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Grazie al cielo non sono uno psicoanalista

9 Giu 14

A cura di Luigi D'Elia

Devo ringraziare qualcuno lassù che in passato mi ha opportunamente e invisibilmente indicato la strada opposta a quella del training analitico.

Probabilmente si potrebbe affermare il viceversa: le società analitiche ringraziano il cielo che il sottoscritto non sia entrato in qualcuno dei loro club esclusivi. Come avrebbe detto Marx (G.), non lo avrei io stesso sopportato.

Primo motivo, ho evitato di spendere fortune – parliamo di cifre di molte decine di migliaia di euro – in oziosissime seconde e terze analisi (me ne è bastata e avanzata una), cosiddette didattiche, dovendo frequentare quasi giornalmente un analista didatta.

Secondo motivo, non mi sono dovuto, conseguentemente, convincere di emerite corbellerie come della differenza tra setting analitico e setting psicoterapeutico giustificando, ad esempio, l’assolutamente immotivata e immotivabile frequenza delle sedute analitiche rispetto a quelle psicoterapeutiche. O blaterando sulla presunta maggiore profondità o preziosità del percorso analitico rispetto a quello psicoterapeutico, individuale, famigliare e di gruppo. Non mi sono dovuto quindi ritrovare nella contraddizione, tipo doppia morale cattolica, di chi contesta il mito della purezza a pazienti e astanti salvo poi esercitarlo acriticamente pro domo sua sulle proprie procedure.

Terzo motivo, non mi sono costruito idee e credenze antiscientifiche sull’immisurabilità degli esiti delle mie pratiche, in particolare in veste di eventuale analista italiano (all’estero pare non sia così). Accade ancora oggi che tentare di affrontare il discorso degli esiti con certi analisti italiani risulti culturalmente un’esperienza “babelica” piuttosto estraniante (qualcuno prova a capire che vuol dire star meglio e dall’altra parte si risponde tipo supercazzole sulla soggettualità del soggetto soggettivato).

Quarto motivo, ho opportunamente evitato di incappare nei sistemi di affiliazione e iniziatici delle istituzioni psicoanalitiche in età nelle quali tali metodi avrebbero potuto fare presa su di me. Non che questi metodi non appartengano a molte altre congregazioni psy (ahinoi), ma il modello-madre rimane insuperabile.

Quinto motivo, ho evitato l’orrore di dover cadere nel baratro della monocultura, cioè di citare, anche quando sono in bagno o mentre mangio una pizza, brandelli di pensiero e frasi idiomatiche, e solo quelle, del sommo maestro che ha fondato l’istituto circa 70-120 anni fa. Altresì ho evitato di scrivere articoli e testi la cui bibliografia (in genere piuttosto stringata) sia al 80% quella del suddetto maestro e il restante 20% di suoi seguaci, amici miei.

Sesto motivo – ed al cielo per questo sono particolarmente grato – non sono diventato un rampollo snob giudicante, non empatico e privo di compassione che pontifica dall’alto di un sapere trasfusionale e veritativo. Se proprio devo diventare stronzo, narciso, aristocratico e sacedortale, preferisco farlo a modo mio piuttosto che secondo cliché.

Settimo motivo, non mi sono dovuto costruire un immaginario ruolo sociale, di fatto del tutto marginale se non inesistente, per giustificare l’esercizio di un qualsiasi potere-sapere, supposto o meno. Quale funzione positiva e propositiva abbia la psicoanalisi e soprattutto le istituzioni psicoanalitiche nell’odierna società rimane per me un vero e proprio mistero.

Ottavo motivo, sono di quelli che considera un “sintomo” chi a 35-40 anni non consideri conclusa, e pure da molto tempo, la propria formazione per l’esercizio professionale. Tutto il resto che si voglia aggiungere è pratica autodidattica ed esperienziale. Colleghe e colleghi che a 40 e oltre (sulla soglia di quella che fino a ieri sarebbe stata terza età) si imbarcano nel lunghissimo e costosissimo training analitico non li considero ardimentosi navigatori della conoscenza che si rimettono in discussione, ma casomai persone bisognose di certezze mitologico-culturali. Approccio alla conoscenza e alla pratica questo che appare già in partenza contrario allo sviluppo di un pensiero critico e che tende a costruire atteggiamenti conformisti e veritativi.

Detto tutto ciò rimango infinitamente grato per il lavoro di Freud, Jung, Lacan, Bion, Fromm, Hillman, Winnicott, Fornari, Napolitani, e di molti altri psicoanalisti che hanno contribuito a una parte della mia formazione culturale e professionale. Tra i miei numerosi supervisori del passato, la gran parte sono stati analisti, ma le migliori esperienze le ho decisamente ricevute da supervisori non analisti o non solo analisti.

