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Dispercezioni

7 Lug 14

A cura di Luigi D'Elia

(Articolo apparso su "Corpo, Riflessione, Immagine", a cura di Simonetta Putti, Ferdinando Testa, Alpes Italia, 2011. Per gentile concessione dell'Editore.)

 

40 anni fa, l’accelerazione della storia
 
Nella Genesi la creazione dell’uomo è “a immagine e somiglianza” divina. Volendo leggere il mito radicalmente nel qui ed ora, essere “a immagine e somiglianza” divina significa che in ognuno di noi esiste un seme divino che si compie o non si compie. In termini psicologici, stiamo parlando del nostro processo di individuazione, quello che ci permette di andare verso noi stessi, divenire noi stessi, partorire noi stessi.
Oggi questa impresa identificativa e creatrice è divenuta sempre più ardua perché l’immagine divina in noi – il Dio che noi siamo – s’è confusa e dispersa in altre mille immagini, quelle appartenenti alla società dello spettacolo (Debord) in cui viviamo. L’immagine divina impressa in noi si è trasformata in un’immagine fluttuante frutto di una moltiplicazione di segni (Baudrillard) fuori controllo i cui effetti dispercettivi sono a loro volta conseguenza dell’intorbidimento che s’è prodotto tra verità a verosimiglianza e, più spesso, tra verità ed inganno.
 
Molti i tentativi di tratteggiare il profilo della nostra contemporaneità, tutti fatalmente parziali. Impossibile tenere assieme tutto, per cui mi riferirò qui a pochi filoni di analisi sociale, quelli che mi sono sembrati i più efficaci. Libero ognuno di rileggere quanto dico inforcando altre lenti. Testi quali: La Società dello Spettacolo (1967) di Guy Debord, l’opera di Jean Baudrillard (il primo periodo), gli studi genealogici di Michael Foucault sul liberismo e neo-liberismo della Nascita della Biopolitica (1979). Autori più o meno tutti coevi, i quali rappresentano degli spaccati della nostra contemporaneità.
Ma al di là della vitalità e attualità di queste istantanee antropologiche, diventa per me molto interessante seguire la traiettoria che da oltre 40 anni, queste analisi, a mio parere profetiche, hanno realizzato e seguirne gli esiti più recenti dei nostri giorni.
Cosa accadeva circa 40 anni fa per cui molti osservatori sociali raccoglievano in maniera analoga dei dati e li processavano attraverso le loro griglie interpretative tirando fuori valutazioni così compiute e mature e, come detto, così profetiche e per certi versi attuali?
 
Accadevano tante cose, tra le quali, molto probabilmente la principale è, dal mio punto di vista, il compimento, a venti anni di distanza dalla ultima guerra mondiale (e cinquanta dalla prima), del sistema economico-sociale dell’occidente industrializzato e la sua traduzione in stile di vita pienamente sedimentato.
Tale stile di vita è quello che probabilmente rappresenta nella storia quello con le più rapide e con le maggiori capacità di penetrazione e di manipolazione dell’uomo sull’uomo (De Carolis, 2004).
In genere si tende ad attribuire questo alla potenza della tecnica, ma focalizzandosi su questo dato, indubbiamente vero nel suo essere una non casuale concomitanza, si tende a trascurare il peso specifico dell’ideologia connessa, quella appunto collegata con lo stile di vita consumistico e spettacolarizzato.  
 
Se non recuperiamo dunque la freschezza dello sguardo degli osservatori più attenti di quell’epoca, rischiamo di perdere la gran parte delle informazioni necessarie per comprendere il passaggio di cui ci stiamo occupando. La puntuale descrizione fenomenologica del “Sistema degli oggetti[1] già consumistici di Baudrillard del 1968 ci rende la misura di un disagio piuttosto tangibile rispetto alle epoche precedenti dove gli oggetti conservavano nella vita degli individui ancora un prevalente posto funzionale e non ancora totalmente simbolizzato-gadgettistico.
 
