il sentimento, di cui la passione è espressione, ha un nome e un suo linguaggio. Il sentimento/passione è capacità di comprensione di ciò che si vive e possibilità di scambiarlo con l’altro. Questa è una tappa evolutiva. Passare dal puro vissuto di qualcosa d’altro, alla percezione che ciò che viviamo dentro ha una sua forma e un suo nome e il fatto che noi possiamo comunicarlo, sono tre salti evolutivi non sempre realizzati o realizzabili.
Ripercorrendo ciò detto per la rabbia: c’è un oggetto esterno, una persona, che provoca qualcosa dentro di noi. Questo qualcosa di inaspettato, che non ci piace, trapassa l’Io, lo buca andando direttamente dentro, provocando immediatamente un sommovimento emotivo, disorientando. Una riflessione dell’Io ricomposto consente di contenere l’emozione. Ma se non si è in grado di ricomporsi rimanendo disorientati, il rischio è di reagire. L’Io non controlla più lo stato d’animo. In questo caso la rabbia può essere quell’energia che mi solleva da uno stato di passività incontrollabile dell’Io e mi può portare all’esterno, verso l’oggetto o la persona, a dire o fare qualcosa. Non reagire, ma dire, agire. Consegnati al momento di pazienza, saremo in grado di perderla per agire. L’impazienza porta solo a reagire. Quando si perde la pazienza è positivo perché ci si è consegnati in precedenza alla pazienza: quello sarà il nostro momento vero d’azione, e non un mero “fare” magari consigliato. Questo movimento è straordinario perché l’evento imprevisto produce un lavoro dentro di sé che richiede di uscire dalle certezze che accompagnano la propria vita. Mi costringe ad un rapporto con un mancante mio, ad un lavoro psicologico, mette sé a confronto con sé. In quel momento accetto di discutere col mio mancante. Quando l’oggetto esterno provoca qualcosa dentro di me ed io riesco a superare il disorientamento che l’Io da solo non riuscirebbe grazie a questa energia-rabbia che mi porta al confronto, quell’energia rabbia ha un valore e una valenza immensa: accetto il confronto. La reazione è la fuga. La rabbia è una vera passione perché chiede il confronto se esternata, interloquita, espressa, detta.
Odio e Invidia sono un esempio di due modalità molto differenti della rabbia. L’odio è un sentimento di avversione profonda. Dire di odiare una persona è molto differente che dirsi arrabbiati con la stessa. L’odio desidera il male o la rovina altrui. L’odio non ha relazione, vuole la distruzione. Non vuole interloquire con l’aspetto della persona che mi dice una cosa, come la rabbia che è relativa ad un luogo, ad un gesto specifico. L’odio è su tutta la persona. L’invidia è una dimensione ancora più subdola. Nell’invidia si attaccano le cose buone dell’altro. Io invidio un bene o una qualità altrui, non vado verso un negativo, voglio appropriarmi di qualcosa di buono. Melanie Klein parla di “attacco al seno buono”. Io odio e detesto la tua fortuna di avere del bene e voglio attaccarlo subdolamente per appropriarmi delle tue cose fantasticamente facendoti del male. L’invidia è una condizione terribile che si vive nel vivere d’invidia. Odio ed invidia in comune hanno l’assenza dell’Io, del soggetto come entità desiderosa di cambiare. Fondamentalmente vive per l’atro, per odiarlo, per distruggerlo. Non cambio me, cambio te distruggendoti. Vivo per rubare a te, non per sviluppare me. La rabbia è una passione perché ha interlocuzione. Odio e invidia no. Perché non ci si batte contro un’ingiustizia, ma vado alla rotta distruttiva o di appropriazione indebita. Un esempio può essere in coppia, dove uno è più indipendente e l’altro meno. Dal punto di vista della persona dipendente, la vita è sempre un po’ più difficile perché vede l’altra persona fare le cose di cui lei si vede incapace, perché non se le legittima. Allora che differenza c’è tra l’atteggiamento di rabbia, di odio o d’invidia – tre modalità che possono esistere in una relazione a due – sulla questione della dipendenza? La rabbia produrrà un confronto. Gridare una gelosia significa accettare l’interpretazione della gelosia. Io quando mi arrabbio mi espongo, l’altro mi dice la verità, mi dice di un mio mancante. Quando sono dipendente non sono capace di arrabbiarmi e quindi uso l’odio. Non dibatto, non sono in grado di dire che sono arrabbiato per la tua autonomia, non riesco a dare un nome e quindi odio, inizio ad odiare la complessità della persona e non più un aspetto. Si diventa negativi in maniera assoluta (ab solvere, sciogliere da – ti lascio!). L’odio toglie qualsiasi spazio all’interlocuzione, quindi al dibattito.
Nell’invidia non ti distruggo neanche più, ma vivo nel farti del male. Quindi inizio ad agire dei comportamenti che non sono rivolti allo sviluppo della mia autonomia, ma sono rivolti alla punizione della tua. Punisco le cose buone che tu hai e che dovrei imparare a possedere. Cosa che posso fare solo attraverso la rabbia perché la rabbia è esposizione. La rabbia, che è la passione che mi permette la riflessione, è possibile quando esiste un Io capace di entrare in contatto col mondo emotivo. Io devo avere il coraggio di confrontarmi.
Proferire la rabbia richiede un Io forte. Se l’Io non è capace a difendersi, scappa. Non vuole sentire l’altro. Abbiamo mille modi per non sentire l’altro. Oppure ci si può perdere dentro lo stato emotivo: o l’Io riesce a difendersi e interagisce con ciò che sta succedendo o l’Io viene sommerso. Quindi va in una crisi che potremmo definire “psicotica” (anche se chiaramente non è una vera crisi di follia). Perdiamo la testa, fuggiamo irrazionalmente, ne diciamo di tutti i colori! E qui non si sta parlando di una questione morale ma di struttura dell’Io. L’Io, nel momento in cui si perde, non sta facendo il suo lavoro, è disintegrato, non può utilizzare niente dell’avvenimento. L’Io che si difende e che scappa, fa la stessa cosa. Va via, meno spaventato, più tronfio delle sue sicurezze ma ugualmente non lavora con se stesso.
Ci capitano momenti in cui ci agitiamo, in cui l’Io si frantuma, va via. Dobbiamo tenere come faro la possibilità di lasciarci mettere in discussione e capire quando esageriamo in termini di difesa dal mondo o quando esageriamo in termini dell’essere sommersi dalle emozioni che il mondo ci determina dentro. L’Io allora deve essere forte, ma definire un Io forte è molto difficile. Possiamo dire che l’Io forte è quello che riesce ad avvicinarsi alla tensione che il mondo esterno genera all’interno di noi, a cercare di dargli un nome e affrontare fuori nel mondo quella densità che si è strutturata interagendo con l’oggetto o il soggetto. Si tratta di Io forte perché sa accettare il limite, sa discutersi prima che discutere con l’altro, ma sapendo discutersi sa discutere con l’altro. Accetto il dibattito con l’altro nel momento in cui accetto il dibattito con me stesso. Mi espongo con l’altro nel momento in cui so espormi con me stesso.
