SCALANDO LE MONTAGNE SI CAPISCE LA VITA “DI SOTTO”
Quando l’impresa fisica diventa esperienza spirituale: un convegno sul senso dell’ascesa, tra alpinismo, filosofia, psicoanalisi e religione
di Enrico Camanni, lastampa.it, 11 luglio 2014
Per spiegare il senso del viaggio verticale, il più assurdo e meraviglioso che esista, si può chiedere aiuto a uno scrittore che frequentava solo gli strapiombi del pensiero ma trovò ugualmente le parole: «L’incredibile spicco delle cose nell’aria ancor’oggi tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio». Così scriveva Cesare Pavese senza specifico riferimento al Sinai di Mosè o al monte della Trasfigurazione, le classiche rappresentazioni della montagna biblica, ma alludendo a un luogo che incarnava il mito delle origini. Pavese non era un «montanaro», disdegnava la claustrofobia delle valli e dei versanti smisurati, però aveva praticato gli anfratti di tufo delle Langhe e adorava il mistero. Sapeva che l’appicco – di legno, argilla o roccia che sia – è il posto dove la terra e il cielo si possono incontrare, e che l’ascesa è il modo per raggiungerlo.
Si può scalare a forza di braccia, ma il desiderio viene prima. La guida marsigliese Gaston Rébuffat insegnava che «l’alpinista è chi conduce il corpo dove un giorno gli occhi hanno guardato». Era un uomo secco e allampanato, Rébuffat, il ritratto della disarmonia, ma in parete diventava una farfalla. Non si stancava di ripetere ai giovani alpinisti che è altrettanto importante sognare una montagna che salirla.
L’esperienza della scalata trascende l’atto fisico per caricarsi di significati simbolici: basta arrampicarsi su una pianta di un certo rispetto, sulla torre del paese o meglio su un’altura montana, per accorgersi che il mondo della pianura e i relativi riferimenti cambiano proporzioni. Guardandolo dell’alto, il grande diventa minuscolo, ciò che era importante passa in secondo piano. Le priorità della vita quotidiana svaporano e si confondono via via che si fa il vuoto, fino a dissolversi in una presenza affettuosa ma distante. Mentre l’altura o la parete si compongono in forme tangibili, il mondo del piano perde peso e si ridimensiona. Al contempo la giusta distanza pulisce lo sguardo sulla vita «di sotto» e aiuta a comprenderla.
Questo succede a chi scala fisicamente la montagna ma anche a chi la sale con il pensiero, il desiderio, lo spirito. L’ascesa non è una conquista bensì la tensione verso l’alto, il viaggio su una cima che sostanzialmente non esiste perché è sempre sormontata da un cielo irraggiungibile. Anche in questo senso l’alpinismo insegna, o impara, che la cima non è un traguardo definitivo ma solo la fine di una visione. Il grande alpinista friulano Giusto Gervasutti, quando completò la sua impresa più bella sulla parete Est delle Grandes Jorasses, scrisse malinconicamente: «Niente fremiti di gioia, niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa».
Domani al Forte di Bard si parlerà di ascesa in questi e altri termini. Si affronterà anche il rischio della fuga dalla realtà, assai caro al filosofo alpinista torinese Gian Piero Motti che non esitò a definire l’alpinista totale un «fallito». Lo psicoanalista Michele Oldani spiega che «diventa necessario per ogni uomo trovare un equilibrio tra l’alto e il basso, tra lo straordinario e l’ordinario, quel particolare punto di vista che gli permetta di percorrere la propria strada guardandola contemporaneamente da una prospettiva più elevata». Il concetto della «discesa salvifica» è ribadito con forza dal monaco biblista Luciano Manicardi, vicepriore di Bose: «La disciplina spirituale cristiana chiede adesione alla terra, all’umano, allo storico, al relazionale, come via di comunione con quel Dio il cui volto è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. Anche l’esperienza del peccato, della caduta, mentre rivela una distanza tra l’uomo e il suo Dio, pone le basi per l’esperienza della salvezza che non consiste nell’innalzamento umano a Dio, ma nell’abbassamento divino, nella sua kénosis, che raggiunge l’uomo là dove egli è».
Si può vedere una sintesi di tutto ciò nella relazione che l’alpinista himalayana Nives Meroi proporrà al convegno di Bard: «Io sono le montagne che non ho scalato». Lì c’è tutto il senso dell’ascesa.
http://www.lastampa.it/2014/07/11/societa/montagna/scalando-le-montagne-si-capisce-la-vita-di-sotto-z6fwoYKaNjJi0udbjkb6EJ/pagina.html
di Enrico Camanni, lastampa.it, 11 luglio 2014
Per spiegare il senso del viaggio verticale, il più assurdo e meraviglioso che esista, si può chiedere aiuto a uno scrittore che frequentava solo gli strapiombi del pensiero ma trovò ugualmente le parole: «L’incredibile spicco delle cose nell’aria ancor’oggi tocca il cuore. Io per me credo che un albero, un sasso profilati nel cielo, fossero dèi fin dall’inizio». Così scriveva Cesare Pavese senza specifico riferimento al Sinai di Mosè o al monte della Trasfigurazione, le classiche rappresentazioni della montagna biblica, ma alludendo a un luogo che incarnava il mito delle origini. Pavese non era un «montanaro», disdegnava la claustrofobia delle valli e dei versanti smisurati, però aveva praticato gli anfratti di tufo delle Langhe e adorava il mistero. Sapeva che l’appicco – di legno, argilla o roccia che sia – è il posto dove la terra e il cielo si possono incontrare, e che l’ascesa è il modo per raggiungerlo.
Si può scalare a forza di braccia, ma il desiderio viene prima. La guida marsigliese Gaston Rébuffat insegnava che «l’alpinista è chi conduce il corpo dove un giorno gli occhi hanno guardato». Era un uomo secco e allampanato, Rébuffat, il ritratto della disarmonia, ma in parete diventava una farfalla. Non si stancava di ripetere ai giovani alpinisti che è altrettanto importante sognare una montagna che salirla.
L’esperienza della scalata trascende l’atto fisico per caricarsi di significati simbolici: basta arrampicarsi su una pianta di un certo rispetto, sulla torre del paese o meglio su un’altura montana, per accorgersi che il mondo della pianura e i relativi riferimenti cambiano proporzioni. Guardandolo dell’alto, il grande diventa minuscolo, ciò che era importante passa in secondo piano. Le priorità della vita quotidiana svaporano e si confondono via via che si fa il vuoto, fino a dissolversi in una presenza affettuosa ma distante. Mentre l’altura o la parete si compongono in forme tangibili, il mondo del piano perde peso e si ridimensiona. Al contempo la giusta distanza pulisce lo sguardo sulla vita «di sotto» e aiuta a comprenderla.
