di Anna Meldolesi, Il Corriere della Sera – La lettura, 15 giugno 2014
Se piangi guardando un film drammatico la colpa è dei neuroni specchio. Se ti intenerisci davanti al bacio di due innamorati, il merito è di queste cellule dal nome suggestivo. Se le risate e gli sbadigli ti contagiano, gira gira il meccanismo è sempre quello. L’idea di avere dentro al cervello dei piccoli strumenti capaci di riflettere ciò che provano gli altri, generando empatia, è semplice e potente. Finora ne abbiamo sentito parlare come della scoperta più affascinante delle neuroscienze degli ultimi vent’anni e ne siamo andati orgogliosi, perché è avvenuta in Italia. Ma c’è una pattuglia di ricercatori che la descrive invece come la scoperta più sopravvalutata della psicologia e intende demolirla.
The Myth of Mirror Neurons (Il mito dei neuroni specchio) è il titolo di un libro che uscirà in agosto negli Stati Uniti. Lo firma Gregory Hickok, neuroscienziato cognitivo dell’Università della California a Irvine. Ma a fare rumore è soprattutto il sostegno espresso a questo libro dallo psicologo e linguista Steven Pinker, probabilmente la penna più brillante delle neuroscienze: «Ogni tanto — sostiene — c’è qualche scoperta che esce dai laboratori e prende vita propria». Sembra offrire «una spiegazione per tutti i misteri, una conferma dei nostri desideri più profondi» e diventa un’esca irresistibile per giornalisti, studiosi di altre discipline, artisti, affabulatori. Pinker ricorda che in passato è accaduto con alcune idee della meccanica quantistica e della relatività, fraintese e trasformate in suggestioni. Ed è convinto che stia succedendo anche con i neuroni specchio, a cui vengono attribuite funzioni immaginifiche e mai sperimentalmente dimostrate.
I sostenitori più ardenti di queste cellule, dentro e fuori l’accademia, le hanno incaricate di spiegare quasi tutto: dall’orientamento sessuale all’amore per la musica, dal linguaggio alla costruzione della pace. Era il 1992 quando un gruppo dell’Università di Parma riferì di aver trovato nella corteccia premotoria dei macachi una nuova classe di cellule «sensibili al significato delle azioni». Questi neuroni avevano la sorprendente capacità di attivarsi non solo quando una scimmia svolgeva un certo atto motorio, come afferrare un oggetto, ma anche quando vedeva un altro esemplare compiere lo stesso gesto. Giacomo Rizzolatti e colleghi, perciò, hanno ipotizzato che funzionassero come dei simulatori di realtà virtuale, che replicavano all’interno del cervello ciò che accadeva al di fuori, decodificando il comportamento degli altri.
Nel frattempo questo campo di indagine è cresciuto fino a contare oltre 800 articoli scientifici, anche se ripetere sull’uomo gli esperimenti invasivi svolti sulle scimmie non è possibile. Bisogna accontentarsi di spiare dall’esterno l’attivazione delle aree cerebrali o sbirciare dentro con il permesso dei pazienti operati al cervello per altri motivi. Ancora prima di riuscire a dimostrare la loro esistenza nella specie umana, comunque, i neuroni specchio erano già diventati il nuovo baricentro della nostra umanità. Vilayanur Ramachandran, neuroscienziato famoso per il suo lavoro sugli arti fantasma degli amputati, ha pronosticato che «i neuroni specchio avrebbero trasformato la psicologia come il Dna aveva fatto con la biologia». Ha tenuto una conferenza Ted intitolata I neuroni che hanno plasmato la civiltà. Ha attribuito loro l’ipotetico «big bang cognitivo» che centomila anni fa ci avrebbe fatto compiere il salto di qualità in quanto specie che parla, inventa, trasmette la propria cultura.
Lo scienziato di origine indiana non è il solo. In molti si sono abbandonati a speculazioni tanto seducenti quanto spericolate, perché prescindono dai fatti accertati in laboratorio. Lo stesso Rizzolatti, che quest’anno ha vinto il prestigioso Brain Prize, si è detto meravigliato su Psichiatria online per l’entusiasmo di «media, psicoanalisti, sociologi e persone che di solito non sanno nemmeno cosa sia la neurofisiologia». I critici invitano a fermare questo circo e puntano il dito su alcune debolezze intrinseche della scienza dei neuroni specchio. Ritengono che l’attivazione di queste cellule potrebbe non essere la causa ma la conseguenza della comprensione delle azioni degli altri e ipotizzano il coinvolgimento di reti neurali complesse. Giudicano poco convincente anche la teoria secondo cui la rottura del sistema dei neuroni specchio spiegherebbe l’autismo. «Non c’è ancora una ricerca che dimostri che questi neuroni siano vitali per l’empatia umana, e ci sono delle ragioni per credere che l’empatia sia possibile anche senza di essi», ha sostenuto su Wired Christian Jarrett, il cui libro Great Myths of the Brain (I grandi miti del cervello) uscirà ad ottobre in Gran Bretagna. Possiamo anche chiamarli i «neuroni di Gandhi», come fa qualcuno, ma nei prossimi mesi saranno loro a far litigare gli scienziati.
SCOMODIAMO PURE IL VECCHIO FREUD PER UNO STATO PIÙ EQUILIBRATO
di Rainero Schembri*, politicamentecorretto.com, 16 giugno 2014
Il vecchio padre della psicoanalisi, Sigmund Freud, passato un po’ di moda ma molto citato dai contestatori degli anni sessanta, sosteneva che l’uomo può essere soddisfatto soltanto parzialmente, perché al principio del piacere si oppone il principio della realtà, cioè, la dura lotta per la sopravvivenza. In altri termini, per evolversi e progredire bisogna assolutamente fare delle rinunce e ciò comporta che la realtà condiziona pesantemente il piacere.