Quegli osservatori erano infatti alquanto turbati dai cambiamenti in atto sotto i loro occhi: le categorie del pensiero e dell’umano consesso erano vistosamente in crisi. Non era più possibile, come accennato prima, distinguere il vero dal falso, e nemmeno il vero dal verosimile. I legami sociali erano altrettanto vistosamente condizionati dai nuovi rapporti di produzione e di scambio che la nuova ideologia economico-politica imponeva, il tutto nella direzione dello sfilacciamento dei legami sociali e nel trionfo, come ci indica Foucault (op.cit), dell’interesse individuale.
L’intero profilo della società, delle sue abitudini fin dentro il mondo intrapsichico degli individui, diventavano rapidamente e sotto i loro occhi di una natura diversa, altra cosa, irriconoscibili.
Immaginiamoci dunque la sensazione di un mondo che prende un percorso in discesa e veloce che nessuno sa dove conduce. Credo che sia stato questo il vissuto di quell’epoca che spingeva questi autori, indubbiamente sensibili e geniali, ad un urgente tentativo di comprensione delle coordinate e della cause principali di tali mutamenti, nel tentativo di un ri-orientamento.
 
 
Veridizione e dispercezione[2]  
 
Quando Foucault nelle sue lezioni al Collège de France del 1979, indica il mercato come unico luogo di veridizione, cioè di costruzione della verità, l’operazione di manipolazione politico-mediatica del secolo scorso aveva già un lungo curriculum alle spalle. Prima con la fondazione della propaganda da parte di Edward Barnays (1928) (nipote “americano” di Freud, e capostipite di ogni forma di tecnologia di manipolazione delle masse, dalle campagne pubblicitarie alle tecniche del consenso (BBC, Il secolo del sé, 2002) a prescindere dal tipo di regime (Goebbels, ad esempio, era un discepolo dichiarato di Barnays). Poi con i diversi passaggi successivi che il liberismo occidentale realizza nei due dopoguerra e in special modo nel secondo fino a giungere alla soglia degli anni ’80.
L’homo oeconomicus, modello d’uomo contemporaneo, fonte e destinatario allo stesso tempo dello stile di vita neoliberale, è imprenditore di se stesso, diventa nelle teorizzazioni di due economisti, prima di Victor Lebow negli anni ’50 (Leonard Annie, 2007), e poi di Gary Becker negli anni ’60-’70 circolarmente protagonista del sistema economico e sociale: “il consumatore, nella misura in cui consuma, è un produttore. E che cosa produce? Produce, molto semplicemente, la propria soddisfazione. Si deve pertanto considerare il consumo come un’attività d’impresa attraverso cui l’individuo, a partire dal capitale di cui dispone, produrrà qualcosa che sarà la propria soddisfazione” (in Foucault, op. cit.).
Il salto concettuale che fa il neoliberismo americano ed il suo way of life è enorme e decisivo (oltre che attualissimo), si annulla la polarità dialettica produzione/consumo, il consumatore assume completamente le logiche della produzione, diventa egli stesso produttore (di felicità, di soddisfazione), si realizza una circolarità che diventa l’ossatura della società: economia e stile di vita trovano qui un’eccellente saldatura, una quadratura del cerchio che esalta il mercato come pietra angolare e fonte di costruzione della verità, di veridizione, appunto. Il cortocircuito produttore-consumatore conduce perciò il consumatore a diventare responsabile dell’andamento stesso della sua economia, psichica e nazionale: la sua ricerca di soddisfazione è la bussola che modella il senso della vita estraendone “verità”. Molto più indottrinante e molto più pervasivo di una nuova religione.

Baudrillard, con piglio più iconoclastico, ci suggerisce invece come nell’era postmoderna è il simulacro che domina la scena, la simulazione ed il suo iperrealismo si sono impiantati profondamente in noi: “il simulare inficia la differenza tra vero e falso, tra reale e immaginario”. Cosa che in precedenza aveva già icasticamente affermato Debord  “Nel mondo realmente rovesciato, il vero è un momento del falso” [Debord op. cit. § 9].
L’informazione mediatica si propone quindi come massima forma di simulazione: “i segni si evolvono, si concatenano e producono se stessi, sovrapponendosi l’uno all’altro in modo che non esiste un punto di riferimento assoluto che possa servir loro da appoggio” (Baudrillard, 1976).
Si viene a creare perciò un’inflazione di segni che non rimandano più ad alcun contenuto se non a se stessi, in una sorta di continua riproduzione cancerogena in cui, come nelle opere del visionario Warhol, l’originale viene disperso e distrutto, e valgono solo le infinite riproduzioni, che assumono in tal modo dignità di “opera”, di realtà.