C’è a mio parere un cambio di passo culturale che le psicoanalisi possono e forse dovrebbero realizzare in questo momento storico nella direzione di una maggiore contaminazione dei linguaggi. Dico questo nonostante il successo estemporaneo di questo o quell’autore, dovuto soprattutto a rare e inedite doti personali comunicative piuttosto che a vere e proprie novità nello sguardo sul mondo attuale da parte delle correnti analitiche che rappresentano.

Arrivano migliori comunicatori sulla scena psicoanalitica italiana, ma ciò che rappresentano, ciò che sta alle loro spalle, non apporta ancora la necessaria spinta politico-culturale per dare impulso a tutto il mondo psy ed il loro dire rischia di diventare un pestare acqua nel mortaio.

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13 Commenti

  1. info_1

    Grazie al cielo ho un amico
    Grazie al cielo ho un amico che di mestiere fa il cardiologo, che anni fa mi salvò la pelle.
    Quella pelle che stavo buttando via in quella che credevo un analisi, che divenne per me una camera asfittica insostenibile. Un luogo nel quale venivo giudicato. Un percorso che mi mandò in palla, creando le basi per un crollo fisico.
    Per fortuna , dicevo, che il mio amico mi disse ‘ o te ne vai da li, o ci lasci le penne’.
    Per fortuna che ho serbato le e mail nelle quali chi doveva ‘curarmi’ mi intimava di smettere di rompergli le scatole a chiedere chiarimenti, pena ritorsioni legali.
    Per fortuna che ho saputo evitare tutti gli psy di questo mondo, pronti a sfornare diagnosi, ricette, soluzioni.

    Per fortuna che mi sono messo a studiare.

    Per fortuna che ho incontrato un analista. Muto, silenzioso.
    Il quale mi rimandava risate ogni volta che proferivo le varie etichette con le quali ero stato precedentemente ‘classificato’.
    Per fortuna che , appena ristabilito, quell’analista mi mise su un lettino senza impormi nè frequanze obbligatorie e nemmeno idee o spunti salvifici.

    Per fortuna che, lavorando sempre più con i pazienti, riconoscevo quelle parti di se stessi che dovevano restare immobili di fronte ad attacchi o colpi transferali dei suddetti.
    Perchè occupavo una posizione abusiva, essendo la posizione analitica un elemento transeunte, dove , appunto, si recita un ruolo che non ti chiama in causa.
    Per fortuna che ho imparato a ridere delle Chiese analitiche, dei dogmi, delle frasi ripetutte a pappagallo.
    Dei discepoli che osannano, dei profeti senza macchia. Degli analisti intrappolati ai tempi di Freud, o alla loro immagine.

    Per fortuna che l’analisi mi ha mostrato dove ero, chiuso in quell’angolo dal quale , con pervicacia, non volevo uscire.

    Il mio posto nell’analisi, lontanissimo da ogni possibile ‘cura’, riabilitazione o ‘rimessa in forma’

    Sgangherato, così come tanti.

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    • luigidelia

      Grazie Maurizio della tua
      Grazie Maurizio della tua testimonianza.

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      • info_1

        E aggiungo: il dramma venne
        E aggiungo: il dramma venne in seguito, quasi a voler dare manforte alla tua idea della ‘Chiesa’.
        Non rimasi fermo. Mi recai da altri analisiti.

        Perbacco, dicevo. Loro capiranno!
        E che diamine.

        Sapranno vedere, giudicare, prendere provvedimenti.

        Le risposte furono
        ‘ ma è sicuro?’
        ‘ ma scherza vero? Il mio caro collega, impossibile’
        ‘ mh. ciò che lei dice non lo voglio sentire’

        più drastico il legale
        ‘ hai le ricevute di quelle sedute? No? Allora sei firtto’

        La cosa era non successa, non accaduta.