Questo succede a chi scala fisicamente la montagna ma anche a chi la sale con il pensiero, il desiderio, lo spirito. L’ascesa non è una conquista bensì la tensione verso l’alto, il viaggio su una cima che sostanzialmente non esiste perché è sempre sormontata da un cielo irraggiungibile. Anche in questo senso l’alpinismo insegna, o impara, che la cima non è un traguardo definitivo ma solo la fine di una visione. Il grande alpinista friulano Giusto Gervasutti, quando completò la sua impresa più bella sulla parete Est delle Grandes Jorasses, scrisse malinconicamente: «Niente fremiti di gioia, niente ebbrezza della vittoria. La meta raggiunta è già superata. Direi quasi un senso di amarezza per il sogno diventato realtà. Credo che sarebbe molto più bello poter desiderare per tutta la vita qualcosa».
Domani al Forte di Bard si parlerà di ascesa in questi e altri termini. Si affronterà anche il rischio della fuga dalla realtà, assai caro al filosofo alpinista torinese Gian Piero Motti che non esitò a definire l’alpinista totale un «fallito». Lo psicoanalista Michele Oldani spiega che «diventa necessario per ogni uomo trovare un equilibrio tra l’alto e il basso, tra lo straordinario e l’ordinario, quel particolare punto di vista che gli permetta di percorrere la propria strada guardandola contemporaneamente da una prospettiva più elevata». Il concetto della «discesa salvifica» è ribadito con forza dal monaco biblista Luciano Manicardi, vicepriore di Bose: «La disciplina spirituale cristiana chiede adesione alla terra, all’umano, allo storico, al relazionale, come via di comunione con quel Dio il cui volto è narrato dall’umanità di Gesù di Nazaret. Anche l’esperienza del peccato, della caduta, mentre rivela una distanza tra l’uomo e il suo Dio, pone le basi per l’esperienza della salvezza che non consiste nell’innalzamento umano a Dio, ma nell’abbassamento divino, nella sua kénosis, che raggiunge l’uomo là dove egli è».
Si può vedere una sintesi di tutto ciò nella relazione che l’alpinista himalayana Nives Meroi proporrà al convegno di Bard: «Io sono le montagne che non ho scalato». Lì c’è tutto il senso dell’ascesa.
http://www.lastampa.it/2014/07/11/societa/montagna/scalando-le-montagne-si-capisce-la-vita-di-sotto-z6fwoYKaNjJi0udbjkb6EJ/pagina.html
IL RITORNO DEI CAVALLI NELLE VIGNE
di Luciano Ferraro, divini.corriere.it, 11 luglio 2014
Via i trattori. Tra le vigne tornano i cavalli. Non inquinano, sono più agili di una macchina. Li usa, ad esempio, una delle cantine più famose del mondo, Domaine de la Romanée Conti, in Francia. Ora compaiono anche in piccole aziende italiane. Come quella pugliese di Gianfranco Fino: il suo Es è dal 2012 il miglior vino d’Italia secondo la superclassifica di «Gentleman», che incrocia i punteggi delle guide nostrane.
Per uno che dedica a Freud il vino, la scelta di sostituire il trattore con un cavallo va interpretata oltre i significati agricoli. Se lo psicanalista austriaco fosse vivo, direbbe che Gianfranco Fino, cinquantenne tarantino, ha voluto portare tra le vigne il padre. In uno dei suoi casi clinici più famosi, quello del piccolo Hans, Freud vide nel cavallo che agitava i sogni del bambino, proprio la figura paterna. Ecco il racconto di Fino:
«Avevo 14 anni e studiavo enologia a Locorotondo. Ero al primo anno. Non sapevo nulla di vino. Chiesi a mio padre di farsi dare in affidamento un piccolo appezzamento di terreno abbandonato, una porzione di un ettaro. Comprai il manuale di viticoltura, e iniziai. Il vicino era un contadino che arava con una motozappa. Poi c’era un altro, più anziano, che usava ancora il cavallo tra i filari».
I primi anni con a fianco il padre sono tornati in mente a Fino dopo un viaggio in Borgogna.
«Ci vado spesso, più volte l’anno, lì ci sono i veri vigneron, lì compro le barriques. Ho visto i cavalli a Romanée Conti e in altre aziende, sono diventato amico di produttori che usano questi animali per lavoro. E ho scoperto che con il cavallo la terra non viene compattata, a differenza di quando si usano le macchine agricole. Così il terreno rimane più sano, non si uccidono i lombrichi, ad esempio, come succede con i trattori pesanti. E soprattutto si favorisce la longevità delle viti, un requisito fondamentale per un grande vino».
Il suolo calpestato da zoccoli e non dalle ruote dei mezzi meccanici, secondo i vignaioli «cavallari», ha radici migliori, aria e acqua circolano meglio e aumentano le rese delle vigne. Il cavallo di Fino si chiama Bruno. È di razza Murgese, massiccio e solido.
«Grazie a Bruno si riesce a lavorare e pulire meglio tra i filari — assicura il vignaiolo del Primitivo — usiamo meno diserbanti. Bruno è più agile, più manovriero, più utile per percorrere il nostro arcipelago di dieci ettari di vecchie viti diviso in 14 parcelle».
In Francia molti vignaioli usano i cavalli anche per spargere i trattamenti biodinamici sulle viti. Gianfranco Fino, per ora, si limita all’aratura. In alcune parcelle utilizza un piccolo cingolato in gomma. Ma ha un progetto:
«Vorrei portare nelle nostre terre altri cavalli, salvandoli dalla macellazione. Perché non è vero che finiscono sulle tavole solo animali a fine carriera. Ci sono anche puledri».
La presenza dei cavalli nei campi è un ritorno agli anni del Dopoguerra, quando in Italia si contavano circa 46 mila trattori, diventati 338 mila nel 1963 sulla spinta dei piani di sviluppo del governo. Gli svantaggi sono la lentezza, la cura che il cavallo richiede, la difficoltà nel guidarlo.
Ma come ha scritto Charlie Pinney («The case for returning to real live horse power»), pioniere del progetto Horse Federation, il cavallo si guida con la voce, segue quello che gli ordini, mentre con un trattore puoi sgolarti finché vuoi ma non si muoverà di un passo. E poi un cavallo porta nei campi una carica di simpatia che ha convinto il vignaiolo Henry Finzi-Constantine, di Castello di Tassarolo (Alessandria), ad organizzare weekend con aspiranti agricoltori che vogliono seguire corsi di «cavallo da lavoro».