Per un principio di equità si dovrebbe supporre che avendo la natura imposto la rinuncia all’intera umanità, essa dovrebbe essere equamente distribuita tra tutti gli uomini. In questa maniera, infatti, il peso collettivo della rinuncia (cioè, dell’infelicità) diventerebbe sopportabile per tutti. Ovviamente le cose non stanno così. All’uomo, in genere, non interessa dividere la sofferenza universale ma solo di ridurre il più possibile la propria quota, anche se a danno degli altri.
E qui il discorso di Freud diventa politico. Compito di uno Stato sociale deve essere proprio quello di riequilibrare e redistribuire il carico di lavoro e sofferenze che l’umanità nel suo insieme deve sopportare per vivere o, in molti casi, sopravvivere. Ma quest’opera non può essere fatta solo con le leggi. Occorre anche una grande mobilitazione delle coscienze. Un sogno? Forse. Ma se restiamo in materia freudiana di ‘interpretazione dei sogni’ ci fa piacere credere che l’attuale crisi della società preluda alla rigenerazione di una grande forza sociale e socialista, capace di diffondere su larga scala il piacere di compiere delle rinunce per alleviare il peso di coloro che si trovano allo stremo.
http://www.politicamentecorretto.com/index.php?news=67612
LAZIO: GEMELLI ROMA, INCONTRO SUI DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE
di Redazione, adnkronos.com, 16 giugno 2014
Si parlerà di disturbi del comportamento alimentare (Dca) mercoledì 18 giugno al Policlinico Gemelli di Roma, in occasione della presentazione del volume ‘Corpo cibo affetti. Una concezione integrata del crescere‘. Il testo è a cura di Carla Busato Barbaglio, psicoanalista e presidente del Centro di psicoanalisi romano, e di Lucio Rinaldi, psichiatra dell’università Cattolica e responsabile dell’Area dei disturbi del comportamento alimentare-Day hospital di psichiatria del Gemelli.
Alla presentazione del libro – informa l’ospedale capitolino in una nota – prenderanno parte, oltre ai curatori, anche Franco Ferrarotti, professore emerito di sociologia all’università Sapienza, che svilupperà alcune riflessioni sui fenomeni sociologici relativamente all’alimentazione, alla relazione con il corpo e il cibo e ai fenomeni che partecipano e sottendono i disturbi del comportamento alimentare, e Angelo Macchia, psicoanalista e segretario scientifico del Centro di psicoanalisi romano, che partendo dai contributi presenti nel volume proporrà considerazioni intorno alla multidimensionalità dell’alimentazione e dei Dca. Seguirà un dibattito che vedrà coinvolti i diversi promotori dell’evento: il direttore della Scuola di specializzazione in psichiatria Luigi Janiri, il direttore della Scuola di specializzazione e dell’Ambulatorio di endocrinologia Alfredo Pontecorvi, il direttore del Servizio di consultazione psichiatrica e Day hospital di psichiatria Pietro Bria, il direttore del Centro della nutrizione umana e dell’Uo di dietetica del Gemelli Giacinto Miggiano, a dimostrare come la ricerca e la cura psicoanalitica siano integrate con l’approccio medico.
“Corpo cibo affetti – spiega Rinaldi – è un testo multidisciplinare che affronta il tema del disturbo alimentare, ma costituisce anche un’esperienza clinica originale e innovativa del Policlinico Gemelli, che incontra e costruisce modelli di intervento e di ricerca avanzati collaborando con altre istituzioni, in un dialogo terapeutico tra psicoanalisi, neuroscienze, neurobiologia, creando una rete sul territorio ma anche una rete di pensiero in grado di dare senso al tema dell’alimentazione e ai disturbi del comportamento alimentare”. L’Area dei Dca del Gemelli svolge attività multidisciplinare e multidipartimentale. Offre ai pazienti percorsi personalizzati per la gestione e il trattamento di disturbi quali anoressia e bulimia nervosa, Bionge eating disorder, obesità e disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati, che comprendono visite di valutazione clinica e psicodiagnostica, consulenze medico-internistiche, specialistiche, dietologiche e metaboliche, gruppi di trattamento riabilitativo breve e di psicoterapia e sostegno psicologico.
ŽIŽEK CI SPIEGA PERCHÉ L’IDIOTA FORREST GUMP È DIVENTATO MILIARDARIO. Il riso di Bergson, il motto di spirito di Freud, l’umorismo di Pirandello, sono tutti stati che hanno le loro radici nella natura del contrario, quel contrario capace di…
di Mary Barbara Tolusso, ilpiccolo.gelocal.it, 16 giugno 2014
Il riso di Bergson, il motto di spirito di Freud, l’umorismo di Pirandello, sono tutti stati che hanno le loro radici nella natura del contrario, quel contrario capace di evocare un paradosso che susciterà il sorriso. Slavoj Žižek non è nuovo a tali registri, anzi battezzò il suo primo libro con uno stile provocatorio, “The sublime object of ideology”, allora al centro della questione c’erano le posture accademiche. E poi via via la sua fortuna è da sempre legata all’arguzia di mettere insieme tradizione filosofica e cultura popolare, non disdegnando titoli come “Il trash sublime” o mescolando Hitchcock con Lacan.
