L’INCONSCIO BATTE LA COSCIENZA
«Oh la mente, la mente ha montagne; precipizi/a picco, spaventosi, da nessuno penetrati. Può crederli da/poco solo chi mai vi fu sospeso. E la nostra poca resistenza/non può a lungo occuparsi di quei dirupi e quegli abissi». Sono versi — dagli Ultimi sonetti di Gerard Manley Hopkins, poeta ottocentesco da cui si irradia tutto il Novecento sperimentale — che condensano in un’unica visione le profondità psichiche che ci minacciano e la necessità, se non di rimuoverle, almeno di velarle.
Nello stesso periodo — il secondo Ottocento — in cui vengono scritti quei versi, il medico-neurologo Theodor Meynert — allievo del grande patologo Rokitansky alla scuola «darwiniana» di Vienna — studia i rapporti conflittuali tra le pulsioni «inconsce e istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» (il controllo) della corteccia, evolutivamente più recente; una dialettica che Sigmund Freud (allievo sia di Rokitansky che di Meynert) tradurrà nella lotta tra Es (Id) e Super-Io, combattuta sul ring dell’Io.
Sganciandosi dai maestri, Freud tenderà a scorporare sempre più la «realtà psichica» dai suoi correlati neurali: ma troppo spesso si dimentica come lui stesso — per esempio in un passaggio di Al di là del principio del piacere — ritenesse possibile, nel giro di «qualche decennio», un avanzamento della ricerca neurobiologica tale da far crollare, e riassorbire in sé, l’«artificioso edificio» della psicoanalisi. E un secolo dopo, in effetti, constatiamo come le neuroscienze — specie nell’ottica evoluzionistica innescata proprio dalla scuola di Vienna — siano arrivate a riformulare e correggere tante intuizioni freudiane, a partire da quelle, decisive, sull’inconscio: basta leggere, al riguardo, i libri recenti di neuroscienziati come David Eagleman, Christof Koch o Lionel Naccache.
A un primo impatto, l’«inconscio cognitivo» descritto in questi libri sembra limitarsi alla dimensione meccanico-operativa e patire un deficit rispetto a quello affettivo-emotivo (più vasto) della psicoanalisi. Un esempio è la distinzione tra le decisioni «intuitive» e automatiche e quelle più riflessive e lente: tra il «bestiario di processi senso-motori specializzati» in cui l’azione precede il percetto (vedi il centometrista che sente lo sparo dopo aver mosso la prima falcata) e operazioni mentali complesse che implicano attenzione (moltiplicare 17×24). Eppure, già a questo livello, emergono diversi aspetti sorprendenti: il fatto che la coscienza venga accesa solo quando necessario, per evitare un dispendio energetico (leggi metabolico); i limiti del libero arbitrio, dato che veniamo a conoscenza di molte nostre scelte «a cose fatte»; e la conseguente necessità — se una scelta non è una risposta improvvisata, ma una selezione tra opzioni depositate a monte nel cervello dall’evoluzione, dai geni e dall’apprendimento — di alimentare il ventaglio delle opzioni stesse sia con schemi motori (per le decisioni intuitive e i compiti automatici) sia con nozioni, concetti e «pensiero critico» (per le elaborazioni complesse).
Andando più in profondità, vediamo come questa fluida continuità-contiguità tra coscienza e inconscio — e tra i loro correlati neurali — si estenda a dinamiche più articolate e creative, che immettono in una dimensione specificamente freudiana. Un esempio è dato dalle rivelazioni oniriche di tanti scienziati, come quella (un serpente che si morde la coda) con cui Kekulé intuisce la struttura dell’anello benzenico. Si tratta infatti di casi classici in cui l’impostazione di un problema da parte dell’attività cosciente delega all’inconscio il peso di fitte permutazioni-combinazioni (incubazione), protratte fino a quando — al momento dell’eureka — quel brulichio silente riemerge alla coscienza con la soluzione.
Del resto, si può seguire la presa cosciente anche nella direzione inversa e più consueta (dal sonno senza sogni alla percezione dell’ambiente): vedi l’adagio d’apertura della Recherche proustiana, in cui il Narratore — svegliandosi nel pieno della notte — delinea prima il lento formarsi di un sentimento dell’esistenza «nella sua semplicità primaria», così come freme «nelle profondità di un animale»; e poi — dopo uno spaesamento spaziotemporale — la messa a fuoco delle immagini confuse di qualche lampada a petrolio e di alcune camicie, tese a ricomporre «i tratti originali» del suo io.