Secondo Henry, «in un’azienda biodinamica il cavallo completa il ciclo della vita e non è l’animale allegato e sfruttato, lavora con l’uomo in un rapporto di complicità». In fondo, come racconta in «Cavalli selvaggi» lo scrittore Cormac McCharty, ciò che si ama nei cavalli «è la stessa cosa che si ama negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li anima». «Tutta la stima, la simpatia, le propensioni» del ragazzo del romanzo, «andavano ai cuori ardenti».
http://divini.corriere.it/2014/07/11/il-ritorno-dei-cavalli-nelle-vigne/
RELLA: “VIVEVAMO IN UNA CASA RUMOROSA, CON I LIBRI IMPARAI A ISOLARMI”
Via i trattori. Tra le vigne tornano i cavalli. Non inquinano, sono più agili di una macchina. Li usa, ad esempio, una delle cantine più famose del mondo, Domaine de la Romanée Conti, in Francia. Ora compaiono anche in piccole aziende italiane. Come quella pugliese di Gianfranco Fino: il suo Es è dal 2012 il miglior vino d’Italia secondo la superclassifica di «Gentleman», che incrocia i punteggi delle guide nostrane.
Per uno che dedica a Freud il vino, la scelta di sostituire il trattore con un cavallo va interpretata oltre i significati agricoli. Se lo psicanalista austriaco fosse vivo, direbbe che Gianfranco Fino, cinquantenne tarantino, ha voluto portare tra le vigne il padre. In uno dei suoi casi clinici più famosi, quello del piccolo Hans, Freud vide nel cavallo che agitava i sogni del bambino, proprio la figura paterna. Ecco il racconto di Fino:
«Avevo 14 anni e studiavo enologia a Locorotondo. Ero al primo anno. Non sapevo nulla di vino. Chiesi a mio padre di farsi dare in affidamento un piccolo appezzamento di terreno abbandonato, una porzione di un ettaro. Comprai il manuale di viticoltura, e iniziai. Il vicino era un contadino che arava con una motozappa. Poi c’era un altro, più anziano, che usava ancora il cavallo tra i filari».
I primi anni con a fianco il padre sono tornati in mente a Fino dopo un viaggio in Borgogna.
«Ci vado spesso, più volte l’anno, lì ci sono i veri vigneron, lì compro le barriques. Ho visto i cavalli a Romanée Conti e in altre aziende, sono diventato amico di produttori che usano questi animali per lavoro. E ho scoperto che con il cavallo la terra non viene compattata, a differenza di quando si usano le macchine agricole. Così il terreno rimane più sano, non si uccidono i lombrichi, ad esempio, come succede con i trattori pesanti. E soprattutto si favorisce la longevità delle viti, un requisito fondamentale per un grande vino».
Il suolo calpestato da zoccoli e non dalle ruote dei mezzi meccanici, secondo i vignaioli «cavallari», ha radici migliori, aria e acqua circolano meglio e aumentano le rese delle vigne. Il cavallo di Fino si chiama Bruno. È di razza Murgese, massiccio e solido.
«Grazie a Bruno si riesce a lavorare e pulire meglio tra i filari — assicura il vignaiolo del Primitivo — usiamo meno diserbanti. Bruno è più agile, più manovriero, più utile per percorrere il nostro arcipelago di dieci ettari di vecchie viti diviso in 14 parcelle».
In Francia molti vignaioli usano i cavalli anche per spargere i trattamenti biodinamici sulle viti. Gianfranco Fino, per ora, si limita all’aratura. In alcune parcelle utilizza un piccolo cingolato in gomma. Ma ha un progetto:
«Vorrei portare nelle nostre terre altri cavalli, salvandoli dalla macellazione. Perché non è vero che finiscono sulle tavole solo animali a fine carriera. Ci sono anche puledri».
La presenza dei cavalli nei campi è un ritorno agli anni del Dopoguerra, quando in Italia si contavano circa 46 mila trattori, diventati 338 mila nel 1963 sulla spinta dei piani di sviluppo del governo. Gli svantaggi sono la lentezza, la cura che il cavallo richiede, la difficoltà nel guidarlo.
Ma come ha scritto Charlie Pinney («The case for returning to real live horse power»), pioniere del progetto Horse Federation, il cavallo si guida con la voce, segue quello che gli ordini, mentre con un trattore puoi sgolarti finché vuoi ma non si muoverà di un passo. E poi un cavallo porta nei campi una carica di simpatia che ha convinto il vignaiolo Henry Finzi-Constantine, di Castello di Tassarolo (Alessandria), ad organizzare weekend con aspiranti agricoltori che vogliono seguire corsi di «cavallo da lavoro».
Secondo Henry, «in un’azienda biodinamica il cavallo completa il ciclo della vita e non è l’animale allegato e sfruttato, lavora con l’uomo in un rapporto di complicità». In fondo, come racconta in «Cavalli selvaggi» lo scrittore Cormac McCharty, ciò che si ama nei cavalli «è la stessa cosa che si ama negli uomini, il sangue e il calore del sangue che li anima». «Tutta la stima, la simpatia, le propensioni» del ragazzo del romanzo, «andavano ai cuori ardenti».
http://divini.corriere.it/2014/07/11/il-ritorno-dei-cavalli-nelle-vigne/
RELLA: “VIVEVAMO IN UNA CASA RUMOROSA, CON I LIBRI IMPARAI A ISOLARMI”
Parla lo scrittore, filosofo, professore universitario di estetica allo Iuav di Venezia, curatore di numerose mostre e cataloghi e direttore di collane per diverse case editrici
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 14 luglio 2014
Ecco un uomo che sembra non aver mai chiesto nulla alla vita. Del resto, dice di non aspettarsi nulla di speciale. Non ha ansie. Né desideri nascosti. Non è vittima del proprio ego. In un certo senso, nell’odierna vita culturale, è un uomo invisibile quello che incontro nel retro della hall di un albergo di Milano. Ho appena finito di leggere il suo libro più recente Forme del sapere ( edito da Bompiani). Bello, intenso, irregolare come i precedenti. Qualche titolo da tenere sott’occhio: Il silenzio e le parole, Il mito dell’altro, L’enigma della bellezza. Mi pare che la linea prediletta del suo saggismo sia quella che da Montaigne arriva a Valèry. In mezzo c’è di tutto, grandi filosofi: Platone, Hegel, Nietzsche, Bataille; grandi scrittori: Mann, Kafka, Musil.
Per essere un uomo “senza qualità” Franco Rella è un caso letterario. Lui non è il temporale, la tempesta, il vento che si alza. È il barometro che misura tutto questo. Lo strumento che registra i sussulti della Terra: “Potrei al massimo registrare il vapore acqueo, l’umidità che circola e si effonde nell’atmosfera. Niente di eclatante. Come del resto non eclatante è stata la mia vita”, dice con sommessa ironia oratoria mentre si scuote di dosso il lieve torpore che lo avvolge.