Ma cos’è l’Io? È il luogo della nostra identità. L’Io sin dalla nascita impara a controllare le funzioni che man mano apprende, padroneggiando strutture funzionali che ha imparato sulla propria “pelle” a vivere. L’Io padroneggia questo mondo, delle capacità, delle abilità. Non solo motorie e corporee ma anche psicologiche. A suo modo l’Io ha una capacità di entrare in relazione con le sue emozioni, sa quando si arrabbia, quando ci si deve arrabbiare, quando si deve amare, quando si può amare, quello che si può dire o non dire, costruisce una linea nel tempo della propria identità. L’Io per definizione vuole la continuità e chiede che questa non venga modificata. Vuole certezza e sicurezza. Noi vogliamo certezze. Fuori dalla certezza ci stiamo male. Questo è il motivo per cui se due persone che stanno insieme per 20 anni e si odiano, quando poi decidono di separarsi entrano in crisi. L’Io non ce la fa ad uscire da uno schematismo che si è costruito con una fatica terribile, a costo di sacrifici e rinunce. Nel tempo si è costruito la continuità. Quando il mondo ci porta l’imprevedibile, ci desitua.
Ma non è che l’Io non debba andare in crisi, anzi. Se noi ipotizzassimo una vita in cui l’Io riuscisse a soddisfare il suo bisogno di continuità, la nostra vita potremmo anche interromperla qui, perché saremmo sempre in difesa, sempre. E così non cambiamo mai. Eppure, l’evento che buca l’Io, costringendolo a non avere il controllo, e provocando un moto interno da gestire, genera la novità. È li che c’è la vita. La vita inizia nel momento in cui l’Io abbassa la testa, e non la fa mai intenzionalmente. I cambiamenti più grandi nella vita non avvengono quando uno discute sui grandi temi esistenziali, ma quando prendiamo delle botte tremende, quando ci ammaliamo anche seriamente, quando qualcuno ci lascia o quando lasciamo qualcuno, cioè quando entriamo in una dimensione che destruttura concretamente questo senso della continuità e costringe a sentire la vita. Quando l’Io molla io entro a contatto con una dimensione altra, entro nell’alterità. Io sono a contatto con l’inconscio lì, e la mia vita può cambiare lì. L’evento malattia, è la botta che frantuma l’Io e ci mette a contatto col mondo interno. Succede che l’Io, che è forte, può provare a reggere questo impatto: può iniziare ad ascoltare e sentire che il disagio provocato dal mondo esterno genera un disagio che diventa rabbia, cioè “io voglio qualche cosa che non ho”, e l’Io riesce a legittimarsi che questa rabbia si attacchi all’aggressività per portar fuori e dar voce alla mancanza.
Quali sono le condizioni di un Io strutturalmente abbastanza solido? Per dirla come Winnicott, “l’Io che si struttura nei primi tempi della vita chiede anche una presenza materna. Vuol dire presenza di una madre e di un padre che l’appoggi. Che la madre fornisca una certa continuità, cioè che non abbia eccessive alternanze, con uno stato emotivo e relazionale sufficientemente simile”. Questa continuità vuol dire creare una fiducia nel mondo esterno, cioè il mondo esterno è riconoscibile, l’altro è riconoscibile. Continuità di gesti, di risposte, di tonalità emotive che garantiscono una soglia di tolleranza rispetto il mondo interno del bambino. L’insegnamento a tollerare il mondo interno si potrebbe riassumere in questa frase: “Tu bambino, oltre all’amore, puoi provare anche sentimenti distruttivi e di rabbia perché le cose non sono andate come volevi, ma io sono sempre qui”. Io genitore so dare uno spazio di comprensione anche alla rabbia oltre che alle manifestazioni d’amore perché so che tu puoi essere felice o puoi essere deluso da qualcosa che ti riguarda. Il fatto che tu sia arrabbiato, essendo naturale, prevede il fatto che io sappia accettarlo (nei limiti di capacità di accettazione del genitore di riferimento). Nel momento in cui il bambino sentirà accettato il sentimento d’amore come quello della rabbia, non si sentirà più costretto a dividersi, legittimando l’utilizzo della rabbia e dell’aggressività. Infine insegna a tollerare la frustrazione. Winnicott parla di una madre sufficientemente buona, il che, già il termine sufficiente è un termine democratico, perché non costringe nessuno a delle performance straordinarie. È quella che, fidandosi del proprio istinto e del proprio intuito, corrisponde ai bisogni del bambino. Il bambino si sente potente, con la presunzione che, ad ogni richiesta, il mondo risponda. Il bambino è potente, la madre corrisponde a questa potenza. Il bambino all’inizio della vita ha bisogno di sentire potenza per far sì che si strutturi una sensazione di potenza in lui affinché sappia che dalla rabbia, aggressività e amore, nessuno scappa. Dopo questo primo processo che si sviluppa nei primi mesi di vita, la madre comincerà ad esser meno presente, allontanandosi progressivamente rispondendo sempre meno velocemente ai bisogni del bambino in modo non traumatico, ma non perché lo decide ma perché lo sente in base alla propria stanchezza. E si fida della propria stanchezza, così come si fidava inizialmente della voglia di correre a soddisfare ogni suo bisogno. Il bambino, dalla sua condizione di onnipotenza impara a stare sempre più solo e capire che a fronte di ogni grido di domanda il tempo tra la richiesta e la soddisfazione percorrerà tempi sempre più lunghi. Quel tempo sarà sperimentato come tempo di frustrazione. Avendo però già interiorizzato una certezza.
Questo è un modello semplice di Io consistente.
Quando io ho la capacità di ascoltare ciò che mi destabilizza e dire: “mi hai abbandonato”, compio un atto creativo nei miei confronti, perché imparo qualcosa di nuovo, che sono eroico, che so affrontare le vere terribili fatiche della vita. Do nome e chiedo ciò che mi turba. Questo è un grandissimo atto d’amore che ho nei miei confronti. Ma nel momento in cui vado dall’altro e dico che voglio parlare, voglio ascoltarti, e accetto anche l’aggressività della rabbia, in quel momento amo l’altro. Amo me stesso ma amo anche l’altro. Tutte le volte che io accetto il confronto che mi disorienta, con il mio mondo interno, amo me e amo l’altro perché do nome al mio patimento che è un patimento d’amore. E dando nome al mio patimento dico la mia difficoltà, dico la mia dipendenza, dico all’altro ti amo. Nel momento della rabbia motivata, con nome, aggressiva, ho amore per me e per latro. C’è più amore nella rabbia aggressiva circoscritta che nella proclama d’amore. Ti amo può voler dire tante cose e nulla, può essere anche gratificante, ma nel momento in cui io gioco nella relazione parti difficili di me, parti sofferenti di me e le espongo a te, e permetto a te di usarle contro di me o verso di me favorevolmente, io eroicamente offro me stesso a te. E può essere anche uno scambio rabbioso nella relazione, ma di una rabbia con il vero senso della relazione amorosa. Nessuna coppia può vivere senza questa dimensione perché questa è la vera dimensione della relazione, tanto più nella relazione d’amore. L’amore, la relazione, chiedono sempre che vada esplicitata la rabbia che sempre l’altro, che vive con me tutti i giorni, determina con la sua diversità. Se è possibile creare, credere e determinare una relazione costante, è perché noi generiamo, accettiamo e spieghiamo la nostra rabbia all’altro. Questa è l’unica possibilità dell’amore.