È una descrizione bottom-up dei gradi di coscienza — dove risalta, oltretutto, la nostra continuità filogenetica con altre specie — che insieme al sogno di Kekulé disloca la coscienza nella veglia come nel sonno, mostrandola come uno stato (un processo) in cui gli oggetti mentali non vengono «generati», ma «modulati» dall’ambiente, esterno o «interno» (il cervello stesso) che sia. Cioè uno stato (un processo) come aggregato di un minimo di informazione selettiva e sincronizzata (a livello talamo-corticale) che si staglia sullo sfondo per un minimo di tempo necessario, con «scene» che vanno da ¼ di secondo a 20 secondi (tempo medio 3 secondi), poi «cucite» dalla corteccia in un’unità illusoria. Il tutto somiglia a un’orchestrazione, estesa dal silenzio di un’informazione «troppo poco» integrata (il sonno senza sogni) alla cacofonia assordante di un’integrazione eccessiva (l’attacco epilettico), passando per una scala di modulazioni intermedie (di sfumature) pressoché illimitata.
In questa prospettiva, è più facile tentare un confronto tra le fluttuazioni inconscio-coscienza (coi reciproci feedback) a livello neurobiologico e psicologico-analitico. Cercare di ricondurre, ad esempio, l’idea di «rimozione» del ricordo sgradevole anche a un danneggiamento dell’ippocampo (responsabile della memoria esperienziale) in seguito alla sovrapproduzione di ormoni steroidei in situazioni stressanti. Oppure, collegare il controllo del «Super-io» anche all’attività del quadrante ventromesiale dei lobi frontali, la cui lesione — vedi il caso famoso di Phineas Gage raccontato da Damasio — libera ogni inibizione. O ancora, per tornare al sonno e al sogno, trovare nella riduzione funzionale proprio dei lobi frontali un nesso col dissolversi della «censura» (e quindi con la liberazione di pulsioni sessuali e/o aggressive); e nell’inattività del cervelletto la spiegazione del movimento «mentale», a corpo immobile (o quasi).
Anche se questo avvicinamento disciplinare — fatalmente prematuro — deve scontare sfocature e reciproche incomprensioni. Non a caso nel bilancio conclusivo di Naccache (neurologo alla Salpetrière, antico regno di Charcot), l’inconscio freudiano e quello neuroscientifico mostrerebbero possibili convergenze (l’incidenza all’attenzione nel passaggio inconscio-coscienza) e altrettante divergenze, a partire dal carattere non decisivo del linguaggio in quello stesso passaggio, dato che si hanno molti stati di coscienza «non verbale».
La sola certezza è che le neuroscienze — confermando o correggendo le impostazioni freudiane — arricchiscono ulteriormente l’incidenza dell’inconscio, la forza soggiacente che — ricordava Giovanni Jervis — ci rende «meno liberi» ma anche «meno stupidi» (e alla fine meno indifesi) di quanto crediamo. In fondo, anche per Hopkins le montagne e i precipizi della mente sono interni a una tettonica mobile e mutevole, capace di plasmarsi in paesaggi percorsi da infinite forme di «bellezza screziata». Quello che conta, con l’inconscio, è alimentarlo: impedire che per inerzia, conformismo o abitudine non si riduca (insieme alla coscienza) al deserto di un pianeta senza vita.
http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/06/01/domenica-1-giugno-2014-corriere-della-sera-la-lettura/
COMICO, GROTTESCO, VIOLENTO. Il testo integrale dell’articolo di commento a “Le Cappelle papale” di Giuseppe Gioacchino Belli
In questa poesia l’io di chi parla non coincide con l’autore; ma qui, mi si obietterà, non c’è nessun io – è un racconto oggettivo, in terza persona. Niente affatto. Chi si mostra annoiato e rassegnato per una ritualità stanca (“sempre er Papa… sempre quarche Eminenza… sempre la sù predica latina”)? Chi fa dell’ironia (“quello che ppiù a tutti j’interessa”) sui prelati che frequentano le “cappelle”, cioè le cerimonie cantate? Chi con occhio straniato, disincantato e deformante fotografa l’immobilità dei cardinali – che non sembrano soltanto cadaveri, né soltanto morti, ma “cadaveri de morti”? Chi, teatralizzando, usa quel “ve” al v. 12 come se parlasse a interlocutori da stupire? Chi infine mima il sussurro del caudatario (l’inserviente addetto a reggere lo strascico), sussurro che uno s’immagina a voce non troppo bassa perché l’Eminentissimo è probabilmente rincoglionito e duro d’orecchio? Non c’è un io esplicito, ma c’è una voce soggettiva e la voce non è di Belli. Lui, tranquillo impiegato pontificio, non si sarebbe mai permesso.