Per continuare vai al link:
http://www.repubblica.it/cultura/2014/07/14/news/franco_rella_vivevamo_in_una_casa_rumorosa_con_i_libri_imparai_a_isolarmi-91537266/
di Antonio Gnoli, repubblica.it, 14 luglio 2014
Ecco un uomo che sembra non aver mai chiesto nulla alla vita. Del resto, dice di non aspettarsi nulla di speciale. Non ha ansie. Né desideri nascosti. Non è vittima del proprio ego. In un certo senso, nell’odierna vita culturale, è un uomo invisibile quello che incontro nel retro della hall di un albergo di Milano. Ho appena finito di leggere il suo libro più recente Forme del sapere ( edito da Bompiani). Bello, intenso, irregolare come i precedenti. Qualche titolo da tenere sott’occhio: Il silenzio e le parole, Il mito dell’altro, L’enigma della bellezza. Mi pare che la linea prediletta del suo saggismo sia quella che da Montaigne arriva a Valèry. In mezzo c’è di tutto, grandi filosofi: Platone, Hegel, Nietzsche, Bataille; grandi scrittori: Mann, Kafka, Musil.
Per essere un uomo “senza qualità” Franco Rella è un caso letterario. Lui non è il temporale, la tempesta, il vento che si alza. È il barometro che misura tutto questo. Lo strumento che registra i sussulti della Terra: “Potrei al massimo registrare il vapore acqueo, l’umidità che circola e si effonde nell’atmosfera. Niente di eclatante. Come del resto non eclatante è stata la mia vita”, dice con sommessa ironia oratoria mentre si scuote di dosso il lieve torpore che lo avvolge.
Per continuare vai al link:
http://www.repubblica.it/cultura/2014/07/14/news/franco_rella_vivevamo_in_una_casa_rumorosa_con_i_libri_imparai_a_isolarmi-91537266/
L’ETICA DELLE RELAZIONI DI CAROL GILLIGAM
di Alessandra Pigliaru, ilmanifesto.info, 16 luglio 2014
È il 2009 quando Carol Gilligan, psicologa e ricercatrice statunitense nota grazie al suo fortunato libro del 1982, In a different voice (Con voce di donna), decide di riprendere alcuni temi ricorrenti della sua ricerca: anzitutto proseguire il lavoro cominciato più di vent’anni fa intorno all’etica femminista della cura. A riguardo, l’arcipelago di idee è piuttosto complesso: la voce, l’ascolto e il riconoscersi già e sempre in relazione, non l’hanno mai abbandonata e vanno a comporre il libro pubblicato nel 2011, Joining the resistance (Polity Press) appena tradotto in Italia da Marta Alberti e Silvia Zanolla con il titolo La virtù della resistenza (Moretti&Vitali, pp. 167, euro 16) e un’introduzione di Federica Giardini alla quale è allegata anche un’utile bibliografia ragionata.
Al centro della riflessione di Carol Gilligan ritorna dunque la voce, per significare al contempo un pensiero già incarnato e un conseguente rifiuto dell’astrattezza del sé – tanto caro alla psicologia. Il dato è dirimente giacché la voce di cui parla l’autrice non attiene solo al fenomeno fisico dell’emissione vocale, bensì alla parabola stessa della libertà e della autenticità delle relazioni.
C’è dunque una posta politica che passa per la voce e che diviene la tessitura del nostro stesso agire. La virtù della resistenza viene sottotitolato con tre punti nodali che corrispondono ad altrettante idee percorse da Gilligan. Resistere, prendersi cura, non cedere sono infatti la rappresentazione di dove la voce si sia depositata. Di dove si agiti il linguaggio e il suo corpo desiderante. Di dove si sia nascosta e da dove non intenda scomparire. Rispetto al tema della resistenza, Gilligan mostra l’ampiezza semantica del termine che risponde ad una plurale declinazione politica – quando quella voce dice la verità in faccia al potere -, e psicoanalitica – quando resistere significa riluttanza ad accogliere nella coscienza contenuti rimasti fuori di essa. È opportuno segnalare come la resistenza politica per Gilligan ha a che fare con la resistenza al disagio. In questo passaggio le esperienze riportate sono numerose: penso alle sue interviste alle adolescenti e alla scoperta di una reciprocità della relazione tra le insegnanti e le studenti che apre all’ipotesi di un’interrogazione profonda delle pratiche, anche politiche.
L’implicazione tra voce e resistenza comincia dall’emersione di alcune domande: «chi parla e a chi? In quale corpo? Raccontando quali relazioni? All’interno di quali strutture sociali e culturali?». In un orizzonte che non si lascia sclerotizzare dalla neutralità della psicologia classicamente intesa, si fa spazio la domanda sulla resistenza: resistere a che cosa e a chi, infine? Per comprendere le direzioni racchiuse in una questione simile, Gilligan studia la dissociazione, punto di rottura che risente della separazione tra pensiero ed emozione. Si colloca così in una soglia già contaminata da un sapere transdisciplinare e, senza alcuna esitazione, crea intersezioni tra psicologia, psicoanalisi, filosofia, letteratura, poesia, teatro insieme alle stesse vite di chi le si mostra dinanzi, compresa la propria. Sembra infatti che il punto più interessante stia proprio qui: quel che non si lascia categorizzare né controllare appartiene all’ascolto, allo scambio empatico in presenza. Ciò accade nella relazione politica, terapeutica, di orientamento didattico, di sondaggio conoscitivo o semplicemente tra donne e uomini; il progetto che spinge in avanti è l’ipotesi di non abdicare alla propria parte autentica in nome di una separazione gerarchica che fa il gioco patriarcale.
Nelle adolescenti, ricorda Gilligan, l’iniziazione al patriarcato è accolta come l’imporsi della rottura di relazioni significative in nome dell’onore, della norma sacrificante e dell’affermazione sociale. È proprio in questo rilievo che le ragazze custodiscono la voce più profonda di se stesse, spesso «sepolta ma non perduta»; resistono un momento prima di diventare donne – laddove donne ha la doppia accezione di guadagno trasformativo e di pericolo verso un’adesione alle regole imposte. Non si tratta tuttavia della mancata comprensione dell’ordine sociale che detta la crescita, bensì di un percorso che Gilligan intraprende per mettere in scena relazioni che contano, di qualità, e che hanno la forza di sottrarsi alla logica scadente del patriarcato — o forse dovremmo dire di ciò che di esso sopravvive. Come viene notato finemente da Alberti e Zanolla, la categoria del «genere» è trattata da Gilligan sia come dispositivo rinforzante i canoni identitari sia come qualcosa che corrisponde più alla differenza sessuale e incarnata di uomini e donne.
«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano (…) Prendersi cura esige attenzione, empatia, ascolto, rispetto (…). È un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo». L’etica femminista della cura occorre per liberare la democrazia dalla morsa del patriarcato, laddove quest’ultimo ha una stretta correlazione con la frammentazione della psiche e quindi con il trauma.