Insomma una popstar della filosofia che ora ci delizia con una sorta di manuale di umorismo postmoderno, un prontuario del politicamente scorretto e di critica dell’ideologia. Il titolo è semplice, chiaro, diretto: “107 storielle di Žižek” (Ponte alle Grazie, pag. 176, euro 13,00). La realtà delle finzioni, Marx, Freud, il popolo, i politici, il potere, il sesso. Ma soprattutto Lacan e Hegel, il sapere assoluto che fagocita ogni cosa e la triade hegeliana al servizio di esempi esilaranti.
Perché le 107 storielle servono a spiegarci una volta di più, e forse anche meglio di tanti manuali, il conflitto tra la forza profonda della vita e le sue cristallizzazioni. E lo fa a suo modo, Žižek, proponendoci sempre uno spiazzamento rispetto al tema centrale. Al lettore spetta la capacità di cogliere il rovescio comico e grottesco di ogni teoria o situazione reale. Così per esempio molte storielle comiche sono sostenute proprio dalla triade dialettica, soprattutto le barzellette che implicano sempre il triangolo della buona notizia prima e della cattiva poi, per essere infine sintetizzate in un’ulteriore buona novità.
Per esempio la n.32, quella del marito che si avvicina al medico per sapere l’esito dell’operazione di sua moglie. Il medico esordisce dicendo che la moglie è sopravvissuta (notizia buona), poi aggiunge che a causa di alcune complicanze non potrà mai più praticare sesso (notizia cattiva) per concludere infine: «Non si preoccupi, stavo solo scherzando! È tutto ok – sua moglie è morta durante l’intervento». Ecco un esempio comico particolarmente crudele che illustra in maniera efficace la triade filosofica implicata nella “conciliazione” finale (sintesi).
Insomma intorno all’umorismo žižekiano ruotano un bel po’ di concetti che vogliono grattare via parecchio formalismo, sia sociale che politico. E il gigante di Lubiana non risparmia nessuno: le credenze presupposte, il femminismo, la prostituzione dei quartieri alti, la negazione della negazione, il socialismo, la funzione della ripetizione, la necessità dello sguardo “altro”, il bisogno di un punto di identificazione esterno. Freddure e motti amati da Derrida o da Lacan e a cui Žižek aggiunge le sue personalissime varianti. “Verità” esaltate nei loro aspetti bizzarri, raccontini che talvolta sfiorano il luogo comune (come i modelli sessuali presi a pretesto, dalla potenza del pene alla filosofia delle corna), il tutto amalgamato a giochi concettuali pe. r nulla comuni e che d’un tratto ci mostrano la vita per com’è: irrimediabilmente soffocata dalla forma, incarnata dall’ideologia, dalle convenzioni a qualsiasi livello, tra marito e moglie come tra Europa e America.
D’altra parte Žižek è fatto così, una sorta di prestigiatore della contaminazione non solo tra le diverse discipline, ma anche tra le forme di pensiero, capace di passare dalla più consolante linearità a un ragionamento corretto sostenuto dalla contraddizione. Se fosse un romanziere potrebbe essere Kafka con una shakerata di Bukowski. Se fosse un poeta sicuramente Rimbaud.
C’è sempre il “Grande Altro”, come si esprime lacanianamente Žižek, a fare da supervisore con i soggetti sempre a strutturarsi fuori e dentro il potere, ma soprattutto dentro. Merita a tal proposito la n. 6 dove c’è Gesù che gioca a golf e, mentre cammina sulle acque per raccogliere tutte le palline, si crede pure Tiger Woods, il grande golfista americano. «È così che funziona l’identificazione fantasmatica», scrive Žižek: «nessuno, nemmeno Dio stesso, è direttamente ciò che è; tutti abbiamo bisogno di un punto di identificazione esterno e decentrato».
Una bella fregatura, a quanto pare, perché se siamo ricattabili questo dipende proprio dal fatto di crederci ciò che non siamo. In che altro modo potrebbe funzionare la pubblicità? Queste divertenti storielle indicano la logica sottostante a ogni inganno, ovvero: «sei libero di decidere, a patto che tu faccia la scelta giusta». E dentro il regno della manipolazione ci siamo tutti, nessuno escluso, il filosofo ce lo racconta anche attraverso il cinema.
Sono note le letture cinematografiche di Žižek, soprattutto del suo regista preferito, Hitchcock, indubbiamente il numero uno nel mettere in scena tramite i suoi misteriosi personaggi le inquietanti sfaccettature dell’umano (basti un film: “La finestra sul cortile”). Musica, cinema, filosofia, storia sono coniugati dall’autore come un percorso multimediale, con tutte le sue varianti, più o meno come funziona un’interfaccia: “clicca qui”, “apri il link” “ascolta il testo” e ciò che emerge è il cosiddetto inconscio sociale, l’aspetto oscuro delle ideologie che lo attraversano. Žižek ci fa cliccare i link di Lacan o Hegel per mostrarceli in soluzione con episodi umoristici. Ci trovate Clinton, Lenin, Gesù, Brežnev e tanti altri pronti a interagire umoristicamente con la Storia.
Barzellette divertenti, certo, sempre che la vostra soglia si spinga parecchio più su di quelle di Totti o Berlusconi. Più che altro quel che stupisce è che l’humor è pieno, ma privo di leggerezza. D’altra parte Žižek non ha mai avuto paura di “soffermarsi sul negativo” dell’ideologia contemporanea, basti ricordare la sua lettura di Forrest Gump, un idiota che grazie alla sua incapacità di capire diventa miliardario mentre la sua ragazza ribelle e impegnata muore. Come a dire che ormai l’ideologia non ha più paura, non deve più nascondersi e mostra il suo segreto: la sua efficacia implica la stupidità dei suoi soggetti. Una lettura opportuna, certo, ricordandoci che il rigore del pensiero non equivale alla leggerezza dell’arte. E anche le storielle di Žižek sono divertenti come lo è la vicenda di Forrest, ma prive di piume.