Ci arriva di colpo a questo sdoppiamento, a questa maschera plebea, intorno al 1829’30; dopo tre visite a Milano, l’ultima appunto nel ’29. Per quanto strano possa sembrare, Milano ha avuto un ruolo decisivo nella maturazione dei sonetti romaneschi di Belli. Lì ha letto le poesie di Porta e s’è convinto della piena dignità artistica del dialetto; lì ha potuto valutare, per confronto, quanto la società romana sotto il papato oscurantista di Gregorio XVI fosse immobile e quanto vi fossero impermeabili le classi sociali. Tornato a Roma si dimette dall’Accademia Tiberina, dove aveva scritto molti non memorabili versi italiani – guarda con taglio nuovo i propri tentativi precedenti in dialetto (ancora vecchi, di maniera) e intuisce genialmente un progetto monumentale: una gigantesca commedia umana in cui ritrarre fedelmente la plebe di Roma considerata “cosa abbandonata senza miglioramento”. Un progetto realistico e nichilista insieme. La voce sarà quella dei parlanti popolari, “dal ceto medio in giù”; si tratterà di mettere in versi le espressioni come escono dalle loro bocche, non seguendo altro modello che “il testimonio delle orecchie “. Progetto rischioso perché dalle bocche plebee escono oscenità, ingenuità infantili, aggressioni anticlericali. (In un sonetto intitolato Li Cardinali in cappella il popolano dice, riferendosi alle Eminenze, “saria curioso de leggeje in core/quanti de quelli lì credeno in Dio”).
Per questo i quasi duemila sonetti romaneschi resteranno sostanzialmente clandestini, destinati oralmente e di rado a pochi amici e selezionati ascoltatori (tra questi Gogol di passaggio per Roma, che ne parlerà a Sainte-Beuve); ma non credo che la decisione di tenerli segreti sia dipesa per Belli unicamente dal pericolo della censura. In un’introduzione all’opera mette avanti il dovere della verità (“il popolo è questo, e questo io ricopio”) per difendersi da un’accusa che sente insidiosa: di “celarsi perfidamente dietro la maschera del popolano… onde esalare il mio proprio veleno”. Spesso le negazioni non richieste funzionano da rivelazioni. Se Belli vede la plebe, romanticamente, come un grande fanciullo nel cuore della società; se biograficamente il padre di Belli fu severissimo e autoritario, e il papa è pur sempre un Padre; se il sesso, il politicamente aggressivo e il gioco verbale sono le pulsioni inconsce che secondo Freud si liberano nel motto di spirito, non credo di sbagliare sostenendo che la plebe romana è anche, per Belli, l’incarnazione allegra e masnadiera, la controfigura del proprio inconscio. Quando la verità esterna incontra il desiderio rimosso, il realismo diventa simbolo e intensità lirica.
Che il nostro sonetto abbia una struttura comica non c’è dubbio: la lenta preparazione delle due quartine, con quegli endecasillabi che sembrano ritagliarsi casualmente nel parlato, porta a stringere l’obiettivo sui banchi dei cardinali – lì le terzine creano il silenzio, un silenzio di morte, perché più nitida risalti la battuta del caudatario: con quel “finita” che chiude davvero il sonetto e quel superlativo sdrucciolo sull’accento forte di sesta che è come uno sghignazzo. Ma la prima terzina, e soprattutto il v. 11, eccedono qualunque comicità puntando verso una zona di grottesco tragico; lì c’è il barocco eterno di Roma, ci sono i cardinali rossastri di Scipione, le sfilate ecclesiastiche di Fellini. Morte fisica e morte morale, la morte di un mondo storico e quella di tutti i poteri in decadenza. Il v. 11 piaceva a Pasolini che lo cita più volte; e a Pasolini, che cerca il proprio inconscio tra i parlanti romani nei primi anni ’50, Belli apparirà come guida e Virgilio. Ma nel violento documento belliano c’è una miniera che non si esaurisce fino ai fantasmi attuali; nel sonetto Li prelati e li cardinali, dopo essersi lamentato di quelli che vengono a Roma dalle altre città per riempirsi la pancia, il popolano conclude così: “Ma saria poco male lo sfamalli:/er peggio è che de tanti che ce trotteno/li somari sò ppiù de li cavalli./E Roma, indove viéngheno a dà fonno,/ e rinnegheno Iddio, rubeno e fotteno,/ è la stalla e la chiavica der monno”.
La cappella papale ch’è ssuccessa
domenica passata a la Sistina,
pe tutta la quaresima è ll’istessa
com’è stata domenic’a mmatina.
Sempre er Papa viè ffora in portantina:
sempre quarche Eminenza canta messa;
e cquello che ppiú a ttutti j’interressa
sc’è ssempre la su’ predica latina.