L’analisi degli albori della psicoanalisi serve a ravvisarne i cortocircuiti: per esempio quando Freud interrompe una certa forma di intimità psichica e di relazione con le sue pazienti per allinearsi alla cultura patriarcale come fatto naturale; quando cioè accetta l’equivalenza tra la voce del padre e l’autorità morale. In fondo, e non solo secondo Gilligan, Freud dopo essersi accecato da sé come Edipo, pretende che le sue figlie lo accompagnino nella sua cecità. Sofferenza e nevrosi sono ovviamente comprese nel prezzo da pagare. Tuttavia è pur vero che questa non è l’unica storia di cui possiamo avvantaggiarci oggi. Su questo punto, per esempio, come ricorda Federica Giardini nella sua introduzione «Il continente nero di cui la psicoanalisi – in modo analogo ai saperi basati sull’individuazione e la contrapposizione tra il sé e gli altri – non riusciva a dare conto è la relazione costitutiva tra madre e figlia. Una relazione che non può venire meno, pena la sofferenza psichica e fisica, e che non riesce a svilupparsi secondo le regole dell’identificazione maschile, il passaggio ciò dall’attaccamento fusionale alla madre alla separazione che avviene attraverso l’intervento del padre». La decostruzione svolta durante gli anni Settanta, soprattutto grazie al femminismo, ha mostrato che nonostante il nodo edipico esiste dunque qualcosa d’altro e che la frammentazione della psiche come specchio dominante non ha impedito di significare un’altra narrazione e pratica relazionale. Esiste appunto una scena differente illuminata da alcune autrici, da Luce Irigaray a Luisa Muraro, che simbolicamente è stata assunta anche nel lavoro di Carol Gilligan. Forse perché lei non ha ceduto? La domanda è: siamo disposte e disposti anche noi a non cedere?<QL>
http://ilmanifesto.info/letica-delle-relazioni-di-carol-gilligam/
È il 2009 quando Carol Gilligan, psicologa e ricercatrice statunitense nota grazie al suo fortunato libro del 1982, In a different voice (Con voce di donna), decide di riprendere alcuni temi ricorrenti della sua ricerca: anzitutto proseguire il lavoro cominciato più di vent’anni fa intorno all’etica femminista della cura. A riguardo, l’arcipelago di idee è piuttosto complesso: la voce, l’ascolto e il riconoscersi già e sempre in relazione, non l’hanno mai abbandonata e vanno a comporre il libro pubblicato nel 2011, Joining the resistance (Polity Press) appena tradotto in Italia da Marta Alberti e Silvia Zanolla con il titolo La virtù della resistenza (Moretti&Vitali, pp. 167, euro 16) e un’introduzione di Federica Giardini alla quale è allegata anche un’utile bibliografia ragionata.
Al centro della riflessione di Carol Gilligan ritorna dunque la voce, per significare al contempo un pensiero già incarnato e un conseguente rifiuto dell’astrattezza del sé – tanto caro alla psicologia. Il dato è dirimente giacché la voce di cui parla l’autrice non attiene solo al fenomeno fisico dell’emissione vocale, bensì alla parabola stessa della libertà e della autenticità delle relazioni.
C’è dunque una posta politica che passa per la voce e che diviene la tessitura del nostro stesso agire. La virtù della resistenza viene sottotitolato con tre punti nodali che corrispondono ad altrettante idee percorse da Gilligan. Resistere, prendersi cura, non cedere sono infatti la rappresentazione di dove la voce si sia depositata. Di dove si agiti il linguaggio e il suo corpo desiderante. Di dove si sia nascosta e da dove non intenda scomparire. Rispetto al tema della resistenza, Gilligan mostra l’ampiezza semantica del termine che risponde ad una plurale declinazione politica – quando quella voce dice la verità in faccia al potere -, e psicoanalitica – quando resistere significa riluttanza ad accogliere nella coscienza contenuti rimasti fuori di essa. È opportuno segnalare come la resistenza politica per Gilligan ha a che fare con la resistenza al disagio. In questo passaggio le esperienze riportate sono numerose: penso alle sue interviste alle adolescenti e alla scoperta di una reciprocità della relazione tra le insegnanti e le studenti che apre all’ipotesi di un’interrogazione profonda delle pratiche, anche politiche.
L’implicazione tra voce e resistenza comincia dall’emersione di alcune domande: «chi parla e a chi? In quale corpo? Raccontando quali relazioni? All’interno di quali strutture sociali e culturali?». In un orizzonte che non si lascia sclerotizzare dalla neutralità della psicologia classicamente intesa, si fa spazio la domanda sulla resistenza: resistere a che cosa e a chi, infine? Per comprendere le direzioni racchiuse in una questione simile, Gilligan studia la dissociazione, punto di rottura che risente della separazione tra pensiero ed emozione. Si colloca così in una soglia già contaminata da un sapere transdisciplinare e, senza alcuna esitazione, crea intersezioni tra psicologia, psicoanalisi, filosofia, letteratura, poesia, teatro insieme alle stesse vite di chi le si mostra dinanzi, compresa la propria. Sembra infatti che il punto più interessante stia proprio qui: quel che non si lascia categorizzare né controllare appartiene all’ascolto, allo scambio empatico in presenza. Ciò accade nella relazione politica, terapeutica, di orientamento didattico, di sondaggio conoscitivo o semplicemente tra donne e uomini; il progetto che spinge in avanti è l’ipotesi di non abdicare alla propria parte autentica in nome di una separazione gerarchica che fa il gioco patriarcale.
Nelle adolescenti, ricorda Gilligan, l’iniziazione al patriarcato è accolta come l’imporsi della rottura di relazioni significative in nome dell’onore, della norma sacrificante e dell’affermazione sociale. È proprio in questo rilievo che le ragazze custodiscono la voce più profonda di se stesse, spesso «sepolta ma non perduta»; resistono un momento prima di diventare donne – laddove donne ha la doppia accezione di guadagno trasformativo e di pericolo verso un’adesione alle regole imposte. Non si tratta tuttavia della mancata comprensione dell’ordine sociale che detta la crescita, bensì di un percorso che Gilligan intraprende per mettere in scena relazioni che contano, di qualità, e che hanno la forza di sottrarsi alla logica scadente del patriarcato — o forse dovremmo dire di ciò che di esso sopravvive. Come viene notato finemente da Alberti e Zanolla, la categoria del «genere» è trattata da Gilligan sia come dispositivo rinforzante i canoni identitari sia come qualcosa che corrisponde più alla differenza sessuale e incarnata di uomini e donne.
«In una cornice patriarcale la cura è un’etica femminile. In una cornice democratica la cura è un’etica dell’umano (…) Prendersi cura esige attenzione, empatia, ascolto, rispetto (…). È un’etica relazionale basata su una premessa di interdipendenza. Non è altruismo». L’etica femminista della cura occorre per liberare la democrazia dalla morsa del patriarcato, laddove quest’ultimo ha una stretta correlazione con la frammentazione della psiche e quindi con il trauma.