LA BRITISH LIBRARY METTE ONLINE I TESORI LETTERARI DI WILLIAM BLAKE E OSCAR WILDE. Sono consultabili gratuitamente 1200 tra libri, manoscritti, stampe e documenti del Romanticismo inglese e dell’età vittorianadi Richard Newbury, lastampa.it, 16 giugno 2014
“Mai prestare i libri”, confidò argutamente Oscar Wilde nella sua lussuola biblioteca di Chelsea. “Guardate, sono tutti libri presi a prestito”. Adesso, però, nel mondo virtuale degli archivi online ad accesso libero tutti possiamo diventare predatori di cultura e possedere sui nostri schermi le più belle gallerie d’arte e librerie fornite delle più arcane specializzazioni. Non dovremo più elemosinare, prendere in prestito o rubare per condividere quello che era fino a poco fa l’eredità di pochi e noti privilegiati.
Il processo era iniziato con il primo direttore del British Museum e della Biblioteca, che fece costruire la prima grande sala di lettura con la volta a cupola liberamente accessibile a tutti; non ultimi Marx e Mazzini. Questo fondatore, che nel 1856 fece anche passare in Parlamento la prima legge sul copyright, era anch’egli un rivoluzionario in esilio, condannato a morte in contumacia – ricevette il conto del boia – Sir Anthony Panizzi, “persona gratissima” in Inghilterra.
Ora con la grande nuova British Library a St Pancras che mette online, ad esempio, 1200 fotografie, manoscritti, stampe e immagini del Romanticismo inglese e dell’epoca vittoriana, possiamo entrare con maggior empatia nei mondi dove gli scrittori sono nati e hanno vissuto e che li hanno influenzati.
Come scrive EP Hartley nel suo romanzo L’età incerta, a proposito di quel periodo di innocenza perduta prima dello spartiacque della Prima guerra mondiale: “Il passato è un paese straniero. Lì tutto si svolge in modo diverso”. Riusciamo al massimo a immaginare la vita dei nostri nonni, ma da quel punto il passato si fonde in una miscela confusa di vestiti, usanze sociali e abitudini incomprensibili.
Si aggiunga che oggi viviamo in un’epoca in continuo divenire, dove la Rivoluzione informatica cambia prospettiva alle nostre vite, ai nostri mezzi di sussistenza e alle nostre aspettative. La legge di Moore, secondo la quale le prestazioni dei processori raddoppiano ogni 18 mesi, dimezzandosi per volume e costi, ci sta portando in un territorio inesplorato per quanto riguarda la nostra intelligenza e utilità.
Ne L’importanza di chiamarsi Ernesto, Lady Bracknell, personaggio ispirato alla madre dell’amante di Wilde, Lord Alfred Douglas , avrebbe saputo cosa rispondere in una situazione così rivoluzionaria; come quando interroga John Worthing per stabilirne l’idoneità come pretendente per la figlia Gwendolyn:
“Ora parliamo di cose serie. Fuma?”
“Beh sì, devo ammettere che fumo, Lady Bracknell”.
“Lieta di sentirglielo dire. Un uomo deve sempre avere una qualche occupazione. Ci sono già troppi fannulloni in giro per Londra”.
“Sono sempre stata dell’opinione che un uomo che intenda sposarsi debba o sapere tutto o non sapere niente”.
“Io non so niente Lady Bracknell”.
“Sono felice di sentirglielo dire. L’ignoranza è come un delicato frutto esotico: come lo si tocca il suo fascino è perduto. L’educazione è molto sopravvalutata e può sfociare in atti di violenza in Grosvenor Square E nei peggiori eccessi della Rivoluzione francese. Ritengo lei sappia a cosa abbia condotto quel movimento”.
Possiamo trovare il pronostico di May Lady Bracknell dannoso o profetico, ma lo studente del 21° secolo innanzitutto dev’essere a conoscenza della realtà sociale che Wilde mette alla berlina.
Ciò che il lettore odierno saprà per certo in quest’era di identità sessuali trasgressive è che Wilde fu incarcerato per la sua omosessualità. Meno noto è che fu il primo cui venne applicata una nuova legge, mentre la cruda realtà si trova nell’archivio, la prima pagina illustrata del popolare tabloid Police News.
I brevi saggi nell’archivio online della British Library includono il tema della carica sessuale del romanzo gotico attraverso il Frankenstein di Mary Shelley e il romanzo satirico L’abbazia di Northanger di Jane Austen, fino a La donna in bianco di Wilkie Collins, Dracula di Bram Stoker, Il dottor Jekyll e il signor Hyde di Robert Louis Stevenson e naturalmente Il ritratto di Dorian Gray di Oscar Wilde.
Scritto, quest’ultimo proprio come Sigmund Freud nel tentativo di catturare il subconscio e intrappolare come una farfalla l’”io” scisso.
Dorian Gray uscì nel 1890 sulla rivista letteraria americana Lippincott’s, che si trova nell’archivio online della British Library ed evoca un’epoca diversa, anche se il romanzo sembra fatto apposta per la tv. Beninteso l’archivio offre sempre il contesto storico in cui possiamo inquadrare l’arte e la letteratura, prefigurando in questo caso le idee di Freud sull’Io e l’Es.