A partire da queste considerazioni, non esiste voce autorevole della scienza che possa ergersi come super partes sul rumore di fondo, divenuto assordante, che domina l’infosfera.
Siamo lontanissimi dal tentativo del vecchio Kant di realizzare attraverso la ragione “la distruzione delle illusioni originate da premesse erronee” dichiarando “inammissibili” le opinioni, ossia i concetti non confermati dalla ragione (in Bauman, 2007). Quel sogno, agli albori dell’era moderna, di coltivazione della ragione umana e redenzione dalle false credenze, si è infranto strada facendo prima sugli orrori delle guerre mondiali dello scorso secolo, dei totalitarismi e nazionalismi, e poi, definitivamente, nell’imperialismo dell’opinione pubblica, della doxa, delle indagini di mercato, della pubblicità e della politica, dove è l’annacquamento il principio ispiratore e ordinatore retto dalla logica del mercato.
Scrive infatti Heidegger, in un’ideale risposta a Kant: “il senso comune è cieco a tutto ciò che la filosofia propone come essenziale”, inutile, e forse ingenuo, provare a educarlo in alcun modo. O ancora Rorty che definisce la filosofia (e la ricerca della verità) un genere letterario: abbandonata per sempre la ricerca del vero e del falso, non ci rimane che l’ironia (in Bauman, op.cit.).
Impossibilitati a rintracciare ogni parvenza di verità ultima, di parola definitiva, dilaniati tra scetticismo radicale e fideismo conformista, tra spaesamento e ossessione identitaria, pare non affacciarsi altra soluzione se non quella dell’attesa. Eterni spettatori della dea Finzione (detta anche Fiction), di sua figlia Verosimiglianza, di suo marito Simulacro.

Ma la mente umana non tollera tutti questi dubbi, non tollera questa eccessiva fluidità, né l’attesa sine die, non sopporta il disancoramento assoluto a cui la postmodernità e le sue regole ci obbligano. Per questo rimane conservatrice nello stabilire vero e falso, funziona attingendo ad automatismi più primordiali, taglia di netto l’ipercomplessità ed il multitasking, fa il cut-off dell’inflazione informativa in cui naviga alla deriva.
I pubblicitari sanno bene come attirare l’attenzione del consumatore, una volta tramortito, una volta cioè che le sue capacità critiche e decisionali si siano significativamente indebolite.
Dice Bauman (op.cit.), citando Umberto Eco e la sua concezione del romanzo e della finzione artistica: “leggiamo romanzi perché essi ci danno la sensazione confortevole di vivere in un mondo dove la nozione di verità non può essere messa in discussione, mentre il mondo reale sembra un luogo ben più insidioso”. Per entrare nella suggestione del romanzo, continua Bauman, si deve “sospendere l’incredulità”. Invece “per stabilire che cosa sia vero o falso nel mondo reale, bisogna prendere una serie di difficili e quasi mai del tutto affidabili decisioni circa il grado di fiducia da prestare a certe informazioni e da negare ad altre, esplicitando chiaramente, in modo attivo o passivo, diretto o indiretto, le nostre propensioni oppure accettando per buone le premesse che conferiscono alle affermazioni provenienti da certe fonti un carattere di verità, in quanto possiedono gli attributi della correttezza” (Bauman, op.cit.).

Alla Verità, di cui siamo tutti orfani (seppure non addolorati), si è sostituita l’obiettività scientifica la cui sede di veridizione è diventata non più la parola sacramentale o la parola maestosa ed identitaria del capo carismatico, e nemmeno la verifica del metodo scientifico, ma la parola dell’opinione pubblica, la cui essenza è il convenzionalismo dei sondaggi. Obiettività e opinione pubblica si sono avvicinate a tal punto da fondersi l’una nell’altra.
L’informazione cosiddetta scientifica si ritrova così, in questa epoca, ad occupare il posto lasciato vacante dalla Verità utilizzando surrettiziamente l’opinione pubblica come sinonimo di obiettività e la logica del mercato come unica validazione e veridizione.
Non siamo nostalgici della Verità, siamo solo in trepidante attesa della grande assente: la conoscenza.
 