Li Cardinali sce stanno ariccorti
cor barbozzo inchiodato sur breviario
com’e ttanti cadaveri de morti.
E nun ve danno ppiú sseggno de vita
sin che nun je s’accosta er caudatario
a ddijje: «Eminentissimo, è ffinita».
14 aprile 1835
http://temi.repubblica.it/repubblicaspeciale-poesia-del-mondo/2014/05/30/comico-grottesco-violento/?h=1
I BAMBINI, LA LIBERTÀ, LA SALUTE. INCONTRO CON YANN DIENER
L’associazione la cifra di Pordenone organizza un incontro con lo psicanalista francese Yann Diener per la presentazione del suo libro “Un bambino viene agitato. Lo Stato, gli psicoterapeuti e gli psicofarmaci”, Edizioni Ets. All’appuntamento, che si terrà giovedì 05 giugno alle ore 20,45, alla Biblioteca civica di Pordenone, interverranno Alessandra Guerra, direttrice della collana “Libertà di psicanalisi” – Edizioni Ets, e Antonella Silvestrini, psicanalista e presidente dell’associazione “la cifra”.
Un bambino agitato è un malato da curare con psicofarmaci? Un bambino nasce agitato o viene agitato? Un bambino che non vuole andare a scuola è un malato affetto da fobia scolastica, nuovo disturbo mentale? Yann Diener avvia un’elaborazione intorno alle attuali politiche socio – sanitarie e le sue considerazioni offrono molti spunti per riflettere sulla tendenza sempre più marcata nella nostra società verso la standardizzazione e la burocratizzazione del disagio, della particolarità, della differenza e di ogni istanza nuova nell’ambito della scuola, della famiglia e dell’impresa.
“Il sintomo di un bambino”, scrive, “enuncia una verità che concerne i genitori o la famiglia, una verità che non ha trovato altra strada per dirsi se non il sintomo”.
Si ringraziano per la collaborazione FriulAdria Crédit Agricole, Palazzetti, Autopiù, Costam, Tici, Tipolitografia Martin, Libra, PMI, Regìa comunicazione per l’impresa.
Per informazioni e prenotazioni è possibile telefonare allo 0434-208157, scrivere alacifra@virgilio.it o visitare il sito www.pordenone.cifrematica.com.
http://www.pordenoneoggi.it/eventi/i-bambini-la-liberta-la-salute-incontro-con-yann-diener-0014469
EMOTIVE PORTRAITS
di Redazione, insideart.eu, 3 giugno 2014
http://insideart.eu/2014/06/03/emotive-portraits/
MAHLER SUL DIVANO DI FREUD E ALTRE NEVROSI
di Massimo Ammaniti, la Repubblica, 4 giugno 2014*
Sull’altro versante ci si può chiedere come i pazienti abbiano vissuto e percepito la figura dello psicoanalista e l’ambiente curativo in cui sono entrati. Questo cambio di prospettiva, potremmo dire una vera anamorfosi, viene ora proposta da Lucilla Albano nel suo libro Il divano di Freud (Il Saggiatore; la prima edizione è del 1987) che raccoglie testimonianze e scritti di pazienti che si sono rivolti al grande Maestro. E sono pazienti eccezionali, non solo del mondo psicoanalitico ma anche del mondo musicale come Bruno Walter o Gustav Mahler oppure del mondo letterario come la poetessa Hilda Doolittle. È una lettura di grande interesse perché ci fa scoprire un Freud potremmo dire inedito, molto diverso dai dettami psicoanalitici dei suoi scritti, molto più aperto ed accogliente di quanto la neutralità psicoanalitica lo potesse caratterizzare. Ed è vivo in tutti i pazienti il riconoscimento della figura autorevole e rassicurante di Freud, non solo influenzata dalla sua fama e dal suo grande prestigio scientifico ma soprattutto dalle sue qualità personali di estrema attenzione ed interesse per quello che i pazienti esprimevano, soprattutto le loro sofferenze. Non tutti i pazienti hanno provato la stessa riconoscenza e lo stesso apprezzamento, viene riportata nel libro il lungo e minuzioso diario di uno psichiatra, Joseph Wortis, sul suo trattamento psicoanalitico con Freud, durante il quale era interessato a confutare la teoria psicoanalitica e molto meno a parlare di sé stesso. Anche i suoi resoconti delle sedute erano un modo di mettere un diaframma fra sé e Freud e non lasciarsi coinvolgere.