Allo stesso modo il Cubismo preludeva alla Teoria della relatività di Einstein sullo spazio e il tempo.
Ne L’importanza di chiamarsi Ernesto per Miss Prism, l’istitutrice di Cecily Cardew, l’autore di un romanzo in tre volumi “di rivoltante sentimentalismo” [Lady Bracknell], “il buono trionfava e il cattivo finiva male. Ecco a cosa serve la narrativa”.
Per il narratore de Il ritratto di Dorian Gray, “Nel mondo reale i malvagi non sono puniti, né i buoni ricompensati. Il successo arride ai forti, il fallimento tocca ai deboli. Ecco tutto”. Di questo patto faustiano, non con il Diavolo ma con gli oscuri desideri del proprio inconscio e i piaceri estetici proibiti, Wilde dice nella prefazione:” Non ci sono libri morali o immorali. I libri sono scritti bene o scritti male. Questo è quanto”.
Wilde presenta la visione preveggente di un mondo che forse riconosciamo come nostro e del quale illustra e mette in luce la difficile interazione tra etica ed estetica, arte e realtà e “il terribile piacere di una doppia vita”.
In altre parole, ci avverte che tutta l’arte e la letteratura che possiamo scaricare non necessariamente ci eleverà moralmente. Potrebbe solo renderci criminali più colti.
Traduzione di Carla Reschia
MITOLOGIA E PSICOANALISI (IL LABIRINTO DI CNOSSO E TESEO)
di Apostolos Apostolou, ilgiornaledelfriuli.net, 17 giugno 2014
E’ un fatto che la figura mitologica è assolutamente al centro della psicanalisi. Didier Anzieu ha esaminato in maniera sistematica la mitologia greca ed è giunto alla conclusione che circa un terzo di essa gira intorno all’allegoria edipica. Robert Graves sosteneva che il primo sostenne che “la mitologia greca, nel suo contenuto, non era più misteriosa dei manifesti elettorali di oggi”. (Robert Graves nel suo saggio I miti greci è riuscito a rianimare questa materia ormai inerte, restituendocela con tutto il suo splendore, il suo senso. Secondo Robert Graves ci sono molti sono i miti che ci hanno suggestionato nel corso del tempo e della nostra educazione e cultura: Il Ratto di Persefone, Apollo e Dafne, Orfeo ed Euridice, il mito di Narciso e il mito di Giacinto e Zefiro “narrati da Ovidio nelle Metamofosi”, Dedalo ed Icaro, il mito di Fetonte e il carro del Sole, Teseo e il Minotauro, il Vello d’oro di Giasone, e numerosi altri che sarebbe troppo lungo elencare.) E C. Jung scriveva: “Non si può certo supporre che il mito o il mistero siano stati coscientemente inventati per qualche fine: tutto fa pensare piuttosto che essi rappresentino un involontario riconoscimento di una precondizione psichica inconscia”. E fatto che la mitologia greca ha fatto nascere molte nozioni importanti della psicoanalisi (per esempio l’allegoria edipica, la figura di Narciso, ecc). Secondo C. Jung : «Simboli nefasti sono la strega, il drago – ogni animale che divori o avvinghi, come un grosso pesce o il serpente – […]. Quest’elenco non pretende di essere esaustivo; esso si limita a indicare le caratteristiche essenziali dell’‟archetipo della madre”». Pertanto l’ermeneutica del mito archetipico il labirinto di Cnosso e il caso di Teseo potrebbe funzionare con l’ universalità dinamica del simbolo, per vedere nella narrazione con linguaggio figurativo del riferimento auto trascendente del Ego (Io). Il Labirinto di Cnosso è un leggendario labirinto, che secondo la mitologia greca fu fatto costruire dal Re Minosse sull’isola di Creta per rinchiudervi il mostruoso Minotauro, nato dall’unione della moglie del re, Pasifae, con un toro. Era un intrico di strade, stanze e gallerie, costruito dal geniale Dedalo con il figlio Icaro, i quali, quando ne terminarono la costruzione, vi si trovarono prigionieri. Dedalo costruì delle ali, che appiccicò con la cera alle loro spalle, ed entrambi ne uscirono volando. Quando Androgeo, figlio di Minosse, mori ucciso da alcuni ateniesi infuriati perché aveva vinto troppo ai loro giochi disonorandoli, Minosse decise, per vendicarsi, che la città di Atene, sottomessa allora a Creta, doveva inviare ogni nove anni (o ogni anno) sette fanciulli e sette fanciulle ateniesi da offrire in pasto al Minotauro, che si cibava di carne umana. Questo avvenne finché Tèseo, eroe figlio del re ateniese Ègeo, si offrì come giovane da offrire in pasto al Minotauro per ucciderlo. Quando Teseo arrivò a Creta, Arianna, la figlia di Minosse e Pasifae, si innamorò di lui e lo aiutò a ritrovare la via d’uscita dal labirinto dandogli una matassa di filo che, srotolata, gli avrebbe permesso di seguire a ritroso le proprie tracce. Infatti, Teseo uccise il Minotauro e guidò gli altri ragazzi ateniesi fuori dal labirinto, grazie al filo che Arianna gli aveva dato e che lui aveva lasciato scorrere lungo il percorso (Wikipedia). Minotauro è il desiderio irrazionale che si compie con la soddisfazione del bisogno fisico. Ma anche è l’intederminismo ontico, che le fugati emersioni dell’ inconscio introducono come definizione del soggetto, non cessa di isolare nel soggetto un cuore, o come diceva Freud “Kern” di non- senso. L’inconscio è costituito da impulsi e fantasie che rappresentano desideri incompiuti, vissuti indelebili cacciati dalla coscienza o esperienze infantili che non sono mai giunte alla coscienza.