L’analisi degli albori della psicoanalisi serve a ravvisarne i cortocircuiti: per esempio quando Freud interrompe una certa forma di intimità psichica e di relazione con le sue pazienti per allinearsi alla cultura patriarcale come fatto naturale; quando cioè accetta l’equivalenza tra la voce del padre e l’autorità morale. In fondo, e non solo secondo Gilligan, Freud dopo essersi accecato da sé come Edipo, pretende che le sue figlie lo accompagnino nella sua cecità. Sofferenza e nevrosi sono ovviamente comprese nel prezzo da pagare. Tuttavia è pur vero che questa non è l’unica storia di cui possiamo avvantaggiarci oggi. Su questo punto, per esempio, come ricorda Federica Giardini nella sua introduzione «Il continente nero di cui la psicoanalisi – in modo analogo ai saperi basati sull’individuazione e la contrapposizione tra il sé e gli altri – non riusciva a dare conto è la relazione costitutiva tra madre e figlia. Una relazione che non può venire meno, pena la sofferenza psichica e fisica, e che non riesce a svilupparsi secondo le regole dell’identificazione maschile, il passaggio ciò dall’attaccamento fusionale alla madre alla separazione che avviene attraverso l’intervento del padre». La decostruzione svolta durante gli anni Settanta, soprattutto grazie al femminismo, ha mostrato che nonostante il nodo edipico esiste dunque qualcosa d’altro e che la frammentazione della psiche come specchio dominante non ha impedito di significare un’altra narrazione e pratica relazionale. Esiste appunto una scena differente illuminata da alcune autrici, da Luce Irigaray a Luisa Muraro, che simbolicamente è stata assunta anche nel lavoro di Carol Gilligan. Forse perché lei non ha ceduto? La domanda è: siamo disposte e disposti anche noi a non cedere?<QL>
http://ilmanifesto.info/letica-delle-relazioni-di-carol-gilligam/
RISÉ TROVA NEL DONO LA CHIAVE DELLA FELICITÀ
di Cesare Cavalleri, avvenire.it, 16 luglio 2014
Claudio Risé, psicanalista di fama internazionale, ripropone, aggiornato, un suo lavoro del 2004, Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo (San Paolo, pagine 144, euro 14,00), interessante sotto diverse angolazioni. Anzitutto per il metodo espositivo. Gli psicanalisti, per correttezza etica, non dovrebbero rendere pubbliche le confidenze che ricevono dai clienti: alcuni le riportano con la protezione dell’anonimato, ma c’è sempre chi potrebbe ugualmente riconoscersi o riconoscere qualcun altro, rischio che Risé non intende correre. C’è però un cliente di Risé che è ben felice di mettere a disposizione le proprie esperienze, e quel cliente è Risé stesso. Il libro, dunque, è scritto in prima persona, e l’autobiografia dà risalto letterario alla spigliata narrazione scientifica.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Rubriche/Pagine/Leggere,%20rileggere/Rise%20trova%20nel%20dono%20la%20chiave%20della%20felicita_20140716.aspx?rubrica=Leggere,%20rileggere
Claudio Risé, psicanalista di fama internazionale, ripropone, aggiornato, un suo lavoro del 2004, Felicità è donarsi. Contro la cultura del narcisismo (San Paolo, pagine 144, euro 14,00), interessante sotto diverse angolazioni. Anzitutto per il metodo espositivo. Gli psicanalisti, per correttezza etica, non dovrebbero rendere pubbliche le confidenze che ricevono dai clienti: alcuni le riportano con la protezione dell’anonimato, ma c’è sempre chi potrebbe ugualmente riconoscersi o riconoscere qualcun altro, rischio che Risé non intende correre. C’è però un cliente di Risé che è ben felice di mettere a disposizione le proprie esperienze, e quel cliente è Risé stesso. Il libro, dunque, è scritto in prima persona, e l’autobiografia dà risalto letterario alla spigliata narrazione scientifica.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Rubriche/Pagine/Leggere,%20rileggere/Rise%20trova%20nel%20dono%20la%20chiave%20della%20felicita_20140716.aspx?rubrica=Leggere,%20rileggere
PHILIPPE GARREL RACCONTA LA GELOSIA
di Luca Romano, huffingtonpost.it, 17 luglio 2014
Dopo quasi un anno dalla sua presentazione ufficiale al settantesimo Festival di Venezia del 2013, è in questi giorni nelle sale La Gelosia di Philippe Garrel. È passato anche più tempo, invece, da quando Moravia scrisse e raccontò il problema della famiglia nella società italiana (e non solo). La famiglia era il nucleo fondante della società e contemporaneamente il fulcro dei tabù e delle psicopatologie. Moravia, ereditando una tradizione europea aperta da Freud agli inizi del ’900, e in quegli anni portata avanti da gran parte della cultura filosofica e letteraria continentale, auspicava il cambiamento della struttura familiare chiusa, in funzione prevalentemente degli amori e delle amicizie.
Oggi a circa ventiquattro anni dalla morte dello scrittore romano, nelle sale italiane possiamo vedere La Gelosia, l’ultimo film di uno dei più grandi cineasti francesi, strutturato sulla vita di Louis (interpretato da Louis Garrel), della sua ex compagna (Rebecca Convenant) dalla quale ha avuto Charlotte (Olga Milshtein), e della nuova compagna Claudia (Anna Mouglalis) con la quale convive.
La struttura familiare è ampliata, aperta, la figlia vive con la madre e vede con gioia il padre e la sua nuova compagna, tutto è moraviamente perfetto, o quantomeno accettato, sino a quando la costruzione cede e tutto si ferma davanti ad un “ti amo definitivamente” sussurrato sul letto da Louis a Claudia. Gli amori cedono il posto all’amore. La socialità e l’apertura alla chiusura di una coppia. Ma il desiderio allontana con la stessa forza con la quale avvicina, creare rapporti, tra amici o con gli amori, diventa quasi impossibile: il destino è sempre il fallimento. Adattarsi a questo per Louis diventa inaccettabile.
L’intento di Philippe Garrel di mettere in mostra le pulsioni attrattive e sessuali, in questo caso femminili, che sino ad oggi sono state attribuite quasi esclusivamente agli uomini, riconduce tutto al tema della gelosia, dell’amore, del rapporto tra due persone inteso come incapacità di comprendere l’altro.
Davanti a quel “ti amo definitivamente” tutta la psicanalisi del ’900, la psicopatologia, la distruzione della famiglia nell’accezione contemporanea, come evoluzione sociale, ipotizzata da Moravia, si ferma e acquista un senso al di sopra del senso stesso, un senso illogico, non razionale, non interpretabile.
Ed è in questo confronto che Garrel trasforma ancora il concetto di famiglia e il concetto di rapporto. Viene narrata l’impossibilità di una relazione che sia funzionale ad un progetto, la relazione è totalmente pulsionale, soggetta quindi a cambiamenti, a trasformazioni rapide. Essendo non razionale, non logica, la relazione avviene come finzione e la finzione si può reggere solo in un sistema di incomunicabilità e di incomprensione, sistema nel quale l’uomo necessariamente si ritrova, ma questa è ancora una volta una analisi impostata sul ragionamento logico, incapace di comprendere la pulsione stessa.