L’immagine di Freud tratteggiata da uno dei suoi pazienti più famosi, l’Uomo dei Lupi, è molto eloquente «nel suo viso, incorniciato da una barba già grigia e accuratamente tagliata, il tratto più impressionante erano gli intelligenti occhi scuri, che mi guardavano quasi penetrandomi». Le descrizioni si fanno via via dettagliate ed evocative, Freud viene ricordato con il sigaro fra le dita nel suo ambiente prediletto del suo studio in Berggasse 19, in cui erano esposti i suoi reperti archeologici e le sue statuette, che colpirono la poetessa Doolittle a cui Freud si rivolse dicendole: siete l’unica persona che guarda le cose che ci sono dentro, prima di guardare me.
Il libro della Albano è stato costruito in modo rigoroso, raccogliendo scritti, diari non solo dei pazienti ma anche di familiari e psicoanalisti che hanno ampliato la ricostruzione delle esperienze psicoanalitiche. Ed ogni testimonianza è introdotta da uno scritto estremamente utile e documentato dell’Autrice che colloca il personaggio nel suo contesto storico e culturale rendendo in questo modo molto leggibile il libro, anche aldilà della cerchia interessata al mondo della psicoanalisi.
* Segnalato da spiweb.it
http://www.spiweb.it/index.php?option=com_content&view=article&id=4751&catid=726&Itemid=353
http://ricerca.repubblica.it/repubblica/ archivio/repubblica/2014/06/04/mahler-sul-divano-di-freud-e-altre-nevrosi48.html?ref=search
DOVE HANNO SEDE LE NOSTRE EMOZIONI? UN INCONTRO SULL’ANTICA RELAZIONE MENTE-INTESTINO. Sabato al liceo artistico interverranno Comelli, psichiatra e psicoanalista, e Scuotto, gastroenterologo. Moderano la biologa Palmieri e la psicologa-psicoterapeuta Falco
Dove hanno sede le nostre emozioni? Per rispondere a questa domanda la Seam, sabato 7 giugno alle 17.30, propone un inedito ed emozionante incontro sulla profonda e ancestrale comunicazione tra la mente e il nostro intestino. Ancora una volta la sede scelta per gli appuntamenti della Scuola di educazione alimentare e movimento è il liceo artistico Federico II Stupor Mundi. Gli illustri ospiti che interverranno in qualità di relatori al meeting rivolto a persone adulte di varia estrazione culturale e professionale, sono uno psichiatra-psicoanalista ed un gastroenterologo.
Il primo relatore sarà Francesco Comelli, psichiatra e psicoanalista a Milano e direttore scientifico Aba, docente dell’Università di Urbino e dell’Università Statale di Milano. La sua relazione dal titolo “Dal fascino del male al ben-essere: dalla paura di vivere alla spinta ad esistere” affronterà la tematica dello studio delle emozioni, la definizione delle aree cerebrali interessate e la loro connessione con il sistema dello stress, soffermandosi anche sui disturbi del comportamento alimentare e sulla dipendenza da cibo.
Il secondo relatore sarà Alessandro Scuotto, medico gastroenterologo, preside della facoltà di scienze mediche a Lugano. Scuotto parlerà del “Circuito psico-neuro-entero-microbiologico: un complesso sistema adattativo”. La sua relazione verterà sul tema delle forti interconnessioni tra mente e corpo, sulla somatizzazione dei vissuti emotivi a livello gastro-intestinale, per arrivare ad un nuovo concetto di salute, passando attraverso la conoscenza e la salvaguardia del microbiota intestinale, concentrando l’attenzione della platea sui target terapeutici del nostro “secondo cervello”, l’intestino.
Ad organizzare il seminario è l’associazione In-Seam con il Gal – Le città di Castel del Monte, il patrocinio del distretto Sud-Est della Fidapa – Bpw Italy e il coinvolgimento delle sezioni Fidapa di Corato, Bisceglie, Trani e Terlizzi. Il meeting gode, inoltre, del patrocinio dell’Ordine degli psicologi della Regione Puglia, del Comune di Corato, di Legambiente Puglia e dell’Associazione degli Imprenditori Coratini.
L’intento della Seam è quello di sensibilizzare la cittadinanza ad una nuova visione olistica dell’organismo umano, in cui non vi sia alcuna scissione tra corpo, emozioni, pensiero, ambiente, al fine di promuovere un cambiamento nel prendersi cura di sé e delle relazioni umane. Vista la peculiarità dei temi da trattare e al fine di esprimere un messaggio forte di integrazione, il meeting sarà moderato in tandem da Lucia Palmieri, biologa-nutrizionista, ideatrice, coordinatrice scientifica, docente della Seam e referente per Corato della commissione “Igiene e sanità” della Fidapa e da Maria Falco, psicologa-psicoterapeuta, docente Seam e referente per il distretto Sud-Est della commissione “Igiene e sanità” della Fidapa – Bpw Italy (Abruzzo-Basilicata-Molise-Puglia).