Molti hanno dato una spiegazione della mitologia greca che si muove negli archetipi. La parola “archetipo” significa “immagine originaria”, “modello originario” (dal greco archè, origine, principio, e typos, modello, marchio, esemplare) e si contrappone a “stereotipo” (in grecostereos significa solido, rigido, tridimensionale) che significa “copia”, “duplicazione”, “riproduzione”. Parlando di archetipi e dei loro simboli, Jung si riferiva ai “contenuti dell’‟inconscio collettivo, […] tipi arcaici o meglio ancora primigeni, cioè immagini universali presenti fin dai tempi remoti”. Se si tiene conto della “gestione delle informazioni” compiuta dal patriarcato negli ultimi 3500 anni, le tradizioni mitologiche e religiose non ci permettono di vedere completamente le nostre immagini archetipiche più antiche. Di conseguenza, quando si discute degli sviluppi psicologici nelle culture patriarcali come la nostra, sarebbe più corretto parlare precisamente di “archetipi patriarcali”, “piuttosto che genericamente di “archetipi”. E come scrivono Marta Superdi e Cristina Butti “ Jung parla del Minotauro come dell’archetipo dell’immagine materna divorante e del percorso dell’anima verso l’equilibrio del proprio sé: esso è nella maggior parte dei casi espressione della brutalità, dell’istintualità irrazionale che non conosce morale , della violenza al di là del bene e del male”.
Il nome Teseo condivide la radice con la parola “thesmos” (in greco θεσμός), il termine greco che sta per istituzione. Fu l’artefice del sinecismo (synoikismos, abitare insieme e da qui proviene la città) – l’unificazione politica dell’Attica rappresentata dai suoi viaggi e dalle sue fatiche – sotto la guida di Atene. Una volta riconosciuto come re unificatore, Teseo fece costruire sull’Acropoli un palazzo simile a quello di Micene. Pausania narra che, in seguito al synoikismos, Teseo istituì il culto di Afrodite Pandemos (Afrodite di tutto il popolo) e di Peito, che si celebrava sul lato meridionale dell’Acropoli. Con interpretazioni psicoanalitiche Teseo esprime la referenzialità autotrascendente, o possiamo dire ciò che trascende l’insistenza nell’individuocentrismo. Anche Il termine “labirinto” indicava una sola entrata e un unico vicolo cieco in fondo al percorso, di forma quadrata o più spesso circolare. Il labirinto in generale può essere visto come metafora della ricostituzione dell’ordine perduto, e di conseguenza come metafora del pensiero umano, della psiche e della della sua struttura, per l’appunto, labirintica. Nel dialogo socratico Eutidemo, Platone fa parlare Socrate descrivendo la struttura labirintica del dialogo: «Giunti all’arte di regnare ed esaminandola a fondo, per vedere se fosse quella a offrire e a produrre la felicità, caduti allora come in un labirinto, mentre credevamo di essere ormai alla fine risultò che eravamo ritornati come all’inizio della ricerca, e avevamo bisogno della stessa cosa che ci occorreva quando avevamo incominciato a cercare.» Il labirinto è anche un simbolo del mondo, i cui schemi e la cui logica sono oscuri e incomprensibili all’uomo, anche è l’ indirizzo dell’ anima, e secondo Aristotele è stato la causa principale e fondamentale della nascita della filosofia.
BOLOGNINI: “AVETE PAURA? BUON SEGNO”. Gli studenti sul lettino dello psicanalista. Ansie e paure che si sfogano nei social e su Facebook, raccontati da Federico, ultimo anno all’istituto tecnico Belluzzi, Virginia, iscritta al serale del Manfredi, e poi Sara, Martina, Giorgia…
di Ilaria Venturi, bologna.repubblica.it, 18 giugno 2014
MATURANDI sul lettino dello psicanalista Stefano Bolognini. Ansie e paure che si sfogano nei social e su Facebook, raccontati da Federico, ultimo anno all’istituto tecnico Belluzzi, Virginia, iscritta al serale del Manfredi, e poi Sara, Martina, Giorgia… Martina, maturanda al liceo Fermi, per esempio ha già deciso che si iscriverà a Psicologia. Mentre Giorgia, “un po’ agitata ma non troppo” per la prova che sosterrà oggi al liceo classico Galvani. E’ Stefano Bolognini, lo psicoanalista bolognese primo italiano scelto per guidare la Società psicoanalitica internazionale, ad analizzare gli stati d’animo di chi affronta oggi la maturità. Un dialogo a distanza, che non entra nelle vite personali dei ragazzi. Solo per raccontare e dare una lettura del rito di passaggio dal mondo protetto al mare aperto, della grande prova che ha segnato un po’ tutti e che nessuno dimentica.
Professore, nei gruppi Facebook delle classi quinte, in Twitter e WhatsApp il mantra ricorrente degli ultimi giorni é: “nonsoniente” scritto d’un fiato, con o senza hashtag. Che dire?
“Qui prende il sopravvento la parte sottostante, quella più primitiva che pensa in termini di tutto o niente, interruttore on oppure off: o so tutto o non so niente. E’ l’espressione di una gran fifa, assolutamente normale”.