Purtroppo non è sempre così perché l’Io non è abbastanza forte. La vita può determinare situazioni che non agevolano le relazioni. La grande difficoltà è la legittimazione della rabbia. Paura di affrontare situazioni nuove. Paura di entrare in una dimensione di agitazione interna quando ci succede qualcosa volontariamente o involontariamente, incapacità di gestire questa agitazione interna. Questa è una delle difficoltà più grosse che viviamo in assoluto.
La rabbia tralasciata nel tempo si trasforma in rancore. Quando la rabbia non ha e non può avere un nome e non può essere indirizzata fuori, rimane indifferenziata e si amplifica. Amplificandosi diventa odio. Questo è un po’ il destino della rabbia quando non riusciamo a darle un nome, oppure nonostante un nome non riusciamo ad agganciarla all’aggressività portandola fuori. Tante volte non riusciamo a fare questa operazione e la rabbia si volta contro di noi diventando auto-distruttiva. Rabbia interna quindi indifferenziata o inespressa. Perché ho paura che nel momento in cui io manifesto la rabbia, cioè sono in un “io voglio”, divento cattivo, nel momento in cui io affermo la mia rabbia ho paura di distruggere l’altro o la relazione. A quel punto diventa una passione interna e ci esplode dentro. Non è creativa perché non va verso l’altro. Costruzioni intellettuali che servono a non ferire mai nessuno, pur in presenza di una rabbia, inchiodano la creatività ordinaria che dovrebbe animare la nostra vita, far ascoltare la rabbia, darle un nome e dirla.
http://www.oggitreviso.it/rabbia-una-passione-creativa-87355
La rabbia, base pulsionale biologica naturale, rappresenta uno scandaglio dell’Anima, un moto interiore per accedere ad un contatto più preciso con il Sé. È la più acuminata tra le emozioni, quella che viene vista più col naso storto. Un conto è quando parliamo d’amore, ci brillano gli occhi, sorridiamo, quando parliamo di un individuo o di un personaggio innamorato, già ci gocciola il cuore di commozione. Ma quando parliamo di individuo rabbioso, ci spostiamo su un versante di timore. Non sempre però, perché quando ci prefiguriamo un individuo dai comportamenti irosi, arretriamo di un passo, ma se qualcuno ci racconta di una giusta rabbia (lavoratori licenziati, donne maltrattate, bambini abusati, ecc.), la rabbia non ci fa più paura, anzi, ci schieriamo. La rabbia è una dimensione che ha a che fare con l’aggressività, è una tensione contro qualche cosa, movimento significativamente differente dall’amore che è un movimento verso qualcosa. Ma sempre di movimenti si parla.
Il tema dell’aggressività è stato fortemente approfondito subito dopo le due Guerre Mondiali; lì il tema dell’aggressività ha immediatamente scaldato gli animi. All’interno della Scienza della Psicologia ci sono due modalità di leggerla: una, più psicoanalitica, è la tendenza alla distruzione, alla distruttività, non solo ma anche all’auto-distruttività. Un’altra, che prende spunto dalla radice latina del termine, indica una tendenza ad andare avanti, che ha a che fare con l’aggredire la vita, il penetrare la vita. Due movimenti differenti quindi, uno teso a distruggere, uno a progredire.
Il tema più grosso è relativo a vedere se la rabbia sia istintiva o culturale. La Sociologia tende a definire il fenomeno aggressività come un fenomeno culturale, legato a fattori socio-ambientali, così nelle teorie della frustrazione, l’individuo frustrato dalle condizioni tende all’aggressività. In una teoria dell’apprendimento, l’aggressività viene appresa all’interno dei gruppi di riferimento. C’è un qualche cosa dell’ambiente che sollecita una realtà preesistente dentro di noi o è l’ambiente che crea l’aggressività? La parte favorevole all’innatismo prende una buona parte dell’antropologia, dell’etologia e della psicanalisi.
L’etologo Konrad Lorenz, racconta come nel mondo animale, gli animali stessi tendano ad un’aggressività intra-specifica, cioè un’aggressività che sta all’interno della specie, e che si orienta verso l’esterno principalmente per motivi di nutrimento. Ma è all’interno della specie semplicemente per stabilire dei rapporti di forza. Quindi, due leoni che si affrontano per determinarne il capo branco, il più forte (e questo ha tutto un suo senso dal punto di vista evolutivo), sarà colui che feconderà la femmina e produrrà una discendenza più ricca e capace di adattarsi alla natura. Due leoni lottano aggressivamente fino al momento in cui uno dei due abbassa la criniera, si mette a pancia in su (lo si vede anche nei cani), e nel momento in cui l’altro si arrende, la guerra è finita. Lo stato di sottomissione e riconoscimento della superiorità altrui, genera l’interruzione del momento aggressivo. Aggressività sana, naturale, tesa allo sviluppo. Per Lorenz, l’aggressività è innata.
Dove è diverso l’uomo? L’uomo è diverso quando non guerreggia più corpo a corpo, quando non è più in grado di valutare il momento difensivo dell’altro. Nel momento in cui si utilizza l’arma, l’altro è troppo lontano per poter proferire o cantare il suo grido di sottomissione. Per cui l’uomo uccide e uccide sotto un’aggressività deviata, cioè senza rispettare i codici della Natura.
Freud formula una teoria delle pulsioni, due in particolare: di vita e di morte (Eros e Thanatos). Queste due pulsioni reggono la vita dell’individuo. La pulsione di vita ci porta ad essere nella realtà, a penetrare nella realtà, a creare immaginazione, a creare riproduzione, a creare vita. La pulsione di morte mira esattamente al contrario, alla distruzione psichica dell’uomo, ai momenti depressivi, al suicidio e, all’esterno, alla distruzione dell’altro. Sono due pulsioni coesistenti. L’uomo può rivolgere aggressività verso se stesso o verso il mondo: verso il mondo potrà essere positiva o negativa, mentre verso di sé potrà farlo solo in maniera negativa. Il problema è che dovrà canalizzarla verso qualche cosa…e quindi dice: “In fondo l’uomo, ogni uomo, è messo di fronte ad una terribile scelta: uccido me o uccido il mondo?” L’uomo è in possesso di una pulsione di morte naturale che può essere distruttiva o auto-distruttiva.
Erich Fromm parla di due tipi di aggressività: una che è simile a quella degli animali, attacco e fuga, un’aggressività benigna. Poi parla di un’aggressività distruttiva malevola, maligna, volta unicamente alla distruzione e non contenuta all’interno dell’aggressività tipicamente naturale.
Alfred Adler, psichiatra e psicanalista austriaco, parte da una visione del bambino, dell’essere nascente come inadeguato. Parla di una presenza di inadeguatezza in ogni essere umano che tende a chiedere aiuto all’altro, e l’altro è il genitore. Per lui bisogna vedere quanto questo grido di aiuto venga sentito ed aiutato. Quando l’ambiente esterno sorregge il bambino e lo aiuta a superare il suo senso di inadeguatezza, crescerà sano e con una propensione attiva verso il mondo. Meno l’ambiente familiare riuscirà a reggere questo senso di inadeguatezza, più si formerà un complesso di inferiorità. Il complesso di inferiorità genera aggressività, il più delle volte incapace di esprimersi. Anche per Adler è una componente innata che tende allo sviluppo e si aspetta dal mondo esterno una risposta di contenimento.