http://www.coratolive.it/news/Attualit%C3%A0/293209/news.aspx
JAMES BLUNT: “ROMANTICO IO? NO, SONO UN EDONISTA”. Canta amori tormentatissimi, però vive a Ibiza e passa le notti in discoteca. “In realtà sono un soldato inglese, assolutamente freddo”. Alla vigilia del tour in Italia il musicista si confessa. E spiega perché le bevute con gli amici (e altri eccessi) sono meglio dello psicoanalista
di Maria Laura Giovagnini, iodonna.it, 4 giugno 2014
I have never been a beautiful boy/Never liked the sound of my own voice… Mai stato un bel ragazzo? Mai amato il suono della sua voce? Che cosa le è saltato in testa di cantare, in Bones? Va in cerca di complimenti?
«Esatto! Scherzi a parte, a nessuno piace la propria voce registrata, non la puoi sentire». Che irriconoscente, questo James Blunt: i 18 milioni di album venduti e i 20 milioni di singoli li deve a quella voce lì. E al romanticismo spinto (il primo successo, nel 2004? You’re beautiful/You’re beautiful/You’re beautiful, it’s true). Una voce – e un sentimentalismo – che gli fanno ancora riempire i palazzetti e le arene con il Moon Landing Tour (in Italia arriverà dal 14 al 27 luglio).
Sia sincero: gigioneggia pure quando dice “Non ero un teenager cool”.
Non ricordo, è passato troppo tempo… Di sicuro c’è che, come dice un altro verso, avevo sogni, ambizioni, speranze. Non sapevo dove m’avrebbero portato, dovevo solo seguirle.
L’hanno portata a diventare, a 25 anni, capitano nell’esercito britannico. Scegliere come fonte d’ispirazione l’amore è stato una sorta di reazione all’esperienza?
Ammetto: sono famoso per le canzoni romantiche. Però non tutte lo sono: No Bravery è sul genocidio in Kosovo (fu il primo militare inglese a entrare a Pristina, nel 1999, ndr), Cool Eye riguarda le droghe, So long Jimmy è l’addio a un amico.
In compenso Good Bye My Lover è struggimento puro.
Sì, racconta la fine di un rapporto. Anni fa s’è scoperto che era il brano più eseguito ai funerali. Curioso: chi si prende la briga d’andare ai funerali per stilare simili statistiche?
«Perderti sarebbe peggio di morire, se ti taglio via sarò io a portare le cicatrici» si dispera in Sun on Sunday.
Scrivo su esperienze quotidiane, e le più forti sono quelle che riguardano le relazioni. Ma nella vita reale sono un soldato, sono inglese: non ho emozioni, non m’interessa niente di niente. Sono assolutamente freddo.
Sta scherzando.
No, affatto. Metto quei sentimenti nelle canzoni come valvola di sfogo, la mia vita è diversa: avventurosa, eccitante, piena di energia. E poi di natura sono riservato, non ho necessità di parlare di passione, cicatrici, roba del genere… Vivo a Ibiza, passo le notti in discoteca; d’inverno scio, d’estate mi dedico a surf e immersioni.
Che sorpresa. Nei suoi testi sembra affamato d’affetto, pensavamo già a spiegazioni freudiane da cercare nell’infanzia.
Spiacente: ho avuto un’infanzia felice, una famiglia deliziosa che mi ha dato amore e me lo dà tutt’ora. Del resto la maggior parte degli uomini non lotta per esprimere i turbamenti, anzi: lo trova difficile, si sente a disagio. Sono le donne in genere ad avere bisogno di sviscerare ogni cosa. Se in un motivo parlo di cuore spezzato, non significa che io lotti. Lo butto là quasi fosse una terapia.
Ah, dunque è una terapia.
Sì, questo sì.
Interessato alla psicoanalisi?
All’università l’ho un po’ studiata sia a sociologia sia a filosofia, e confesso: le conoscenze teoriche le ho messe in parte a frutto in guerra. Per essere consapevole del pericolo attorno a te, devi conoscere la psicologia del nemico. La considero utile a livello pratico.
Non si è mai steso sul lettino?
No, non ne ho bisogno. Sono un uomo, ripeto: mi basta andare al bar a bere in compagnia per stare meglio. I suoi colleghi maschi lo considereranno quantomeno riduttivo. Ma è vero. Per me è sufficiente parlare con gli amici: “Come va?”, “Eh, non tanto bene”. “Raccontami”. Io racconto, loro mi incoraggiano: “Dai, tirati su”.
Quindi gli uomini sono anime semplici.