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        • luigidelia

          Vedi, Maurizio, quando
          Vedi, Maurizio, quando raccolgo storie come la tua mi viene da pensare, al di là del fatto che dall’altra parte vi sia uno psicoanalista, uno psicoterapeuta o uno psichiatra, che in un mondo mediamente civile esisterebbero delle verifiche a tutela dei diritti del paziente. Invece nel tuo caso, solo la tua insistenza ha consentito al sistema di cura di trovare al proprio interno, non senza una lunghissima peregrinazione e direi ostinazione, riparazione ai guasti che esso stesso aveva prodotto. Da un lato questa notizia è confortante visto che esistono antidoti al veleno che noi stessi produciamo, dall’altro forse dovremmo imparare a capire dove e come nei nostri sistemi di cura si costruisce quel veleno.
          Ho come la sensazione che in questo senso non vi sia una diffusa consapevolezza tra di noi su dove andare a cercare, e cioè nelle culture istituzionali e probabilmente anche in certi miti fondativi, e non nelle perversioni o solo nelle sofferenze dei singoli che trovano spazio, anche creativo, in molte nostre realtà istituzionali.
          Questo discorso mi ricorda tanto quello che accade nella chiesa, notoriamente luogo di rifugio di innumerevoli casi di perversione, psicopatia o più semplicemente psicopatologia. La chiesa copre e contiene allo stesso tempo, ma nessuno (o ben pochi) si prende la briga di domandarsi perché tra le funzioni della chiesa questa non venga mai esplicitamente riconosciuta.
          Proprio di recente un mio paziente ha subito una sorta di stalking da un suo (ex) amico frate francescano a mio parere pericolosissimo, e ci chiedevamo come possano convivere nella stessa istituzione brave persone e ignobili figuri come quello.

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          • info_1

            Eh, carissimo. Uscito per
            Eh, carissimo. Uscito per modo di dire.
            I danni me li sono tenuti tutti quanti.
            Sulla necessità di controllo , scrissi questo.
            http://www.psychiatryonline.it/node/4942.

            Tuttavia grazie a quel brutto incontro, ho affinato la mia capacità di capire cosa sia il contratransfert, e tenerlo a bada.
            Di questo ho parlato al convegno della Scuola Lacaniana di psicoanalisi, il 14 e 14 di questo mese.

  2. simonetta.putti

    Luigi D’Elia, quando lo
    Luigi D’Elia, quando lo smartphone mi ha segnalato questo tuo nuovo articolo dentro me ho pensato: ‘a Luigi si dovrebbe conferire un premio per la meritoria triade intelligenza-ironia- simpatia’. Ora, letto il tuo articolo… penso che prima di ricevere il premio dovrai sgomberare qualche pregiudizio.. ! La figura di analista che tu tratteggi è alquanto caricaturale e stereotipata.. almeno che tu sia stato s-fortunato negli incontri. Penso che il lettore (addetto o non ai lavori) provi una subitanea antipatia per questo ‘analista’ rigido, non al passo con i tempi, presuntuoso e forse anche arrogante (quindi fondamentalmente ‘stupido’).
    Mi piacerebbe rispondere punto x punto al ritratto che fai della figura in questione …. ma annoierei il suddetto lettore.
    Preferisco dare pochi cenni per tentare una giocosa riabilitazione del ‘condannato’… Come in ogni campo, ci sono persone di diverso valore e capacità critica; l’analista ‘serio’ e non quindi serioso, comprende bene lo spirito del tempo ed i versanti economici nei quali da qualche anno si naviga: nella pratica, anche una seduta a settimana è fattibile.
    Per quanto riguarda il’disdegno’ del supposto sopradetto colpevole, valga quanto sopra… ti assicuro che ho incontrato più di uno psicoterapeuta cognitivo-comportamentale che in ogni suo scritto non tralasciava un confronto tra il proprio metodo e la psicoanalisi.. inutile dire a vantaggio del proprio metodo.
    Infine.. già essendomi dilungata – una piccola citazione personale: io dico ai colleghi ed ai potenziali pazienti che la psicoanalisi non è la via preferenziale ma ‘una via’, e neanche praticabile per tutti: a seconda della tipologia altri metodi paiono più idonei..
    Credo che ognuno di noi (terapeuti o psicoanalisti) dovrebbe relativizzare ed anche relativizzarsi..camminando al passo con la realtà presente. Ciao, con simpatia..!

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    • luigidelia

      Ma non è nuovo, Simonetta! E’
      Ma non è nuovo, Simonetta! E’ di un anno fa.