C. G. Jung semplicemente dice: “l’aggressività va conosciuta. Un volta riconosciuta bisogna imparare a controllarla. Una volta imparato a riconoscerla e controllarla, la si può spendere nel mondo. Ogni individuo è dotato di due leoni al guinzaglio da richiamare al momento opportuno”. Non sempre le persone riescono a riconoscere una propria aggressività, o la riconoscono ma non sanno usarla e quindi è come se avessero bisogno di sperimentare l’aggressività per conoscerla.
Donald Winnicott, pediatra inglese poi psicoanalista, a proposito dell’aggressività dice questo: “L’idea principale di questo studio sull’aggressività è che, se la società è in pericolo non è tanto a causa del comportamento aggressivo dell’uomo, quanto a causa della rimozione della propria aggressività che avviene nell’individuo.L’uomo non è pericoloso perché aggressivo, ma perché rimuove la propria aggressività. Noi diventiamo più pericolosi quando ci rendiamo buoni. L’aggressività è presente prima dell’integrazione della personalità, cioè prima che il bambino cresca”. Il bambino tira calci nel ventre materno, ma non si può pensare che egli stia cercando di uscire. Il neonato di poche settimane batte l’aria con le braccia, ma non si può pensare che intenda colpire. Mastica con le sue gengive il capezzolo della madre, ma non si può pensare che egli voglia distruggere o far male. È esperienza istintuale. All’origine l’aggressività è quasi sinonimo di attività; si tratta di una funzione parziale. Sono queste funzioni parziali che il bambino crescendo trasforma ed organizza gradualmente in aggressività. Il comportamento finisce per diventare intenzionale nella misura in cui il comportamento ha uno scopo. L’aggressività fa parte dell’espressione primitiva dell’amore. Il bambino compie gesti di relazione, di movimento, che tendono ad uno spostamento intenzionale o semi-intenzionale nello spazio. Da questi movimenti, attraverso la relazione con l’altro, inizierà a capire quanto questi comportamenti siano o meno aggressivi. Culturalmente si svilupperà l’aggressività che però parte da un dato istintivo. L’aggressività, i movimenti, hanno sempre a che fare con la relazione. E la relazione è sempre un gesto d’amore. Quindi l’aggressività è in relazione con l’amore.
La rabbia contiene una relazione con l’aggressività. Il fatto che l’aggressività sia considerata un istinto o un aspetto della cultura, ha una rilevanza essenziale ad esempio nell’educazione. Noi non ci pensiamo mai (e funzioniamo in un modo un po’ stereotipato), ma se assumessimo coerentemente il presupposto che noi siamo aggressivi, quindi non possiamo non esserlo, potremo mediarla ma non escluderla. Forse dovremmo immaginare nella famiglia e nelle scuole un’educazione alla rabbia, educazioni che tengano presente di questo dato invece di una continua enfatica educazione alla pace. Se si parla con un bambino che si presupponga sperimenti in sé l’aggressività, cosa significa dirgli che la pace è l’unica cosa valida? Che lui è sbagliato. C’è anche una pace certo ma dovrei spiegare che insieme al desiderio e la tensione verso la pace tu contieni una spinta anche verso l’aggressività. Tu sei anche arrabbiato. Mi viene in mente l’abitudine che hanno le madri Tuareg di strappare il bambino dal seno in diversi momenti della suzione per allevare in loro la rabbia e l’aggressività per poter sopravvivere nel deserto. Con “il giusto sta nella pace il male nell’aggressività”, stai dicendo al bambino che una parte di lui non è valida. Non avendo i mezzi razionali ed intellettuali per controbattere o ribadire qualcosa nel far riflettere un altro tipo di verità, si sentirà ingiusto, facendo precipitare nel mare dell’inconscio un’aggressività poi spesa diversamente. Due bambini che si contendono un pennarello, per dirla alla Lorenz, avrebbero più diritto di giocare in quei termini per conoscere una realtà naturale più consona a loro stessi. Più un bambino può entrare in contatto con quella dimensione, più farà pace con essa.
Se l’aggressività è un istinto, avrà un limite. E il limite è legato alla specificità dell’evento e alla causa che l’ha generato. L’ira funesta di Achille non è stata stigmatizzata. Lui ha fatto bene, di fronte al fatto ingiusto ha reagito con la strage. L’aggressività ha senso quando legata ad una causa. Conosciamo bene l’ira di Dio laddove sa essere giusta verso chi sbaglia o lede qualcosa della persona che subisce il torto. Bisogna colpire soltanto la persona o il gruppo che lo merita. La storia ci racconta che l’ira può generare aggressività nei confronti di chi sbaglia. Quale è il limite, il paletto dell’aggressività legato all’ira? Per essere corretti e non cadere in peccato ci vuole un giusto motivo, una giusta causa e bisogna indirizzare la propria aggressività soltanto nei confronti delle persone o persona che compie l’atto sbagliato e offensivo in relazione al gesto stesso, vale a dire punito per quella cosa specifica, non per la sua essenza di persona.
La rabbia genera aggressività, la rabbia non è l’aggressività. Sembra qualcosa che prelude all’aggressività ma non è tale. La rabbia è un insieme di emozioni e sentimenti, forse la potremmo iniziare a definire una Passione. Dovremmo chiederci che cos’è una passione. La parola passione deriva dal latino patire. Patimento, che è contrapposto all’azione. Patire ha a che fare con il subire: è una condizione di passività, di subire passivamente un qualcosa. Questa è la passione. Che cosa si subisce nella passione? Si subisce l’arrivo di un’entità, di un qualcosa dall’esterno che agisce sul nostro animo e lo fa soggiacere. Pensiamo alla passione d’amore. Restiamo inerti, come quando proviamo una rabbia. Un’emozione che sovrasta l’Io e soggiaciamo a questa emozione. Nel dizionario comune la passione “è un sentimento intenso e violento di attrazione o repulsione verso un oggetto che turba l’equilibrio psichico”. Qualche cosa che ci attira o ci repelle, che in qualche modo ci condiziona dentro procurando un blocco emotivo. Questa è la passività della passione. Qualcosa che ci blocca.
Qual è lo stato d’animo della passione? Che sia una passione d’amore, o rabbia di passione politica, sentiamo uno stato di profondo turbamento e un blocco. A questo possiamo agire attraverso un’azione, una tensione verso l’oggetto che, nel caso dell’amore, è un procedimento quasi lineare verso un oggetto amato, nel caso di un turbamento d’ira è un movimento più complesso perché ci chiede aggressività. Perché l’oggetto è qualche cosa che non solo ci attrae, ma anche ci repelle. Nella rabbia c’è un processo verso un oggetto che però è un oggetto repellente. Una persona che ci insulta è una persona che ci provoca un blocco interno, uno stato di paralisi ma, anche se possiamo muoverci verso, sentiamo un’avversione che rende questo movimento più difficile. La passione è quindi un movimento, ci dice chi siamo e chi vorremmo essere. Serve a spiegare qualcosa di noi e della nostra ideale tendenza. Se io mi innamoro di una persona, la passione che provo in quel momento parla di me, perché la persona da cui vengo colpito racconta qualcosa di me, e mi dice qual è il movimento che vorrei fare nella vita, cioè dove vorrei andare: mi dice che io vorrei essere lì con quella persona.