La veridizione nella società ipermoderna diventa immediatamente principio percettivo, criterio ordinatore delle contemporanee verità fruibili e commerciabili, dove però ai misteri delle verità che amano nascondersi si è sostituita la varietà delle merci ben mostrate sui banconi della società dello spettacolo. Tale principio percettivo è però immediatamente anche un principio dispercettivo, condizione necessaria, quella dispercettiva, affinché una merce sia inserita in un ciclo continuo di consumo e obsolescenza rapida.
Cosa distingue su un piano neurologico un segnale da un rumore di fondo, un’informazione da uno scarabocchio sul muro? Come procede il cervello dell’anoressica, il cui corpo è diventato merce scaduta e scadente, nel dis-percepirsi come grassa? Cosa accade nel cervello del gambler da videopoker nel sentirsi trascinato e cullato dal senza-tempo della sua ripetizione dis-percependo la propria rovina economica? Come si sviluppa la fenomenologia dispercettiva?
Non c’è volontà senza un’esatta percezione. Anche questo sanno bene i pubblicitari.
 
 
L’illusione è la realtà
 
Capovolgiamo l’assunto della spiritualità orientale, la realtà non è altro che illusione. La società ipermoderna invece dice che l’illusione è la realtà.
È con Guy Debord (1967) che troviamo lo sviluppo concettuale di quanto stiamo argomentando. Merce, Verità e costruzione sociale si sono sublimati nello Spettacolo. Questo ulteriore passaggio concettuale è indispensabile per procedere oltre e per riuscire a visualizzare le modalità di veridizione e dispercezione attive nella nostra vita.
Articoliamo dunque ed integriamo l’intuizione di Foucault: è il mercato spettacolarizzato il luogo di veridizione della realtà.

Dice Debord: “Lo spettacolo è il momento in cui la merce è pervenuta all’occupazione totale della vita sociale” [§ 42], lo stadio più avanzato della società occidentale, quello in cui i processi simbolici dei nuovi stili di vita e l’ideologia-non-ideologia neoliberista si sono totalmente impadroniti, senza colpo ferire, della psiche collettiva e individuale.
Non manca una certa nostalgia nell’aforisma di apertura: “tutto ciò che era direttamente vissuto si è allontanato in una rappresentazione” [§ 1]. L’immagine spettacolarizzata si separa dalla vita, ci spiega Debord e “lo spettacolo in generale, come inversione concreta della vita, è il movimento autonomo del non-vivente” [§ 2]. Si tratta di una vera e propria ri-programmazione dei codici sorgenti con i quali si stabiliscono i rapporti sociali, continua inquietantemente questo testo: “lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale fra persone, mediato da immagini” [§ 4] Lo spettacolo “non dice nulla di più che «ciò che appare è buono, ciò che è buono appare»” [§ 12].
Gli esiti di tale ri-programmazione sono globali e pervasivi. È come la discesa inesorabile dentro matrix: “là dove il mondo reale si cambia in semplici immagini, le semplici immagini diventano degli esseri reali, e le motivazioni efficienti di un comportamento ipnotico” [§ 18] Il prodotto è una forma di alienazione altrettanto pervasiva: “più (lo spettatore) contempla, meno vive; più accetta di riconoscersi nelle immagini dominanti del bisogno, meno comprende la propria esistenza e il proprio desiderio” [§ 30].
 
Il mercato della grazia

Nel mondo della dispercezione e della spettacolarizzazione della realtà (o dell’irrealtà?), il disancoramento dai propri punti fermi, o dai propri punti di equilibrio possibili è massimo. Il marketing ha sostituito il concetto di libertà con quello di opzione d’acquisto o di zapping, il concetto di ben-essere con quello di salute o al limite con quello di ben-avere, il concetto di piacere con quello di potere d’acquisto e di “emozione”, e il perduto mondo autentico e la perduta armonia li ritroviamo tra i “must” di ogni pubblicitario.
Il punto è che tutte le cose importanti della vita sono gratuite, non solo nell’accezione etimologica, cioè dotate di grazia, talora di una grazia elementare, ma anche proprio in senso commerciale: tutta la grazia è gratuita: l’amore, l’amicizia, la bellezza, la tenerezza, la gentilezza, l’armonia, il sentimento di libertà o di giustizia, il desiderio, il piacere, la sensualità, la buona compagnia, la riconoscenza, un abbraccio, i figli che crescono, etc.. Tutti beni comuni, ubiquitari, e ciononostante irreperibili sul mercato.
Tutto ciò che esiste, esiste in quanto commerciato e commerciabile, questo è quanto la società dei consumi tenta, viceversa, di inculcarci, il mantra della nuova religione. Commercializzare i beni comuni universali come si sta tentando di fare in questo periodo con l’acqua è solo il punto di partenza di un processo inarrestabile che punta ad un solo obiettivo: mercantilizzare la grazia.