Sì, da parecchi punti di vista.
E le donne complicate.
O, quantomeno, più in contatto con se stesse dal punto di vista emotivo, più consapevoli.
Ha appena compiuto 40 anni. Almeno stavolta si sarà guardato dentro, avrà tentato un bilancio.
Se nessuno l’avesse sottolineato, non avrei notato la differenza rispetto a prima. Me la sto spassando, sono fortunato.
Perché ha scelto di vivere a Ibiza?
Ci sono le migliori discoteche.
Lei è un po’ edonista.
Giusto un po’.
Quali eccessi si permette?
Tutti, perché sono divertenti.
Un esempio concreto?
Non bevo acqua.
Questa visione esistenziale come si concilia con il fatto che, su Twitter, segue il Dalai Lama?
Non potrei certo definirmi buddista, però ritengo che come filosofia abbia senso: non importa se sei uomo o donna, bianco o nero, etero o gay. Abbiamo tutti bisogno delle stesse cose: sentirci al sicuro, incontrare qualcuno, condividere le esperienze. Io non vedo le differenze fra le persone, vedo le somiglianze: questa è la lezione più importante che ho imparato dalla guerra. I problemi sono gli stessi da ogni parte, in Serbia come in Kosovo. Non sto su un palco per elevarmi rispetto agli altri. Anche perché – con il mio metro e 72 – francamente non sono poi così alto…
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste/2014/james-blunt-intervista-moonlanding-402115891482.shtml
http://www.iodonna.it/personaggi/interviste/2014/james-blunt-intervista-moonlanding-402115891482_2.shtml
TATTI SANGUINETI PRESENTA GUIDA PERVERSA AL CINEMA DI SLAVOJ ŽIŽEK: IL LINGUAGGIO SEGRETO DEI FILM. Arriva su laeffe l’analisi dissacrante e provocatoria del filosofo sloveno attraverso il documentario realizzato dalla regista Sophie Fiennes
di Redazione, informazione.it, 4 giugno 2014
Pellicole cult come Solaris (1972), Gli Uccelli (1963), Vertigo (1958), insieme a molti altri film, sono qui sottoposti ad un’analisi spietata volta a svelarne i significati reconditi attraverso un attento esame del linguaggio, cinematografico e umano, di cui sono permeati.
Vero punto di incontro tra cinema e psicoanalisi, la Guida Perversa al cinema di Žižek intende dimostrare che “il cinema è l’arte perversa per eccellenza: non ti dà quello che desideri, ti insegna a desiderare”. E sulla base di questo assunto il filosofo si lancia in un travolgente viaggio per esplorare la natura umana attraverso la visualizzazione dell’immaginario che il cinema offre allo spettatore: fantasia, realtà, sessualità, soggettività, forma e desiderio, questi sono i veri protagonisti nascosti dentro il grande schermo e anche dentro il nostro inconscio.
Quest’ultimo e il suo funzionamento sono al centro del primo episodio, giovedì 5 giugno, attraverso lo spunto offerto a Žižek dal film di Hitchcock, Gli Uccelli (1963). Insieme a Hitchcock,Tarkovsky, Haneke, Bergman e Lynch, giovedì 12 giugno, il filosofo riflette sul ruolo che gioca la fantasia nelle relazioni sessuali. Infine, giovedì 19 giugno, conclude il ciclo una riflessione sull’illusione che, secondo Žižek, è alla base della natura stessa del cinema ed è responsabile del vero godimento dello spettatore. Il filosofo è infatti convinto che ci sia qualcosa di più reale nell’illusione, piuttosto che nella realtà che essa nasconde sotto di sé.
Il documentario termina così con un appello ad intendere il cinema come un’arte essenziale della nostra realtà: i grandi registi giocano un ruolo cruciale in quanto ci consentono di affrontare dimensioni per cui non siamo ancora pronti, attraverso la grande illusione cinematografica, che come sostiene la regista Sophie Fiennes: “ci aiuta in qualche modo a credere di essere capaci di sopportare la realtà e così ci aiuta a controllare l’ansia. Ci dà una sorta di coraggio olandese, una specie di falsa credenza di essere capaci di tenere la situazione sotto controllo”.