In questo la passione contiene sempre una dimensione eroica. La passione fa sì che io faccia domande su me stesso, mi chiede di spostarmi in una direzione, una passione mi obbliga a muovermi, a spostarmi dalla mia condizione precedente. Un individuo che non ha passioni rimane sempre uguale a se stesso. Un individuo che coltiva la passione è in una continua dinamica. L’esperienza di passione non è mai pura interiorità, non è mai qualcosa che sta sempre dentro, la passione deve uscire in qualche modo. Attraverso le parole, i gesti, il corpo. Se sono arrabbiato posso gridare la mia rabbia verso qualcuno, oppure se non riesco a farlo certifico la mia presenza passionale: arrossisco, sudo, tremo ma devo comunicare al mondo la mia passione. Dentro non posso tenerla, altrimenti non è passione ma un’altra cosa. Il soggetto che libera passione, percepisce la propria passione attraverso l’altro. Se io sono molto arrabbiato fulmino l’altro con lo sguardo, genero nell’altro un mutamento che si riflette in me. Io vedo la mia ira traverso lo sguardo spaventato dell’altro. Oppure vedo il mio amore attraverso lo sguardo dolce dell’altro. Specchi. Anche quando ascoltiamo due fidanzati parlare in una lingua lontana, dagli occhi con cui si parlano percepiamo che si tratta di fidanzati perché muovevano la bocca come qualsiasi tipo di innamorato, una gestualità tipica della passione. Lo stesso anche per la rabbia, anche se non la capiamo la leggiamo ugualmente. La passione, che sia amore o rabbia, deve contenere un aspetto relazionale. La passione vuole comunicare, non può tenere dentro assolutamente niente. Quindi possiamo dire che l’emozione diventa passione quando si può esprimere attraverso gesti, parole. L’emozione diventa passione quando ha un nome e quando si comunica.
La passione è relazione. C’è una differenza profonda tra l’emozione e la passione. Tra la pulsione, l’emozione e il sentimento. La pulsione è qualcosa di primitivo, è puramente azione. Io sperimento una cosa, ad esempio sono arrabbiato e non so di esserlo, mi muovo, cammino avanti e indietro per la stanza, faccio dei gesti e non capisco cos’ho. L’emozione è un avvicinamento a questo istinto attraverso una percezione della pancia. Il sentimento, di cui la passione è espressione, ha un nome e un suo linguaggio. Il sentimento/passione è capacità di comprensione di ciò che si vive e possibilità di scambiarlo con l’altro. Questa è una tappa evolutiva. Passare dal puro vissuto di qualcosa d’altro, alla percezione che ciò che viviamo dentro ha una sua forma e un suo nome e il fatto che noi possiamo comunicarlo, sono tre salti evolutivi non sempre realizzati o realizzabili.
Ripercorrendo ciò detto per la rabbia: c’è un oggetto esterno, una persona, che provoca qualcosa dentro di noi. Questo qualcosa di inaspettato, che non ci piace, trapassa l’Io, lo buca andando direttamente dentro, provocando immediatamente un sommovimento emotivo, disorientando. Una riflessione dell’Io ricomposto consente di contenere l’emozione. Ma se non si è in grado di ricomporsi rimanendo disorientati, il rischio è di reagire. L’Io non controlla più lo stato d’animo. In questo caso la rabbia può essere quell’energia che mi solleva da uno stato di passività incontrollabile dell’Io e mi può portare all’esterno, verso l’oggetto o la persona, a dire o fare qualcosa. Non reagire, ma dire, agire. Consegnati al momento di pazienza, saremo in grado di perderla per agire. L’impazienza porta solo a reagire. Quando si perde la pazienza è positivo perché ci si è consegnati in precedenza alla pazienza: quello sarà il nostro momento vero d’azione, e non un mero “fare” magari consigliato. Questo movimento è straordinario perché l’evento imprevisto produce un lavoro dentro di sé che richiede di uscire dalle certezze che accompagnano la propria vita. Mi costringe ad un rapporto con un mancante mio, ad un lavoro psicologico, mette sé a confronto con sé. In quel momento accetto di discutere col mio mancante. Quando l’oggetto esterno provoca qualcosa dentro di me ed io riesco a superare il disorientamento che l’Io da solo non riuscirebbe grazie a questa energia-rabbia che mi porta al confronto, quell’energia rabbia ha un valore e una valenza immensa: accetto il confronto. La reazione è la fuga. La rabbia è una vera passione perché chiede il confronto se esternata, interloquita, espressa, detta.
Odio e Invidia sono un esempio di due modalità molto differenti della rabbia. L’odio è un sentimento di avversione profonda. Dire di odiare una persona è molto differente che dirsi arrabbiati con la stessa. L’odio desidera il male o la rovina altrui. L’odio non ha relazione, vuole la distruzione. Non vuole interloquire con l’aspetto della persona che mi dice una cosa, come la rabbia che è relativa ad un luogo, ad un gesto specifico. L’odio è su tutta la persona. L’invidia è una dimensione ancora più subdola. Nell’invidia si attaccano le cose buone dell’altro. Io invidio un bene o una qualità altrui, non vado verso un negativo, voglio appropriarmi di qualcosa di buono. Melanie Klein parla di “attacco al seno buono”. Io odio e detesto la tua fortuna di avere del bene e voglio attaccarlo subdolamente per appropriarmi delle tue cose fantasticamente facendoti del male. L’invidia è una condizione terribile che si vive nel vivere d’invidia. Odio ed invidia in comune hanno l’assenza dell’Io, del soggetto come entità desiderosa di cambiare. Fondamentalmente vive per l’atro, per odiarlo, per distruggerlo. Non cambio me, cambio te distruggendoti. Vivo per rubare a te, non per sviluppare me. La rabbia è una passione perché ha interlocuzione. Odio e invidia no. Perché non ci si batte contro un’ingiustizia, ma vado alla rotta distruttiva o di appropriazione indebita. Un esempio può essere in coppia, dove uno è più indipendente e l’altro meno. Dal punto di vista della persona dipendente, la vita è sempre un po’ più difficile perché vede l’altra persona fare le cose di cui lei si vede incapace, perché non se le legittima. Allora che differenza c’è tra l’atteggiamento di rabbia, di odio o d’invidia – tre modalità che possono esistere in una relazione a due – sulla questione della dipendenza? La rabbia produrrà un confronto. Gridare una gelosia significa accettare l’interpretazione della gelosia. Io quando mi arrabbio mi espongo, l’altro mi dice la verità, mi dice di un mio mancante. Quando sono dipendente non sono capace di arrabbiarmi e quindi uso l’odio. Non dibatto, non sono in grado di dire che sono arrabbiato per la tua autonomia, non riesco a dare un nome e quindi odio, inizio ad odiare la complessità della persona e non più un aspetto. Si diventa negativi in maniera assoluta (ab solvere, sciogliere da – ti lascio!). L’odio toglie qualsiasi spazio all’interlocuzione, quindi al dibattito.