Ben prima delle ultime vicende politico-spettacolistiche, ma a seguito del noto video “Il corpo delle donne” di Lorella Zanardo e Marco Malfi Chindemi, scrivevo, con una collega, le seguenti considerazioni (“Di chi è il corpo della donna” D’Elia – Longhi, 2009):
Potremmo dire che il potere sul corpo femminile non ha abbandonato la presa ed è passato, volendo essere essenziali, dal controllo delle nascite al controllo del piacere. Si è passati da un corpo subordinato al logos sociale votato alla prolificità dove i valori correlati erano ovviamente fedeltà e affidabilità, ad un corpo subordinato alle regole economiche nel senso di “allocazione alternativa da fornire alla merce rara”. La bellezza, la sensualità, l’allegria, il calore, l’eccitazione che un corpo femminile spontaneamente produce sono diventati la “merce rara” da distillare a chi se lo può permettere, possibilmente a pagamento. Una donna priva di queste caratteristiche o incapace di personificarle nel guardaroba dei suoi falsi-sé, è destinata a sentirsi esclusa. Individuato il bene d’uso (quello appena descritto), il target, il mercato, e le strategie di vendita, tutto si muove da sé. Ciò che conta è assicurarsi una quantità di merce sufficiente ad allietare, dove per “letizia” non s’intende più la gioia vissuta nelle relazioni (quella è gratuita, e fuori target), ma l’esercizio rassicurante e reiterativo del potere che si conferma capace di accantonare sempre e di nuovo quella merce rara. Se guardiamo all’erotizzazione estrema, possiamo prendere ad esempio la pornografia, in cui il problema non è prevalentemente l’aspetto di sopraffazione nei confronti del femminile, ma la sessualizzazione esasperata, che, sebbene coinvolga sia gli uomini che le donne, rischia di schiacciare nuovamente sull’antica dicotomia il genere che ha una più lunga consuetudine con gli stereotipi. Riconoscendolo, di nuovo, solo in quanto carne.
Il controllo del piacere attraverso il controllo del corpo femminile è la nuova frontiera della colonizzazione del mondo-mercato.
 
Quale posto per l’arte del vivere
 
È legittimo domandarsi se e quando l’attuale organizzazione sociale potrà mai trovare un suo punto di risoluzione, oppure se siamo ancora lontani dal parossismo che precede un cambiamento per discontinuità, oppure invece dobbiamo attenderci uno sviluppo lento e continuo verso un altro paradigma.
Ma poi, di quale punto di risoluzione stiamo parlando? Si tratta di un diluvio universale esteriore o di uno interiore? È mai possibile disgiungere l’interno dall’esterno o interno ed esterno sono solo vuote parole alle quali appendiamo i nostri modelli?
Forse la domanda “apocalittica” (cioè rivelatrice) che qui si vuole porre potrebbe essere riformulata in questi termini: esiste un fattore sistemico legato alla società dello spettacolo, al consumismo, al way of life tardo-capitalistico, e alle sue leggi socio-economiche e identitarie che viola alcune leggi costitutive della vita umana tal che si giunga ad un punto di rottura?
 