Infatti, in contrasto con Moravia, Garrel rimette al centro il rapporto tra padre e figlia e tra fratello e sorella. Lì le pulsioni cedono il posto alla comprensione, allo spazio di smascheramento della finzione stessa, lì Garrel mostra una comunicabilità minima possibile. Ne La Gelosia tutto sembra messo in mostra per ridiscutere il sistema di rapporti esistente, lì proprio dove Moravia, con la sua morte, aveva smesso di raccontare e di mettere in discussione la famiglia, Garrel, in questo caso, riprende la traccia e continua una ricerca che è destinata a modificare la società ad ogni nuovo approdo.
http://www.huffingtonpost.it/luca-romano/philippe-garrel-gelosia_b_5594305.html?utm_hp_ref=italy
CHIMERE, IL SOGNO DI PIETRA DI VIOLLET-LE-DUC
Dopo quasi un anno dalla sua presentazione ufficiale al settantesimo Festival di Venezia del 2013, è in questi giorni nelle sale La Gelosia di Philippe Garrel. È passato anche più tempo, invece, da quando Moravia scrisse e raccontò il problema della famiglia nella società italiana (e non solo). La famiglia era il nucleo fondante della società e contemporaneamente il fulcro dei tabù e delle psicopatologie. Moravia, ereditando una tradizione europea aperta da Freud agli inizi del ’900, e in quegli anni portata avanti da gran parte della cultura filosofica e letteraria continentale, auspicava il cambiamento della struttura familiare chiusa, in funzione prevalentemente degli amori e delle amicizie.
Oggi a circa ventiquattro anni dalla morte dello scrittore romano, nelle sale italiane possiamo vedere La Gelosia, l’ultimo film di uno dei più grandi cineasti francesi, strutturato sulla vita di Louis (interpretato da Louis Garrel), della sua ex compagna (Rebecca Convenant) dalla quale ha avuto Charlotte (Olga Milshtein), e della nuova compagna Claudia (Anna Mouglalis) con la quale convive.
La struttura familiare è ampliata, aperta, la figlia vive con la madre e vede con gioia il padre e la sua nuova compagna, tutto è moraviamente perfetto, o quantomeno accettato, sino a quando la costruzione cede e tutto si ferma davanti ad un “ti amo definitivamente” sussurrato sul letto da Louis a Claudia. Gli amori cedono il posto all’amore. La socialità e l’apertura alla chiusura di una coppia. Ma il desiderio allontana con la stessa forza con la quale avvicina, creare rapporti, tra amici o con gli amori, diventa quasi impossibile: il destino è sempre il fallimento. Adattarsi a questo per Louis diventa inaccettabile.
L’intento di Philippe Garrel di mettere in mostra le pulsioni attrattive e sessuali, in questo caso femminili, che sino ad oggi sono state attribuite quasi esclusivamente agli uomini, riconduce tutto al tema della gelosia, dell’amore, del rapporto tra due persone inteso come incapacità di comprendere l’altro.
Davanti a quel “ti amo definitivamente” tutta la psicanalisi del ’900, la psicopatologia, la distruzione della famiglia nell’accezione contemporanea, come evoluzione sociale, ipotizzata da Moravia, si ferma e acquista un senso al di sopra del senso stesso, un senso illogico, non razionale, non interpretabile.
Ed è in questo confronto che Garrel trasforma ancora il concetto di famiglia e il concetto di rapporto. Viene narrata l’impossibilità di una relazione che sia funzionale ad un progetto, la relazione è totalmente pulsionale, soggetta quindi a cambiamenti, a trasformazioni rapide. Essendo non razionale, non logica, la relazione avviene come finzione e la finzione si può reggere solo in un sistema di incomunicabilità e di incomprensione, sistema nel quale l’uomo necessariamente si ritrova, ma questa è ancora una volta una analisi impostata sul ragionamento logico, incapace di comprendere la pulsione stessa.
Infatti, in contrasto con Moravia, Garrel rimette al centro il rapporto tra padre e figlia e tra fratello e sorella. Lì le pulsioni cedono il posto alla comprensione, allo spazio di smascheramento della finzione stessa, lì Garrel mostra una comunicabilità minima possibile. Ne La Gelosia tutto sembra messo in mostra per ridiscutere il sistema di rapporti esistente, lì proprio dove Moravia, con la sua morte, aveva smesso di raccontare e di mettere in discussione la famiglia, Garrel, in questo caso, riprende la traccia e continua una ricerca che è destinata a modificare la società ad ogni nuovo approdo.
http://www.huffingtonpost.it/luca-romano/philippe-garrel-gelosia_b_5594305.html?utm_hp_ref=italy
CHIMERE, IL SOGNO DI PIETRA DI VIOLLET-LE-DUC
di Maurizio Cecchetti, avvenire.it, 17 luglio 2014
Durante i quattro mesi in cui soggiornò a Parigi, fra l’ottobre 1885 e il febbraio 1886, grazie a una borsa di studio che gli consentì di seguire le lezioni alla Salpêtrière del neurologo Jean-Martin Charcot, il precursore degli studi sull’isteria, pare che il giovane Sigmund Freud avesse scelto come spazio di meditazione la grande balaustra che attraversa la facciata ovest di Notre-Dame. Era uno dei luoghi parigini prediletti dal futuro padre della psicoanalisi, dove si recava molto spesso.
Ci si può chiedere quale fosse la ragione che spingeva Freud verso quel luogo, forse la risposta sta nelle celebri chimere che decorano la balaustra sopra la Galleria dei re. Sono 54 e rappresentano animali più o meno fantastici: uccelli incappucciati, draghi volanti e barbuti, demoni pensosi come la cosiddetta «Strige» altresì nota come «Vampiro», mostri divoratori, gatti-pantere, cani rabbiosi, demoni unicornini, arpie, cormorani, leopardi e piccoli elefanti, pellicani e basilischi, orsi e ibridi di felini… c’è anche uno strano personaggio, l’unico ad avere parvenza umana, l’alchimista, detto anche l’«ebreo errante». Sono mostri che hanno tutte le qualità implicite delle «teratologie» medievali, simili, o in qualche modo derivati da disegni che si vedono spesso sui bordi dei libri miniati, che in quanto tali sono chiamati marginalia.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/chimere-il-sogno-di-pietra.aspx
RECALCATI, ELOGIO DEL PERDONO (E DELL’AMORE)
Durante i quattro mesi in cui soggiornò a Parigi, fra l’ottobre 1885 e il febbraio 1886, grazie a una borsa di studio che gli consentì di seguire le lezioni alla Salpêtrière del neurologo Jean-Martin Charcot, il precursore degli studi sull’isteria, pare che il giovane Sigmund Freud avesse scelto come spazio di meditazione la grande balaustra che attraversa la facciata ovest di Notre-Dame. Era uno dei luoghi parigini prediletti dal futuro padre della psicoanalisi, dove si recava molto spesso.