Nell’invidia non ti distruggo neanche più, ma vivo nel farti del male. Quindi inizio ad agire dei comportamenti che non sono rivolti allo sviluppo della mia autonomia, ma sono rivolti alla punizione della tua. Punisco le cose buone che tu hai e che dovrei imparare a possedere. Cosa che posso fare solo attraverso la rabbia perché la rabbia è esposizione. La rabbia, che è la passione che mi permette la riflessione, è possibile quando esiste un Io capace di entrare in contatto col mondo emotivo. Io devo avere il coraggio di confrontarmi.
Proferire la rabbia richiede un Io forte. Se l’Io non è capace a difendersi, scappa. Non vuole sentire l’altro. Abbiamo mille modi per non sentire l’altro. Oppure ci si può perdere dentro lo stato emotivo: o l’Io riesce a difendersi e interagisce con ciò che sta succedendo o l’Io viene sommerso. Quindi va in una crisi che potremmo definire “psicotica” (anche se chiaramente non è una vera crisi di follia). Perdiamo la testa, fuggiamo irrazionalmente, ne diciamo di tutti i colori! E qui non si sta parlando di una questione morale ma di struttura dell’Io. L’Io, nel momento in cui si perde, non sta facendo il suo lavoro, è disintegrato, non può utilizzare niente dell’avvenimento. L’Io che si difende e che scappa, fa la stessa cosa. Va via, meno spaventato, più tronfio delle sue sicurezze ma ugualmente non lavora con se stesso.
Ci capitano momenti in cui ci agitiamo, in cui l’Io si frantuma, va via. Dobbiamo tenere come faro la possibilità di lasciarci mettere in discussione e capire quando esageriamo in termini di difesa dal mondo o quando esageriamo in termini dell’essere sommersi dalle emozioni che il mondo ci determina dentro. L’Io allora deve essere forte, ma definire un Io forte è molto difficile. Possiamo dire che l’Io forte è quello che riesce ad avvicinarsi alla tensione che il mondo esterno genera all’interno di noi, a cercare di dargli un nome e affrontare fuori nel mondo quella densità che si è strutturata interagendo con l’oggetto o il soggetto. Si tratta di Io forte perché sa accettare il limite, sa discutersi prima che discutere con l’altro, ma sapendo discutersi sa discutere con l’altro. Accetto il dibattito con l’altro nel momento in cui accetto il dibattito con me stesso. Mi espongo con l’altro nel momento in cui so espormi con me stesso.
Ma cos’è l’Io? È il luogo della nostra identità. L’Io sin dalla nascita impara a controllare le funzioni che man mano apprende, padroneggiando strutture funzionali che ha imparato sulla propria “pelle” a vivere. L’Io padroneggia questo mondo, delle capacità, delle abilità. Non solo motorie e corporee ma anche psicologiche. A suo modo l’Io ha una capacità di entrare in relazione con le sue emozioni, sa quando si arrabbia, quando ci si deve arrabbiare, quando si deve amare, quando si può amare, quello che si può dire o non dire, costruisce una linea nel tempo della propria identità. L’Io per definizione vuole la continuità e chiede che questa non venga modificata. Vuole certezza e sicurezza. Noi vogliamo certezze. Fuori dalla certezza ci stiamo male. Questo è il motivo per cui se due persone che stanno insieme per 20 anni e si odiano, quando poi decidono di separarsi entrano in crisi. L’Io non ce la fa ad uscire da uno schematismo che si è costruito con una fatica terribile, a costo di sacrifici e rinunce. Nel tempo si è costruito la continuità. Quando il mondo ci porta l’imprevedibile, ci desitua.
Ma non è che l’Io non debba andare in crisi, anzi. Se noi ipotizzassimo una vita in cui l’Io riuscisse a soddisfare il suo bisogno di continuità, la nostra vita potremmo anche interromperla qui, perché saremmo sempre in difesa, sempre. E così non cambiamo mai. Eppure, l’evento che buca l’Io, costringendolo a non avere il controllo, e provocando un moto interno da gestire, genera la novità. È li che c’è la vita. La vita inizia nel momento in cui l’Io abbassa la testa, e non la fa mai intenzionalmente. I cambiamenti più grandi nella vita non avvengono quando uno discute sui grandi temi esistenziali, ma quando prendiamo delle botte tremende, quando ci ammaliamo anche seriamente, quando qualcuno ci lascia o quando lasciamo qualcuno, cioè quando entriamo in una dimensione che destruttura concretamente questo senso della continuità e costringe a sentire la vita. Quando l’Io molla io entro a contatto con una dimensione altra, entro nell’alterità. Io sono a contatto con l’inconscio lì, e la mia vita può cambiare lì. L’evento malattia, è la botta che frantuma l’Io e ci mette a contatto col mondo interno. Succede che l’Io, che è forte, può provare a reggere questo impatto: può iniziare ad ascoltare e sentire che il disagio provocato dal mondo esterno genera un disagio che diventa rabbia, cioè “io voglio qualche cosa che non ho”, e l’Io riesce a legittimarsi che questa rabbia si attacchi all’aggressività per portar fuori e dar voce alla mancanza.
Quali sono le condizioni di un Io strutturalmente abbastanza solido? Per dirla come Winnicott, “l’Io che si struttura nei primi tempi della vita chiede anche una presenza materna. Vuol dire presenza di una madre e di un padre che l’appoggi. Che la madre fornisca una certa continuità, cioè che non abbia eccessive alternanze, con uno stato emotivo e relazionale sufficientemente simile”. Questa continuità vuol dire creare una fiducia nel mondo esterno, cioè il mondo esterno è riconoscibile, l’altro è riconoscibile. Continuità di gesti, di risposte, di tonalità emotive che garantiscono una soglia di tolleranza rispetto il mondo interno del bambino. L’insegnamento a tollerare il mondo interno si potrebbe riassumere in questa frase: “Tu bambino, oltre all’amore, puoi provare anche sentimenti distruttivi e di rabbia perché le cose non sono andate come volevi, ma io sono sempre qui”. Io genitore so dare uno spazio di comprensione anche alla rabbia oltre che alle manifestazioni d’amore perché so che tu puoi essere felice o puoi essere deluso da qualcosa che ti riguarda. Il fatto che tu sia arrabbiato, essendo naturale, prevede il fatto che io sappia accettarlo (nei limiti di capacità di accettazione del genitore di riferimento). Nel momento in cui il bambino sentirà accettato il sentimento d’amore come quello della rabbia, non si sentirà più costretto a dividersi, legittimando l’utilizzo della rabbia e dell’aggressività. Infine insegna a tollerare la frustrazione. Winnicott parla di una madre sufficientemente buona, il che, già il termine sufficiente è un termine democratico, perché non costringe nessuno a delle performance straordinarie. È quella che, fidandosi del proprio istinto e del proprio intuito, corrisponde ai bisogni del bambino. Il bambino si sente potente, con la presunzione che, ad ogni richiesta, il mondo risponda. Il bambino è potente, la madre corrisponde a questa potenza. Il bambino all’inizio della vita ha bisogno di sentire potenza per far sì che si strutturi una sensazione di potenza in lui affinché sappia che dalla rabbia, aggressività e amore, nessuno scappa. Dopo questo primo processo che si sviluppa nei primi mesi di vita, la madre comincerà ad esser meno presente, allontanandosi progressivamente rispondendo sempre meno velocemente ai bisogni del bambino in modo non traumatico, ma non perché lo decide ma perché lo sente in base alla propria stanchezza. E si fida della propria stanchezza, così come si fidava inizialmente della voglia di correre a soddisfare ogni suo bisogno. Il bambino, dalla sua condizione di onnipotenza impara a stare sempre più solo e capire che a fronte di ogni grido di domanda il tempo tra la richiesta e la soddisfazione percorrerà tempi sempre più lunghi. Quel tempo sarà sperimentato come tempo di frustrazione. Avendo però già interiorizzato una certezza.