Federico in Facebook irride l’hashtag #maturità 2014, si chiede: “Ma quando finisce questo periodo?”, sogna di studiare Statistica all’Università. E dell’esame dice: “Si chiude un ciclo, è un passo forte, in fondo è l’esame più importante che faccio. Può darsi che si diventi più maturi”.
“Comunque sia, anche se è cambiato nei decenni, l’esame di maturità mantiene quel carattere rituale che segna la fine della fase della vita infantile, regolata e strutturata, e il passaggio a una fase di autodeterminazione, più libera, ma meno tutelata. E in questo senso Federico ha ragione. Fa capire tra le righe che il fatto in sè di affrontare l’esame è un atto iniziatico: è un mettersi alla prova, un atto di coraggio. E’ affrontare il leone nella foresta. Tutti gli esami nell’inconscio mettono paura, risultano essere terribili, c’è una parte di noi che li vede come una montagna insormontabile, cosa che poi non è. Affrontare questa prova ha un significato maturativo in sé”.
Martina vede la maturità come una tappa: “Non è una fine né un inizio, dopo mi aspetto anni migliori, farò qualcosa che mi piace di più”. Per Giorgia è “solo un passaggio, una cosa relativa: la vita comincia dopo”.
“Sono pensieri sensati che vengono dalla parte più adulta e razionale dell’io. Le ragazze dimostrano di essere già mature. Ma per uno psicoanalista questa è solo una parte del discorso. C’è altro nel profondo. L’inconscio usa l’esame di maturità alla lettera, come dovesse essere una prova di maturità della persona. In realtà la scuola valuta il livello di preparazione, non se siamo maturi come persone. Questo ultimo aspetto lo ritroviamo da adulti, nei sogni. L’incubo di non aver fatto l’esame, sia esso di maturità o di laurea, e di venire scoperti è comune a tanti, molti lo hanno fatto”.
Ma qui l’esame scolastico non c’entra più nulla.
“Infatti. Le rappresentazioni della nostra maturità non hanno più tanto a che fare con un ricordo dell’esame, ma come simbolo di una prova che rimane per tutta la vita come una prova di maturità. Nel tormentone onirico le persone già adulte si misurano con la paura di non essere cresciute veramente. Sognare la maturità riguarda allora il nostro sentirci adeguati alla vita”.
Virginia ammette: “Ho più l’ansia di fare l’orale davanti a prof che non conosco”. Un timore ricorrente. Anche Giorgia dice: “Ho paura di bloccarmi all’orale”.
“Il leggendario commissario esterno è lo spauracchio della maturità: rappresenta il nemico che non conosci, l’incognita. Ed evoca una immagine: la lotta di posizione tra gli studenti e i docenti, che ricorda un po’ quella tra il cobra e la mangusta. È normale voler conoscere i punti deboli, le abitudini del tuo avversario”.
Al punto che via web le informazioni sui commissari esterni sono le più condivise.
“Questo è il tam tam dei social, gli studenti sono abilissimi nell’organizzare strumenti di difesa di fronte al nemico. Io la definirei una deliziosa opera di intelligence”.
Virginia aggiunge anche: “Questo esame non è niente, mi serve per un diploma, non ti cambia la vita”.
“Non so se è vero, io parlo in generale. Magari sì, in questo caso. Ma spesso va valutata la possibilità che si mettano in atto meccanismi di difesa per tenere a distanza le paure”.
Girando tra i social, molti dubbi, domande esistenziali. Aurora twitta: “La domanda è: gli anni più belli sono finiti o stanno per cominciare?”.
“Sono vere tutt’e due le cose, cambia solo il genere di bellezza. Con l’esame di maturità si formalizza la fine dell’infanzia e della prima giovinezza, si esce da un regime di tutela organizzata e si entra nella fase dei giovani adulti. Niente è più come prima. È sia una perdita che un guadagno. E comunque vada, si cresce. In bocca al lupo”.
ZWEIG-MANIA TUTTI PAZZI PER L’EBREO ERRANTE. Tra ristampe e omaggi del cinema, l’autore è al centro di un revival
di Franco Marcoaldi, la Repubblica, 18 giugno 2014
Per saggiare il grado di interesse che sta nuovamente suscitando l’opera di Stefan Zweig, basta entrare in libreria: vi attende un intero scaffale di libri pubblicati da editori i più diversi – Adelphi, Castelvecchi, Einaudi, Elliot, Garzanti, Frassinelli, Donzelli, Passigli, Bompiani, Newton Compton, Mondadori. Si farebbe prima a nominare chi oggi non lo abbia in catalogo. Con Zweig, del resto, c’è solo l’imbarazzo della scelta. Lo scrittore viennese è di una prolificità naturale: almeno in questo figlio più dell’Ottocento che del Novecento, verrebbe da dire.
Il suo idolo giovanile era stato Hugo von Hoffmansthal, ma l’impasse espressiva incarnata nella geniale Lettera di Lord Chandos sembra non riguardarlo. Zweig crede fermamente nel potere benefico della parola letteraria e difatti la sperimenta in tutte le sue possibili forme: è poeta, traduttore, novelliere, drammaturgo, biografo, librettista, conferenziere. Sino a raggiungere, negli anni Venti, una fama universale sconosciuta a qualunque altro scrittore europeo.
Ma con l’avvento di Hitler, essendo lui ebreo, i suoi libri finiscono al rogo e vengono banditi in tutti i paesi vassalli della Germania nazista. Nel 1942, la tragica morte per suicidio in Brasile, dove si era esiliato con lo spirito affranto di chi «segue da vivo il suo funerale», aiuta l’oblio: per lunghi anni la sua figura resterà sotto traccia.