Se la risposta a questa articolata domanda è positiva, dobbiamo allora presupporre un confine strutturale interno oltrepassato il quale si sia prodotta una lesione irreparabile alla condizione umana (una corda che tirata all’estremo si rompa) e dunque anche al mondo psichico, dovendo al contempo immaginare che tale confine e tale condizione abbiano a che fare, in qualche modo a noi non del tutto chiaro, con la natura umana, di cui però nulla è possibile dire di definitivo.
Molte le strade che si possono percorrere volendo denominare questo argine non oltrepassabile: Corpo, Dignità, Sacralità, Inconscio, Soggettualità, Socialità.
Nessuno di questi costrutti può darsi come un a priori già dato e scevro dalla culturalità della condizione umana. Ciononostante possiamo facilmente descrivere l’attuale gioco di potere che presiede le nostre civiltà più avanzate come un gioco al massacro nel quale ciascuno di questi costrutti, così intimi della condizione umana, viene messo in crisi dall’insulto permanente del modo consumens e spettacolare di essere.
Lo stress-test pluridecennale al quale la nostra psiche è sottoposta dai nuovi stili di vita sta raggiungendo l’apice della sopportazione e la specie mutante che sta venendo fuori da questa sperimentazione forse inizia ad avere il fiato corto e sta cominciando a produrre quantità di disagio e alienazione tali da rendere vana una attendibile riclassificazione dei disturbi mentali.
Come ci avverte anche Massimo Recalcalti nel suo recente “L’uomo senza inconscio” (2010), le condizioni mutagene del nostro sistema sociale stanno producendo un capovolgimento di paradigma della condizione umana a partire dalla sua soggettualità: da soggetto dell’inconscio a soggetto senza inconscio, fondato su un angoscioso vuoto.
 
Ma nello stesso modo in cui ci chiediamo se e quando finirà questo mondo altamente dispercettivo, occorre anche domandarsi cosa c’è oltre di esso. Non mi riferisco ad un futuro utopico, ma la domanda riguarda l’attualità, il presente: cosa c’è oltre lo spettacolo, già ora? Cosa del presente preannuncia il cambiamento?
Forse la crisi economica in corso e quelle che verranno? Forse le nuove e cangianti forme di alienazione e svuotamento della soggettualità di cui abbiamo appena fatto cenno (Recalcati, 2010)? Forse la corruzione e la decadenza dei costumi tipici del tardo impero e la progressiva fusione del sistema economico-politico con quello mafioso (con relative “etiche” ed “estetiche”)? Forse l’incarognimento spinto all’esasperazione dell’individualismo, dell’infantilizzazione e del dispregio massimo del bene comune?
 
Mai come in questa epoca la storia con la sua folle accelerazione irrompe prepotentemente fin dentro i meccanismi strutturali della psiche andando ad alimentare l’ulteriore e forse più paradossale delle dispercezioni secondo la quale tutto appare come geneticamente sovradeterminato (o meglio, sottodeterminato), somatizzato. Mai come oggi, invece, l’epidemiologia è debitrice delle scienze sociali, intese qui come determinazioni culturali ed ideologiche della mutazione in corso.
 
Cosa rimane da dire alle odierne pratiche dell’arte del vivere occasionalmente afferenti all’area culturale della cura psicologica in questo assurdo frastuono, se non aggiungersi anch’esse al coro belante del wellness, della fitness e della medicina performativa e commerciale, della salute come prestazione?
 
Persino l’oro della psicoanalisi e la sua sacrale devozione verso la verità del soggetto, protetta sovente con gelosia nel cerimoniale senza tempo di una dualità sussurrante, sembra divenire pratica e pensiero residuale e soprattutto auto-tacitato, privo cioè di una comunicazione sociale, ed ecolalicamente ripetuto nei consessi, sempre più settari e familistici, delle istituzioni analitiche. Un senza-tempo che gioca in difesa e che si oppone inutilmente ad un tempo troppo velocizzato e che rende sfuggente sovente il senso dei cambiamenti in corso. Ed infatti: di quale “soggetto” (della cui verità) si sta parlando?
 
Le scienze cognitive, che furoreggiano, saldamente ancorate ai linguaggi della scienza ufficiale, dal canto loro si propongono sempre più come omeopatia del presente utilizzando lo stesso antidoto estratto dal veleno della postmodernità. Rimane il sospetto che l’astensione dalla critica del presente da parte loro (e l’assenza di un’elaborazione sociale del disagio) sia stata fin qui scelta troppo comoda per riuscire ad aggiungere alcunché al discorso sull’uomo contemporaneo.
 