Questo è un modello semplice di Io consistente.
Quando io ho la capacità di ascoltare ciò che mi destabilizza e dire: “mi hai abbandonato”, compio un atto creativo nei miei confronti, perché imparo qualcosa di nuovo, che sono eroico, che so affrontare le vere terribili fatiche della vita. Do nome e chiedo ciò che mi turba. Questo è un grandissimo atto d’amore che ho nei miei confronti. Ma nel momento in cui vado dall’altro e dico che voglio parlare, voglio ascoltarti, e accetto anche l’aggressività della rabbia, in quel momento amo l’altro. Amo me stesso ma amo anche l’altro. Tutte le volte che io accetto il confronto che mi disorienta, con il mio mondo interno, amo me e amo l’altro perché do nome al mio patimento che è un patimento d’amore. E dando nome al mio patimento dico la mia difficoltà, dico la mia dipendenza, dico all’altro ti amo. Nel momento della rabbia motivata, con nome, aggressiva, ho amore per me e per latro. C’è più amore nella rabbia aggressiva circoscritta che nella proclama d’amore. Ti amo può voler dire tante cose e nulla, può essere anche gratificante, ma nel momento in cui io gioco nella relazione parti difficili di me, parti sofferenti di me e le espongo a te, e permetto a te di usarle contro di me o verso di me favorevolmente, io eroicamente offro me stesso a te. E può essere anche uno scambio rabbioso nella relazione, ma di una rabbia con il vero senso della relazione amorosa. Nessuna coppia può vivere senza questa dimensione perché questa è la vera dimensione della relazione, tanto più nella relazione d’amore. L’amore, la relazione, chiedono sempre che vada esplicitata la rabbia che sempre l’altro, che vive con me tutti i giorni, determina con la sua diversità. Se è possibile creare, credere e determinare una relazione costante, è perché noi generiamo, accettiamo e spieghiamo la nostra rabbia all’altro. Questa è l’unica possibilità dell’amore.
Purtroppo non è sempre così perché l’Io non è abbastanza forte. La vita può determinare situazioni che non agevolano le relazioni. La grande difficoltà è la legittimazione della rabbia. Paura di affrontare situazioni nuove. Paura di entrare in una dimensione di agitazione interna quando ci succede qualcosa volontariamente o involontariamente, incapacità di gestire questa agitazione interna. Questa è una delle difficoltà più grosse che viviamo in assoluto.
La rabbia tralasciata nel tempo si trasforma in rancore. Quando la rabbia non ha e non può avere un nome e non può essere indirizzata fuori, rimane indifferenziata e si amplifica. Amplificandosi diventa odio. Questo è un po’ il destino della rabbia quando non riusciamo a darle un nome, oppure nonostante un nome non riusciamo ad agganciarla all’aggressività portandola fuori. Tante volte non riusciamo a fare questa operazione e la rabbia si volta contro di noi diventando auto-distruttiva. Rabbia interna quindi indifferenziata o inespressa. Perché ho paura che nel momento in cui io manifesto la rabbia, cioè sono in un “io voglio”, divento cattivo, nel momento in cui io affermo la mia rabbia ho paura di distruggere l’altro o la relazione. A quel punto diventa una passione interna e ci esplode dentro. Non è creativa perché non va verso l’altro. Costruzioni intellettuali che servono a non ferire mai nessuno, pur in presenza di una rabbia, inchiodano la creatività ordinaria che dovrebbe animare la nostra vita, far ascoltare la rabbia, darle un nome e dirla.
http://www.oggitreviso.it/rabbia-una-passione-creativa-87355
JANE MCADAM FREUD, LA SCULTRICE CHE VISSE DUE VOLTE. L’artista inglese, figlia di Lucian, fra i più grandi pittori del Novecento, e bisnipote di Sigmund, padre della psicanalisi, è a Firenze ospite del simposio Psychoanalysis and Art: per l’occasione lo spazio C2 organizza una sua personale
di Gaia Rau, firenza.repubblica.it, 13 maggio 2014
Quando Jane McAdam torna ad essere Jane McAdam Freud, all’inizio degli anni Novanta, è già un’affermata artista trentaduenne, scultrice e medaglista di successo. Quel secondo, ingombrante cognome che la accomuna al padre Lucian, fra i più grandi pittori del secolo scorso, e al bisnonno Sigmund, padre della psicoanalisi, è un pezzo negato di identità da riconquistare, una parte di sé con cui fare i conti. Qualcosa, soprattutto, destinato a influenzare in modo irreversibile la sua arte, arricchendola di nuove, fino a quel momento inesplorate prospettive.
Non è un caso che l’intervento dell’artista inglese al simposio internazionale “Psychoanalys and art”, in programma al Chiostro del Maglio della Caserma Redi sabato 17 maggio alle 13.45, si intitoli “In the Mould of the Fathers” dove “mould” può essere tradotto come modello, stampo, calco: qualcosa, insomma, che indipendentemente dalla tua volontà ti plasma e ti dà una forma, una direzione. Ma “In the Mould of the Fathers” è anche il titolo della mostra, terza personale in Italia di Jane McAdam Freud dopo Milano e Genova, che inaugura mercoledì 14 alle 18.30 da C2, lo spazio no profit, in via Ugo Foscolo 6, gestito da Antonio Lo Pinto, che dal 2011 ospita progetti legati a nomi internazionali dell’arte contemporanea.
Parte centrale dell’esposizione, curata da Nicola Davide Angerame e visitabile fino al 3 giugno, è un’installazione site-specific intitolata “Torre della disapprovazione”: una struttura alta, larga e profonda circa 4 metri realizzata con materiali di uso comune e da costruzione, all’interno della quale il pubblico sarà invitato ad adagiare sale e quarzo nero. Un’opera, spiega l’artista, che «crea uno spazio fragile e imponente che mi ha ricordato la Torre dei folli costruita a Vienna nel Settecento e divenuta l’emblema della reclusione psichiatrica». Ma non solo. Perché, sottolinea Angerame, «la Torre della disapprovazione, nel richiamarsi a quella di Babele, diventa metafora delle diverse lingue che ciascuno serba in se stesso. Lingue che, come spiega Sigmund Freud, sono parlate da noi e parlano di noi ma nella reciproca distanza». Della mostra fanno poi parte una serie di bronzetti in cui Jane rilegge l’opera di uno degli artisti più vicini a Lucian, Francis Bacon, e un’opera fotografica in cui il suo volto di donna si accosta e si fonde con quello paterno, riflessione sul concetto di doppio e sulla continuità generazionale che obbliga chiunque a confrontarsi con le proprie radici.