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      • simonetta.putti

        a me è arrivato come nuovo…
        a me è arrivato come nuovo… oggi.! Allora devo aspettare una ri-edizione…? 🙂

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  3. kharban@virgilio.it

    Illeggibile: non sono
    Illeggibile: non sono riuscito ad arrivare in fondo. Troppo pieno di livore e troppo povero di idee e di conoscenze. Troppa rabbia e troppo poco pensiero. Troppi luoghi comuni, e troppa pigrizia nell’affrontare lo sforzo di comprendere, di indagare la natura delle contraddizioni che è in parte scientifica e in parte storica. Bisogna conoscerla, la storia della psicoanalisi, caro D’Elia. E non attraverso quella velina da politburo sovietico che è stata la biografia jonesiana di Freud, ma approfondendo il complesso degli studi degli storici indipendenti della psicoanalisi; e soprattutto la ricchissima messe di materiale epistolare che Freud e i pionieri ci hanno lasciato. Altrimenti non si capisce niente. Altrimenti si vede soltanto la propria storia personale che viene così ad assumere un’importanza ridondante e pateticamente sproporzionata alla complessità degli avvenimenti storici e delle scoperte, delle congetture, degli errori scientifici e delle affiliazioni fideistiche che l’hanno preceduta. Il tuo è un punto di vista miope, autoreferenziale, e tristemente provinciale. Uomini siamo: le nostre storie personali, anche quando siano state dolorose e anzi proprio per questo, non meritano questa fine un po’ patetica.
    Io non sono diventato “psicoanalista d.o.c.” (nonostante la nobiltà e l’ortodossia dei miei pur bastardissimi natali) perché -magari persino con qualche ragione- mi fu chiusa la porta in faccia dalla SPI. Ciononostante decisi di non arrendermi, perché sapevo che la psicoanalisi sarebbe stata la mia vita. Infatti lo è stata, da psicoanalista indipendente o, ormai, semi-indipendente (appartengo a un paio di società che mi scappa da ridere chiamare “eterodosse”, nazionali e internazionali, data l’evidente inattualità di queste suddivisioni). Il mondo della psicoanalisi è molto esteso, caro D’Elia; a giudicare da quello che scrivi, si ricava la sensazione che tu non abbia la più pallida idea della complessità della sua storia, dei suoi conflitti, dell’emergere al suo interno d’idee in fortissimo e talora drammatico conflitto fra loro, delle -non proprio pochissime- morti per amore e passione e com-passione che hanno costellato la sua storia più che secolare, dei punti di vista canonici come di quelli “interpersonalisti”, relazionalisti, “intersoggettivisti e quant’altro. Credo che tu non abbia letto una riga di Sullivan, di Ferenczi, di Balint, di Bowlby, di Winnicott e della splendida e “pazza” Margareth Little, della grande Paula Heimann, di pensatori fondamentali come Nicholas Abraham, Maria Torok, e soprattutto (ti consiglio caldamente di leggerlo) di Ian Suttie, morto troppo precocemente. Sospetto che tu abbia avuto scarse opportunità di avvicinare il pensiero di Mitchell, Kohut, Mancia, o che tu non conosca Aron, Harris, Rudnytsky, Rachman, Frankel, Borgogno, Bonomi e potrei andare avanti per mezz’ora. Probabilmente hai sentito parlare in maniera sacerdotale della Klein e del pur immenso Bion, e ti sei giustamente ritirato, ma il livore ha avuto la meglio. Io, dal canto mio rimpiango di non avere avuto maggior tempo da dedicare a Jung e ad Anna Freud, ma le mie possibilità sono limitate. Sono sinceramente dispiaciuto delle occasioni che hai perduto; ma almeno non commettere l’ingenuità di vantartene.