Guida perversa al cinema è un film documentario diretto da Sophie Fiennes con Slavoj Žižek, musiche a cura di Brian Eno. (Gran Bretagna/Austria/Paesi Bassi, 2006. 150’)
http://www.informazione.it/c/EC632CAE-68C0-4DEB-8BD3-980F68E174E3/TATTI-SANGUINETI-PRESENTA-GUIDA-PERVERSA-AL-CINEMA-DI-SLAVOJ-zIzEK-IL-LINGUAGGIO-SEGRETO-DEI-FILM
Il Trailer:
CON GIOELE DIX NASCOSTI DOVE C'È PIÙ LUCE. L'attore milanese è protagonista su Comedy Central venerdì 6 giugno alle ore 21 col suo ultimo spettacolo. Dal "malato immaginario" di Moliere al rapporto tra televisione e palcoscenico, Gioele si racconta in questa intervista
di Fabrizio Basso, mag.sky.it, 5 giugno 2014
Addormentarsi sul palco può creare strane situazioni. E altrettanto strane apparizioni: un angelo che ti fa da guida in quel transito tra vita terrena e aldilà. In questa insolita ma affascinante camminata ci guida Gioele Dix col suo spettacolo Nascosto dove c’è più luce che potremo vedere venerdì 6 giugno alle ore 21 su Comedy Central. L'attore milanese ci racconta, in questa intervista, il tema dello spettacolo, il rapporto tra tivù e teatro e anche un po' di lui.
Gioele Dix esattamente dove ci accompagna?
È un viaggio nella memoria esterna dell’umanità affrontata da me con vari piani di lettura ai quali la gente aggiunge le sue seguendo il proprio gusto e la propria sensibilità.
Un tema di trascendenza affrontato con ironia.
Lo spettacolo acchiappa, resta comico perché io quello sono e così resto. Lo sguardo sghembo della comicità permette di essere profondo anche quando tocchi i tasti più delicati e lievi.
Cosa è cambiato rispetto al precedente Dixplay?
Quello era una serie di monologhi di personaggi arricchiti con un po’ di pensieri. Non c’era la battuta fine a se stessa, il comico ci deve mettere una sua filosofia.
A farle da Beatrice la debuttante Cecilia Delle Fratte.
Trovo un angelo custode nel dormiveglia che mi porta a fare un bilancio del mio stato psichico e professionale. Mi fa un questionario sulla mia vita di attore, cose da salvare, condizionamenti…
Insomma una auto-confessione.
Non proprio, quella non interessa al pubblico e per evitare il machissenefrega, io per primo, cerco elementi che si possono condividere con altri, col pubblico. Parlo di ruoli, di figlio e padre, di amante lasciato e che è stato lasciato, di cittadino incazzato e attore.
Il titolo sembra un ossimoro: nascosto nella luce.
È un lascito di un amico morto, uno psicanalista argentino. Fare lo psicanalista era il mio sogno. Questa frase venne fuori per caso ma neanche troppo, mi disse perdo un collega ma sta nascosto dove c’è più luce. Per decenni mi è circolata in testa e ora la ho usata.
Cosa cerca il pubblico?
Credo che la gente si voglia identificare in alcuni frammenti di spettacolo, mi scrivono che hanno trovato pezzi di me che sono anche loro. Facendo l’attore ho un ego è molto esposto, devi fare i conti con la voglia di essere e un risultato da raggiungere. Sul palcoscenico abbiamo i nervi scoperti ma garantisco che lo spettacolo è molto allegro.
Musiche?
C’è una colonna sonora molta curata da Savino Cesario, musicista che ha frequentato abbastanza i comici per capire cosa vogliono. Ne è nata una soundtrack variegata: lo ho a lungo stressato perché dovevo tirare fuori il mio passato.
Le piace la musica?
Il mio senso più vulnerabile è l’udito, quello che mi ritorna amplificato dall’audio… Io mi emoziono non tanto per le foto quanto per la voce di mio figlio.
Ci dica qualcosa in più della musica.
Ha due temi bellissimi, quello dell’angelo e del protagonista, fatti per altro in varie versioni, e un finale bossanova.
È importante andare in televisione col teatro?
È un onore. Sono due mezzi che confliggono ma possono anche aiutarsi. Devo dire che Comedy central con me è stata ospitale, ci sono già passato con Dixplay ed Edipo.com che ha qualche anno e per quando abbiamo una venatura ironica il punto di partenza resta Sofocle.
In cosa cambia rispetto alla versione teatrale?
Ci sono più primi piani. E poi due telecamere in posizione strategica: una alle mie spalle e l'altra sopra di me
Ha già altre idee per spettacoli futuri?
Corono un sogno, divento il malato immaginario di Moliere per la regia di Andree Ruth Shammah. Ho aspettato trent'anni per fare questo classico della comicità.
Smette di scrivere?
Per un po' di tempo mi fermo. La prossima stagione parto con un po' di date di "On the road", e al mio fianco sul palco ci sarà Savino Cesario, e poi divento Argante.
http://mag.sky.it/mag/life_style/2014/06/05/gioele_dix_comedy_central_intervista.html
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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