Radici che, nel suo caso, sono state spezzate bruscamente quando aveva appena otto anni, in seguito alla separazione dei genitori. Per ventitré anni, Jane non vede il padre, e ogni legame con la parentela paterna le viene precluso dalla madre Katherine McAdam, che fa elidere il cognome Freud dai nomi dei suoi quattro figli. L’incontro tra Jane e Lucian, in occasione di un premio ricevuto da lei a Londra, è l’incontro tra un padre anziano e una figlia adulta, ma soprattutto quello fra due artisti che, per ri-conoscersi, utilizzano il terreno sul quale entrambi sanno muoversi meglio. Lucian ammira il lavoro di Jane e le chiede di insegnargli a scolpire; Jane, dal canto suo, si approprierà del volto di Lucian disegnandolo, da sveglio e da dormiente, poco prima che lui scompaia, nell’estate 2011.
«Quando mio padre posò per me alla fine della sua vita — racconta l’artista — era la seconda volta che lo ritraevo. La prima era stata nel 1990-91, quando abbiamo posato l’uno per l’altra. A quel tempo, lavoravamo reciprocamente sulla nostra immagine, realizzando sculture di cera. Lui voleva che io gli mostrassi alcune tecniche, e io lo trovavo divertente e al tempo stesso spaventoso. Credo che il nostro modo di lavorare insieme fosse qualcosa di nuovo per lui, un esperimento, e non ero sicura di cosa si aspettasse da me: il risultato fu che eravamo entrambi piuttosto nervosi, c’era un sacco di tensione creativa nell’aria». «Nel 2011 invece — continua — mi sono sentita come se il mio intero percorso artistico mi avesse portato lì». E ancora: «Credo che ci sia un parallelo fra il passare dalla scultura al disegno e il tornare psicologicamente dai miei genitori». Quanto al bisnonno, figura scoperta da bambina attraverso i racconti del nonno, l’architetto Ernst, che aveva curato la pubblicazione dei diari di Sigmund, Jane McAdam Freud spiega di aver realizzato la presenza di un legame forte durante una residenza artistica al Freud Museum di Londra, tra il 2005 e il 2007: «Qui ho studiato la sua raccolta di sculture antiche, rendendomi conto della passione che nutriva per questi oggetti, alcuni dei quali mi ricordavano mie opere. È stata una vera rivelazione scoprire che il mio antenato era così affascinato dalla scultura».
Per le fotografie:
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/05/13/news/jane_mcadam_freud_la_scultrice_che_visse_due_volte-86013241/
Non è un caso che l’intervento dell’artista inglese al simposio internazionale “Psychoanalys and art”, in programma al Chiostro del Maglio della Caserma Redi sabato 17 maggio alle 13.45, si intitoli “In the Mould of the Fathers” dove “mould” può essere tradotto come modello, stampo, calco: qualcosa, insomma, che indipendentemente dalla tua volontà ti plasma e ti dà una forma, una direzione. Ma “In the Mould of the Fathers” è anche il titolo della mostra, terza personale in Italia di Jane McAdam Freud dopo Milano e Genova, che inaugura mercoledì 14 alle 18.30 da C2, lo spazio no profit, in via Ugo Foscolo 6, gestito da Antonio Lo Pinto, che dal 2011 ospita progetti legati a nomi internazionali dell’arte contemporanea.
Parte centrale dell’esposizione, curata da Nicola Davide Angerame e visitabile fino al 3 giugno, è un’installazione site-specific intitolata “Torre della disapprovazione”: una struttura alta, larga e profonda circa 4 metri realizzata con materiali di uso comune e da costruzione, all’interno della quale il pubblico sarà invitato ad adagiare sale e quarzo nero. Un’opera, spiega l’artista, che «crea uno spazio fragile e imponente che mi ha ricordato la Torre dei folli costruita a Vienna nel Settecento e divenuta l’emblema della reclusione psichiatrica». Ma non solo. Perché, sottolinea Angerame, «la Torre della disapprovazione, nel richiamarsi a quella di Babele, diventa metafora delle diverse lingue che ciascuno serba in se stesso. Lingue che, come spiega Sigmund Freud, sono parlate da noi e parlano di noi ma nella reciproca distanza». Della mostra fanno poi parte una serie di bronzetti in cui Jane rilegge l’opera di uno degli artisti più vicini a Lucian, Francis Bacon, e un’opera fotografica in cui il suo volto di donna si accosta e si fonde con quello paterno, riflessione sul concetto di doppio e sulla continuità generazionale che obbliga chiunque a confrontarsi con le proprie radici.
Radici che, nel suo caso, sono state spezzate bruscamente quando aveva appena otto anni, in seguito alla separazione dei genitori. Per ventitré anni, Jane non vede il padre, e ogni legame con la parentela paterna le viene precluso dalla madre Katherine McAdam, che fa elidere il cognome Freud dai nomi dei suoi quattro figli. L’incontro tra Jane e Lucian, in occasione di un premio ricevuto da lei a Londra, è l’incontro tra un padre anziano e una figlia adulta, ma soprattutto quello fra due artisti che, per ri-conoscersi, utilizzano il terreno sul quale entrambi sanno muoversi meglio. Lucian ammira il lavoro di Jane e le chiede di insegnargli a scolpire; Jane, dal canto suo, si approprierà del volto di Lucian disegnandolo, da sveglio e da dormiente, poco prima che lui scompaia, nell’estate 2011.
«Quando mio padre posò per me alla fine della sua vita — racconta l’artista — era la seconda volta che lo ritraevo. La prima era stata nel 1990-91, quando abbiamo posato l’uno per l’altra. A quel tempo, lavoravamo reciprocamente sulla nostra immagine, realizzando sculture di cera. Lui voleva che io gli mostrassi alcune tecniche, e io lo trovavo divertente e al tempo stesso spaventoso. Credo che il nostro modo di lavorare insieme fosse qualcosa di nuovo per lui, un esperimento, e non ero sicura di cosa si aspettasse da me: il risultato fu che eravamo entrambi piuttosto nervosi, c’era un sacco di tensione creativa nell’aria». «Nel 2011 invece — continua — mi sono sentita come se il mio intero percorso artistico mi avesse portato lì». E ancora: «Credo che ci sia un parallelo fra il passare dalla scultura al disegno e il tornare psicologicamente dai miei genitori». Quanto al bisnonno, figura scoperta da bambina attraverso i racconti del nonno, l’architetto Ernst, che aveva curato la pubblicazione dei diari di Sigmund, Jane McAdam Freud spiega di aver realizzato la presenza di un legame forte durante una residenza artistica al Freud Museum di Londra, tra il 2005 e il 2007: «Qui ho studiato la sua raccolta di sculture antiche, rendendomi conto della passione che nutriva per questi oggetti, alcuni dei quali mi ricordavano mie opere. È stata una vera rivelazione scoprire che il mio antenato era così affascinato dalla scultura».
Per le fotografie:
http://firenze.repubblica.it/cronaca/2014/05/13/news/jane_mcadam_freud_la_scultrice_che_visse_due_volte-86013241/
VIDEO Da Youtube, intervista a Luigi Campagner, 9 maggio 2014
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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