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    • luigidelia

      Sinceramente da uno
      Sinceramente da uno psicoanalista serio, seppure non strutturato, mi sarei aspettata una riflessione più meditata nel merito e non questa alzata di scudi reattiva della serie “lei non sa chi siamo noi” con tanto di album di figurine panini a contare quanti ne abbiamo nella collezione (ce l’ho, ce l’ho, mi manca). Gare a chi ha la bibliografia più lunga e che indicano una inconfondibile reazione per lesa maestà.
      La cosa più triste è la sottovalutazione dell’interlocutore e la dichiarazione di non aver nemmeno finito di leggerlo l’articolo, tanto i contenuti sono irricevibili in quanto, a suo dire, frutto di esperienze personali (non so da dove ciò si deduca) che in quanto tali insignificanti. E questo naturalmente permette al mio critico collega di non dire nemmeno una parola nel merito dei contenuti e quindi di non entrare minimamente nell’interloquire circa il tema dell’articolo che NON è certo il valore del pensiero psicoanalitico e delle idee degli psicoanalisti, ma la consistenza delle ISTITUZIONI PSICOANALITICHE, il loro evidente clericalismo, i loro prodotti culturali e le conseguenze che tutti conoscono attraverso numerose esperienze personali messe in fila di cui sono solo semplice testimone.
      Questo sfalsamento del piano del discorso – dalle istituzioni e i loro modelli formativi al valore della storia e del pensiero – non mi permette quindi di rispondere a mia volta. Mi ricorda tanto la difesa della chiesa cattolica contro chi l’accusa di coprire i preti pedofili. Senza una seria analisi istituzionale (e il cielo sa quanto sia utile il sapere psicoanalitico in questo!) sfuggono i veri motivi per i quali la chiesa partorisce perversi e pedofili… tutti s’imbronciano nel pensare che i messaggeri di Cristo e del bene e la loro bimillenaria storia siano gli stessi che molestano i nostri figli… E dunque si oscilla dal coprire le poche mele marce che sbagliano (tanto la chiesa rimane gloriosa) a pensare che la chiesa sia intimamente corrotta…. naturalmente entrambe le posizioni sono sbagliate.
      Quando riceverò una critica circostanziata nel merito di quanto dico, allora magari possiamo interloquire e cioé, riepilogo:
      1) costi assurdi della formazione
      2) ingiustificabilità della frequenza delle sedute
      3) rapporto inesistente degli psicoanalisti con la ricerca empirica (specie in Italia)
      4) culture istituzionali della formazione di tipo affiliativo-iniziatico
      5) autoreferenzialità di moltissime produzioni scientifiche (e conseguente miopia sul ruolo sociale delle psicoanalisi) ed autoreferenzialità rispetto al mandato sociale delle psicoanalisi.
      6) tendenza delle formazione psicoanalitica a “partorire” un clero e una curia moralisti del tutto insopportabili (per me).
      7) inconsistenza del ruolo sociale e politico delle psicoanalisi
      8) tendenza dell’approccio formativo e conoscitivo di tipo “veritativo” e conseguente prolungamento (infantilizzazione) sine die della formazione analitica in “ragazzi” di oltre 45-50 anni…

      Ancora non ho conosciuto uno psicoanalista che sia scevro da questi problemini…. se lei, Dr. Guasto vi si considera, sono molto felice per lei e dunque non si senta oggetto della mia ironia e provocazione.
      Nel frattempo avrei preferito che uno psicoanalista rispondesse al mio “grazie al cielo non sono uno psicoanalista” con un sonoro “grazie al cielo SONO uno psicoanalista”.

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      • kharban@virgilio.it

        L’ANALISI NON È UN PRANZO DI
        L’ANALISI NON È UN PRANZO DI GALA
        Caro Elia, inizierò dandoti del TU, perché per quanto la mia risposta possa esserti sembrata sgradevole, non credo sia necessario mantenere questo tipo di distanza; spero vorrai fare altrettanto.
        Esordisco dicendo che non posso ringraziare alcun Cielo del fatto di essere diventato uno psicoanalista, innanzitutto perché sono irrimediabilmente ateo; ma ancor di più perché il merito di ciò è di poche persone, e soprattutto della mia testardaggine. Se domani dovessi commettere qualche errore professionale di quelli che non meritano perdono alcuno, ci potrebbe sempre essere qualcuno, vivo o morto, che potrebbe dire di aver raccomandato la mia esclusione dalla professione.

        Credo che i punti che sollevi meritino risposte dettagliate; esse affrontano problemi reali che potrebbero essere sollevati da numerosi pazienti; ma spero di riuscire a insinuare perlomeno il dubbio che alcune di essi siano miopi o vadano poco lontano. Per quanto riguarda alcuni altri, potrò facilmente dimostrare di essere d’accordo con te, e non certo da oggi.

        Primo punto: “I costi assurdi della formazione”. Sii un po’ più generoso, via. La formazione costa quello che costa, perché richiede l’analisi personale (bada bene: ho detto “personale”, e non “didattica”. E su questo punto ritornerò). E l’analisi personale non può essere breve, né poco intensiva. E questo collega automaticamente il primo punto al secondo: l’ “ingiustificabilità della frequenza delle sedute”.