Si sente la mancanza di una cura psicologica che si assuma pienamente (o si ri-assuma in modo nuovo) il problema della verità, scritta rigorosamente in minuscolo, in quanto verità del cuore, del corpo, dell’appartenere, e che esplori con il necessario coraggio gli inciampi degli attuali stili di vita intesi come vere e proprie nuove forme di esistenza, riproponendoli nei setting, ri-problematizzandoli continuamente come questioni che attengono alla natura più intima del nostro benessere o malessere.
 
Ed allora l’arte del vivere, occasionalmente denominata in questa epoca storica psicoterapia, specie nei setting gruppali (a me particolarmente cari), può diventare uno spazio-tempo riqualificato, non solo come luogo della cura, ma, perduto ogni alone semantico di correzione, rieducazione ed espiazione che talora inerzialmente l’accompagna, essa diventa luogo privilegiato per un incontro con sé e con l’Altro in spirito di verità e rispetto, rifugio di anime smarrite, occasione di orientamento su territori sempre cangianti (come nel film Stalker, di Tarkovsky), luogo di neo-appartenenza e di ri-identificazione. Un luogo insomma dove la percezione, grazie alla co-presenza di altri accudenti, ritorni ad essere anche solo per un attimo a fuoco.
 
Bibliografia:
 
o   Baudrillard Jean. (1968) Il sistema degli oggetti, Bompiani, Milano. 1972.
o   Baudrillard Jean. (1970). La società dei consumi, Il Mulino, Bologna. 1976.
o   Baudrillard Jean. (1976). Lo scambio simbolico e la morte, Feltrinelli, Milano, 1979.
o   Bauman Zygmunt. (2000). Il disagio della postmodernità. Bruno Mondadori Editore. 2002.
o   BBC Documentario. Il secolo del sé: Parte 1: Macchine della felicità 1-6 http://www.youtube.com/watch?v=N3vAHoJk8H8 (e seguenti). Parte 2: L’ingegneria del consenso 1-6 http://www.youtube.com/watch?v=ASSsBA22Gx4 (e seguenti). 2002.
o   Bernays Edward L.(1928). Propaganda, Lupetti editore, 2008
o   Debord Guy. La società dello spettacolo. (1967). Baldini & Castoldi. Milano. 1997.
o   De Carolis Massimo. La vita nell’epoca della sua riproducibilità tecnica. Bollati Boringhieri, Torino. 2004.

o D’Elia Luigi. Il Posto della Verità. Difendersi dalla collusione Scienza-Marketing. (http://www.osservatoriopsicologia.it/2009/09/22/il-posto-della-verita-difendersi-dalla-collusione-scienza-marketing/ ).  In Osservatorio Psicologia nei Media. 22 Settembre 2009

o  D’Elia Luigi. Il Consumismo Ammala la Psiche (http://luigidelia.it/il-consumismo-ammala-la-psiche-parte-1/2010/07/) e parti seguenti. In http://luigidelia.it . 2010.

o D’Elia Luigi, Carlotta Longhi. Di chi è il corpo delle donne. (http://www.osservatoriopsicologia.it/2009/11/21/di-chi-e-il-corpo-della-donna/ ). In Osservatorio Psicologia nei Media. 21 Novembre 2009.

o Foucault Michel (1979) Nascita della biopolitica. Corso al College de France (1978-1979). Feltrinelli. Milano. 2005.

o   Leonard Annie. La storia delle cose (http://www.youtube.com/watch?v=18a1GQUZ1eU ). 2007.
o   Recalcati Massimo. L’uomo senza inconscio. Raffaello Cortina. Milano. 2010.

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[1] Il consumo, se mai ha un senso, è un'attività di manipolazione sistematica dei segni.[…] il consumo è una prassi idealista totale che non ha più nulla a che fare (al di là di un certo limite) con la soddisfazione dei bisogni né col principio di realtà.[…] Dall'esigenza di totalità che sta alla base del progetto sorge il processo sistematico e infinito del consumo. Gli oggetti/segni nella loro idealità si equivalgono e possono moltiplicarsi all'infinito: devono farlo per riempire ogni istante una realtà assente. Il consumo e irreprensibile perché si fonda su una mancanza” (Baudrillard, op cit.).
 
[2] Questo paragrafo è una rielaborazione da Il Posto della Verità. Difendersi dalla collusione Scienza-Marketing. (D’Elia, 2009)
 

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