Zweig era troppo legato «al mondo di ieri», titolo di quelle sue magnifiche memorie in cui inneggiava «all’età d’oro della sicurezza» tramontata con la Prima guerra mondiale. Anche le sue novelle parevano fuori luogo in un’epoca di sperimentalismi e neoavanguardie. E da ultimo ci pensarono alcuni esimi studiosi – come il caposcuola della germanistica italiana, Ladislao Mittner – a liquidarlo come un «superficialissimo divulgatore».
Ciò detto, almeno da noi, e per fortuna, l’opera di Zweig non è mai uscita davvero di scena: nel corso del tempo, schiere di lettori gli sono comunque rimaste fedeli. Ma ora si assiste a qualcosa di diverso: a una rinnovata e diffusa passione, che supera qualunque frontiera. E investe ad esempio quel mondo anglosassone dove in passato Zweig ebbe una fortuna più circoscritta. Al punto che il New York Times parla di una vera e propria “Zweigmania”: come si evince da un bell’articolo di Larry Rother che enumera gli innumerevoli segnali di questa renaissance e ne ricerca le ragioni più profonde.
Una mano l’avrà data anche il film di Wes Anderson Grand Budapest Hotel, che si aggiunge a una lunghissima serie di pellicole ispirate ai libri di Zweig, ivi incluse quelle di registi come Max Ophüls e Roberto Rossellini. Poi c’è la pubblicazione delle lettere, nuove edizioni delle sue opere e l’uscita di saggi e romanzi (come quelli di George Prochnik e della francese Laurent Seksik) incentrati sull’ultima, dolorosa stagione della sua vita.
L’articolo di Rother, una vera miniera di informazioni, offre una disamina attenta delle possibili ragioni di questa Zweigmania: cantore di un mondo scomparso, il grande viennese esercita il fascino di chi ne è stato protagonista e vittima al medesimo tempo. L’amicizia con Sigmund Freud lo aiuterà a trasferire sulla pagina letteraria i moti più oscuri della psiche. I suoi racconti, tradizionali nella struttura, spesso si rivelano imprevedibili nel delineare le traiettorie dei personaggi. Per non parlare, infine, del peso morale assunto da questo «apostolo del pacifismo, della tolleranza e dell’amicizia». E qui viene in soccorso la biografia, appena uscita per Castelvecchi (traduzione di Ilenia Gradante), dedicata a Romain Rolland: «musicista per genio, poeta per inclinazione, storico per necessità». E un vero e proprio maestro per Zweig.
Capace di sostenere l’indifferenza ultradecennale del mondo circostante, salvo ottenere una fama tardiva e improvvisa, Rolland persegue con testarda tenacia la sua idea pacifista fondata sul ritorno alla tradizione del grande umanesimo europeo. A fronte del fanatismo di massa, altro non resta che il richiamo all’autorità suprema della coscienza individuale. E la concreta testimonianza della fratellanza universale. Zweig si farà convinto paladino della stessa battaglia ideale, a dispetto degli insorgenti totalitarismi e della bestia nera del nazionalismo, che continuano imperterriti il loro cammino. D’altronde, nelle sue originalissime biografie (da Balzac a Maria Antonietta; da Montaigne a Fouché), veri e propri scandagli dell’anima umana, Zweig non va mai in cerca dell’eroe vincente. L’eroismo che gli interessa è di tutt’altra lega e rimanda al coraggio morale («l’unico eroismo di questo mondo che non esiga vittime estranee»). Più in generale, lo scrittore austriaco prenderà sempre, e naturalmente, le parti del vinto, in cerca di quella paradossale superiorità spirituale insita nella sconfitta. Anche nella narrativa procede allo stesso, identico modo: «Nelle mie novelle fu sempre chi cede al destino ad attirarmi».
Chiunque abbia letto Amok, La novella degli scacchi, Lettera di una sconosciuta o i quattro racconti di Una notte fantastica sa bene che cosa Zweig intenda quando afferma che «per quanto il cammino sembri deviare dai nostri desideri in modo bizzarro e assurdo, esso finisce per condurci sempre alla nostra meta invisibile».
È ciò che accade nelle «ore stellari », in quei rari Momenti fatali(Adelphi) in cui la vita ci mette davanti a una stretta decisiva. E intraprendere o meno l’azione a cui siamo chiamati, significa non soltanto modificare il corso della propria esistenza, ma in certi casi quello dell’intera umanità. Zweig ce lo racconta in “quattordici miniature storiche” relative a personaggi famosi e non: da Dostoevskij al creatore della Marsigliese; da Händel al generale Grouchy, l’involontario protagonista della catastrofe napoleonica di Waterloo.
Chi, come Zweig, aveva patito il prezzo di quella irresolutezza in cui si era rispecchiato scrivendo la biografia su Erasmo, va perennemente in cerca del nodo gordiano da recidere con nettezza. Ma non si può scegliere il proprio daimon. Al resto, ci penseranno le contingenze storiche: inducendo il viennese a una resa definitiva. Da sempre soggetto a ricorrenti depressioni, una volta giunto in Brasile, Zweig non trova più nemmeno il conforto del lavoro. Come scrive nella sua ultima lettera: «Per convincere bisogna essere convinti». E quella convinzione interiore, ormai, gli è venuta a mancare.
http://rassegnastampapagineculturali.wordpress.com/2014/06/18/mercoledi-18-giugno-2014/
(Fonte http://rassegnaflp.wordpress.com)
0 commenti