        Ingiustificabilità? Ma che cosa dici? Proprio tu che al punto seguente fai riferimento alla validazione scientifica della psicoanalisi, parli di “ingiustificabilità”? Di’ che non sei d’accordo, porta argomentazioni a sfavore, ma non parlare di “ingiustificabilità” per un tema su cui sono stati scritti fiumi, di inchiostro. Avresti ragione se l’argomento fosse imposto dogmaticamente senza giustificazione alcuna (ben altri sono i dogmi che girano da queste parti; e credo di poterteli elencare uno per uno); ma di giustificazioni ce ne sono a bizzeffe.
        Il lavoro sull’inconscio richiede un confronto serrato: e te lo dico avendo fatto due analisi (la seconda per ragioni, ahimè, burocratiche) a quattro sedute la settimana per circa dieci anni. Nella mia esperienza analitica ebbero particolare importanza il ritmo, la presenza, l’assenza, la separazione.
        E oggi che l’infant research, quando parla di regolazione affettiva madre-bambino, conferma le intuizioni empiriche che Freud e i primi psicoanalisti ebbero in materia di tempo e ritmo, trovo un’ulteriore conferma di quelle intuizioni.
        Sai qual è, invece, il problema? Che oggi è diventato difficilissimo lavorare con quei parametri: sia per ragioni economiche che culturali.
        Siccome da anni faccio il supervisore di aspiranti psicoterapeuti, trovo sempre più spesso allievi disposti a comprendere l’importanza di un’analisi intensiva. Non più tardi di un anno fa, mi capitò di cogliere al volo una conversazione fra due di loro:. Uno diceva all’altro: “se ci vai più di una volta la settimana, che cosa puoi avere da raccontare al tuo analista?”
        Ma come? Ecco, con queste premesse, una lontana padronanza dell’inconscio del terapeuta non nascerà mai. Perché è intesa come conoscenza razionale. Mentre quando io penso alla psicoanalisi intendo il ferencziano “dialogo fra gli inconsci”; qualcosa di cui puoi avere (quasi) piena consapevolezza anche molti anni dopo la fine dell’analisi.
        Sai che cosa diceva Ferenczi? “Noi dobbiamo essere analizzati meglio, non peggio dei nostri pazienti!” E perciò aggiungeva “quindi nessuna speciale analisi didattica”. Ma qui il discorso si farebbe lungo; lo affronto in un mio articolo di cui parlo più avanti.

        Il prezzo delle sedute. T’invitavo prima a essere generoso. Siilo nei confronti di chi, come me, pur non provenendo da una famiglia particolarmente facoltosa, avrebbe potuto benissimo fare il radiologo o il ginecologo, dedicando alla formazione un quarto delle risorse di tempo e denaro. Oggi avrei lo studio pieno di persone disposte a pagare, una tantum, anche cento o perfino duecento euro a visita. Invece non si può; né i prezzi possono essere quelli. E tutto ciò perché prevalsero passione, curiosità, spirito di avventura. E poi la questione delle ricevute, così poco dibattuta nei Congressi nazionali e internazionali sul transfert. Questo sì avrebbe potuto essere un buon argomento da includere fra i tuoi punti critici.

        Il mio secondo analista, buonanima, soleva aumentare ogni anno il prezzo della seduta di cinquemila lire. Poi, quando gli chiedevo le ricevute, si lamentava. Mi diceva: “se ne rilascio la metà, spero che per lei sia sufficiente”. “Si, pensavo, perché l’altra metà è indispensabile a te e superflua per me”.

        Ma non lo dicevo. E questo mio non dire la raccontava lunga: l’atteggiamento del mio analista era dannoso e antiterapeutico perché quel pensiero rimaneva chiuso dentro di me, perché l’ambiente nel quale avrebbe potuto espandersi non era accogliente. Il fatto stesso che il mio analista non supponesse che io stessi pensando una cosa tanto ovvia, mi faceva “intuire” –anche se non potevo neppure confessarmelo- che eravamo di fronte a una sua “area cieca”.

        Sai che cosa scrive Ferenczi in proposito? (Dovresti proprio leggere il suo Diario Clinico; lo troveresti illuminante, e oltretutto le tue critiche all’istituzione psicoanalitica diventerebbero più mirate). Diceva:

        “… tutto ciò ha per effetto che il paziente: (1) sia offeso dalla mancanza o scarsità di interesse; (2) cerchi la causa della mancata reazione in se stesso, cioè nella qualità della sua comunicazione, non volendo pensare nulla di cattivo o svalutante a nostro riguardo [per inciso, io stavo zitto perché mi aspettavo di sentirmi dire che ero avido; cioè accusavo me stesso, invece che l’analista, di avidità]; (3) dubiti della realtà del contenuto, che prima era ancora così aderente al sentimento.
        In questo modo il paziente reintroietta –si potrebbe dire- introietta l’accusa rivolta contro di noi”. (Diario Clinico Gennaio-Ottobre 1932, 7 Gennaio, Cortina, p. 47).

        Ora tu dirai: “ecco! Lo dici anche tu che l’analisi fa male”. Sissignore lo dico anch’io. Perché? Gli antibiotici no? E gli psicofarmaci? E come se ne esce? Secondo me, se ne esce con la psicoanalisi. Magari provando a cambiarla, proprio come ha tentato di fare Ferenczi, lasciandoci un’eredità inestimabile.

        Per mia fortuna, dopo, ebbi un supervisore kleino-comunista (un’accoppiata che meriterebbe un discorso a parte) che, almeno sul versante delle ricevute fece di me un contribuente fedele, un po’ in onore ai partigiani uccisi durante la Resistenza, un po’ in onore al transfert dell’incolpevole paziente. Anche se non mi parlò mai di Ferenczi, al quale dovetti ricorrere per liberarmi anche di lui.

        Comunque, l’alta frequenza delle sedute resta largamente raccomandabile (sarebbe anzi indispensabile, se i tempi non ci costringessero a cercare ostinatamente “nuove vie della psicoanalisi”, come diceva quel Tale) perché l’intensità, il senso di continuità, la durata nel tempo, la necessità di vivere una settimana che sia più lunga del week end sarebbero valori aggiunti di importanza fondamentale; e ciò dovrebbe valere a maggior ragione per noi operatori della Salute Mentale, psicoanalisti o meno. La conoscenza profonda di Sé, “non è un pranzo di gala, non un disegno né un ricamo”, diceva un vecchio leader cinese (anche se, in effetti, è certamente “un’opera letteraria” e, come tale, dolorosa da partorire).

        E poi tu pensa a come s’instaura la relazione di attaccamento: non è forse sulle nostre emozioni perinatali che dobbiamo intervenire? Si può avere un caregiver una volta la settimana quando si è in uno stato di regressione (how “long week end”!)? Si può evitare di regredire se si vuol imparare a entrare in contatto con un paziente psicotico? Dimmelo tu che sei esperto di comunità.

        Altro punto: “il rapporto inesistente fra la psicoanalisi e la ricerca empirica”. Hai ragione. Ma come farlo? Il mio maestro elementare m’insegnò a non commisurare i centilitri con i metri quadrati. Di certo, l’insiemistica, inventata molto dopo che ebbi finito le scuole elementari, rese perlomeno ipotizzabile ciò che fino allora non lo era stato.
        La psicoanalisi è un’arte, come la liuteria, mentre le discipline scientifiche sono un’altra cosa. Ma chissà che con il tempo e l’abbandono di pregiudizi e arroganze di scuola non si arrivi a concepire una qualche insiemistica capace di farci comprendere di più. Per adesso, il dialogo fra psicoanalisi e neuroscienze mi sembra promettere bene.
        Di certo, però, e voglio dirlo forte e chiaro, nessun aiuto potrà venirci dall’evidence-based, che sempre più si sta rivelando un mito neppure troppo disinteressato.

        Riguardo ai punti 4 (“culture istituzionali della formazione di tipo affiliativo-iniziatico”) e 6 (“tendenza delle formazione psicoanalitica a «partorire» un clero e una curia”), ti rimando al mio lavoro “Verso un insegnamento laico della psicoanalisi” che trovi su internet a questo indirizzo: https://www.academia.edu/4078142/Verso_un_insegnamento_laico_della_psicoanalisi. Anche il punto 8: “tendenza dell’approccio formativo e conoscitivo di tipo “veritativo” e conseguente prolungamento (infantilizzazione) sine die della formazione analitica in “ragazzi” di oltre 45-50 anni…,” che non mi entusiasma per rigore di esposizione, è implicitamente affrontato nell’articolo sopracitato, più come conseguenza implicita di uno stato di cose che ha cause ben precise.

        Quanto ai punti 5 (“autoreferenzialità di moltissime produzioni scientifiche [e conseguente miopia sul ruolo sociale delle psicoanalisi] ed autoreferenzialità rispetto al mandato sociale delle psicoanalisi”); e 7 (“inconsistenza del ruolo sociale e politico delle psicoanalisi”), non saprei bene che cosa risponderti. La prima mi sembra sbagliata oltre che vetero-ideologica (vuoi forse dire che la psicoanalisi è un’ideologia di ricambio del capitalismo? Diciamolo pure, così ci sentiremo quarant’anni di meno), mentre la seconda mi sembra lasciare il tempo che trova.

        Un saluto
        Gianni Guasto

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        • luigidelia

          Caro Guasto, se l’inconscio
          Caro Guasto, se l’inconscio non è un’opinione, tu hai sbagliato il mio cognome… chissà che vorrà dire… 🙂
          [leggerò con calma la tua elaborata risposta e ti risponderò a mia volta. Ora vado a passeggiare nella natura]

          Rispondi
        • luigidelia

          Caro Guasto, apprezzo molto
          Caro Guasto, apprezzo molto il tuo intento di ritornare su un piano di interlocuzione civile e di affrontare i punti da me sollevati, ma continuo a ritenere i tuoi argomenti ancora molto deboli. Vediamo perché.

          Primo punto: costo eccessivo della formazione analitica.
          Tu controbatti dicendo “La formazione costa quello che costa, perché richiede l’analisi personale […]. E l’analisi personale non può essere breve, né poco intensiva”. Lo vedi come slitti continuamente, caro Guasto?! Io ti porto il problema dei costi e tu rispondi sulla lunghezza ed intensità. Nulla vieta di pensare a modelli formativi eterni purché economici. Il concetto di sostenibilità è spesso inteso negli ambienti analitici come resistenza. Ma la psicoanalisi gioca a rimpiattino con la realtà su questo punto (come su altri) ed anche la tua risposta mi conferma che esiste un’elusione, un’area cieca che ignora la condizione dei formandi e garantisce quella dei formatori andando a creare implicitamente ed esplicitamente un modello verticistico fondato sull’economia.
          I costi della formazione di un analista sono inconciliabili con la vita sulla terra e quindi rappresentano una selezione implicita su base classista oppure costringono i candidati a prolungare ingiustificatamente i tempi per tale motivo. Se i didatti calmierassero (radicalmente) i costi delle analisi per i formandi le cose sarebbero diverse, ma non mi risulta che tra gli analisti esista una grande sensibilità a proposito… chissà come mai.

          Secondo punto: l’ingiustificabilità della frequenza alta delle sedute in psicoanalisi.
          Qui la tua lunga prolusione sulla tecnica analitica a mio parere tocca solo tangenzialmente il tema. La cosiddetta differenza tra psicoanalisi e psicoterapia (psicoanalitica e non solo) si basa sull’assunto, che anche tu riporti, che la maggiore frequenza garantirebbe un più approfondito incontro-scambio tra gli inconsci e, ne deduco, una migliore analisi del transfert. Io credo invece che questo impianto teorico-tecnico sia piuttosto datato e scricchiolante e che la ricerca sui fattori efficaci-efficienti in psicoterapia, seppure agli albori, cominci a dimostrare che questi specifici criteri, detti dagli stessi psicoanalisti come “estrinseci” siano tutto sommato archeologia e che esplorare le dimensioni di cui sopra richieda solo molta passione-motivazione da parte di entrambi e molta continuità nel tempo.
          Non ho trovato una specifica letteratura che mettesse a fuoco il fattore frequenza in relazione all’efficacia (ma forse non ho cercato abbastanza? Mah), casomai esiste molta letteratura che confronta durata ed efficacia, quello si, anche se pure sulla durata (irrealistica) delle psicoanalisi bisognerebbe aprire un dibattito.
          Certo è che Freud lavorava con pochissimi pazienti e per poche ore complessive (e per periodi brevi e brevissimi) e praticamente con una seduta al giorno (!) e quindi lui stesso per se stesso aveva ben chiaro il significato di “sostenibilità economica”….! Credo che la frequenza delle seduta sia dunque solo un retaggio inelaborato di una consuetudine degli analisti a far quadrare i propri conti e che le questioni riguardanti gli inconsci dialoganti e i transfert siano delle elegantissime e consolidate razionalizzazioni post hoc. La mia idea è che l’inconscio emerga a dispetto dei criteri estrinseci che vorrebbero gli psicoanalisti, altrimenti non si giustificherebbero nemmeno tutte le variazioni di setting già abbondantemente previste all’interno delle diverse psicoanalisi… che fate ancora guerre di religione tra chi affonda di più nell’inconscio tra chi usa il lettino e chi il vis-à-vis? Dai, su… voltiamo pagina.
          Invece, la consuetudine a frequentare così spesso il proprio analista (il suo studio, la sua casa-studio) più che a riprodurre la regolazione emotiva che ricorda il rapporto madre-bambino a me pare che riproduca un modello relazionale protesico di dipendenza e di familiarità che piuttosto farebbe pensare a dinamiche affiliative e di controllo. Non esiste alcuna ragione al mondo per la quale il mio inconscio non possa aspettare qualche giorno in più per interfacciarsi liberamente con quello del mio analista invece di doverlo fare quasi quotidianamente… A me pare che l’uso del differimento del bisogno e del desiderio sia una gran bella cosa anche per gli inconsci di analista e paziente….

          Per i punti successivi, coming soon….

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