Ci si può chiedere quale fosse la ragione che spingeva Freud verso quel luogo, forse la risposta sta nelle celebri chimere che decorano la balaustra sopra la Galleria dei re. Sono 54 e rappresentano animali più o meno fantastici: uccelli incappucciati, draghi volanti e barbuti, demoni pensosi come la cosiddetta «Strige» altresì nota come «Vampiro», mostri divoratori, gatti-pantere, cani rabbiosi, demoni unicornini, arpie, cormorani, leopardi e piccoli elefanti, pellicani e basilischi, orsi e ibridi di felini… c’è anche uno strano personaggio, l’unico ad avere parvenza umana, l’alchimista, detto anche l’«ebreo errante». Sono mostri che hanno tutte le qualità implicite delle «teratologie» medievali, simili, o in qualche modo derivati da disegni che si vedono spesso sui bordi dei libri miniati, che in quanto tali sono chiamati marginalia.
Per continuare:
http://www.avvenire.it/Cultura/Pagine/chimere-il-sogno-di-pietra.aspx
RECALCATI, ELOGIO DEL PERDONO (E DELL’AMORE)
di Luigi Giorgi, europaquotidiano.it, 20 luglio 2014
Il pregio del volume di Massimo Recalcati «Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa», Raffaello Cortina Editore, è quello di trattare con tono scorrevole, chiaro e convincente questioni che hanno, in un modo o in un altro, in maniera più o meno intensa e coinvolgente, riguardato la vita di molti di noi: l’amore e il perdono.
Quello che emerge come prima cosa dall’analisi di Recalcati, fra i più noti psicanalisti italiani, è che pochi sentimenti muovono il mondo come l’amore.
Forse il più potente di tutti. Il cui centro, nell’inspiegabilità e casualità di un’emozione così forte si trova, a mio parere, nella citazione che l’autore fa da Sartre, per cui la vera gioia dell’amore sta nel fatto che: «per via dell’amore dell’Altro, io vengo salvato dalla mia fatticità, che, in altri termini, io non esisto più per caso, privo di senso, non sono più “di troppo” nel mondo, la mia esistenza non è qui per niente, ma diventa il “senso” della vita dell’Altro, ciò che dà significato a quella vita e che da quella vita attinge reciprocamente il suo significato. È questa la gioia dell’amore quando c’è. La mia esistenza, che non è mai il fondamento di se stessa, una volta amata si trova ad esistere perché è voluta dell’Altro nei suoi minimi particolari, per “tutto”».
Da questa asserzione così intensa e bella nascono tutta una serie di questioni, fra cui quella del perdono quando qualcosa si inceppa o si rompe nella vita amorosa che si voleva per sempre («se l’amore salva la vita associandola al senso, la perdita dell’amore la rigetta nella violenza primitiva del non-senso» scrive Recalcati). È possibile questa opzione?
L’operazione è lunga ci spiega l’autore, ed è un lavoro su se stessi che deve andare in profondità ma lo stesso ci avverte che: «può essere impossibile perdonare perché non si vuole venire meno alla grandezza dell’incontro che si voleva per sempre […] L’impossibilità del perdono può essere grande come il perdono».
L’analisi affronta anche il dramma della violenza sulla donna e del femminicidio. Recalcati descrive come uomini e donne «parlino» due «lingue differenti»: «La lingua straniera della donna può far innamorare o imbestialire gli uomini […] Il carattere straniero della lingua delle donne […] si rifiuta all’alfabeto fallico fondato sul dominio ottuso dell’avere e della proprietà». È quando questa incomprensione diventa intolleranza che scatta la violenza.
Egli parla di una assenza di cultura negli uomini: «Il rifiuto di apprendere la lingua straniera delle donne mostra come la violenza dei maschi verso le donne sia sempre senza cultura in questo senso profondo […] L’assenza di cultura consiste nel rifiuto pervicace di apprendere l’alfabeto dell’amore».
L’autore tocca argomenti che potremmo definire archetipici ma di una importanza straordinaria. E parlando dell’amore e del perdono non può, e non vuole, eludere il messaggio evangelico dell’amore gratuito (come sono tutti gli amori veri) di Dio incarnato attraverso il suo unico figlio verso l’uomo; fino all’esempio sommo di perdono: quello esercitato da Gesù verso l’adultera (definito in maniera molto significativa).
D’altra parte dalla potenza eterna dell’amore di Dio verso suo figlio si passa mutatis mutandis al fatto che, scrive Recalcati, l’esigenza che sia per sempre, presente in ogni vero grande amore, affermi: «in modo inattuale che il legame d’amore non è affatto destinato a dissolversi nel tempo, ma che in esso fa la sua apparizione la sospensione del tempo come figura irruente dell’eterno».
Attraverso l’amore l’eterno entra nello scorrere del tempo, quasi lo ferma, determinando cioè l’aspirazione di tutti alla continua ripetizione di quell’attimo, di quel momento così forte, così penetrante e così bello, dove il mondo non è più visto, ci ricorda l’autore, nella prospettiva dell’Uno ma in quella del Due. Da ciò tutto proviene e ogni cosa si muove sia a livello personale che comunitario (può l’amore, in forza di tale diade, essere considerata una categoria politica?). Fatto sta che, parafrasando Dante, da ciò si mettono in movimento il sole e l’altre stelle… e non se ne può fare a meno.
http://www.europaquotidiano.it/2014/07/20/recalcati-elogio-del-perdono-e-dellamore/
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Il pregio del volume di Massimo Recalcati «Non è più come prima. Elogio del perdono nella vita amorosa», Raffaello Cortina Editore, è quello di trattare con tono scorrevole, chiaro e convincente questioni che hanno, in un modo o in un altro, in maniera più o meno intensa e coinvolgente, riguardato la vita di molti di noi: l’amore e il perdono.
Quello che emerge come prima cosa dall’analisi di Recalcati, fra i più noti psicanalisti italiani, è che pochi sentimenti muovono il mondo come l’amore.
Forse il più potente di tutti. Il cui centro, nell’inspiegabilità e casualità di un’emozione così forte si trova, a mio parere, nella citazione che l’autore fa da Sartre, per cui la vera gioia dell’amore sta nel fatto che: «per via dell’amore dell’Altro, io vengo salvato dalla mia fatticità, che, in altri termini, io non esisto più per caso, privo di senso, non sono più “di troppo” nel mondo, la mia esistenza non è qui per niente, ma diventa il “senso” della vita dell’Altro, ciò che dà significato a quella vita e che da quella vita attinge reciprocamente il suo significato. È questa la gioia dell’amore quando c’è. La mia esistenza, che non è mai il fondamento di se stessa, una volta amata si trova ad esistere perché è voluta dell’Altro nei suoi minimi particolari, per “tutto”».
Da questa asserzione così intensa e bella nascono tutta una serie di questioni, fra cui quella del perdono quando qualcosa si inceppa o si rompe nella vita amorosa che si voleva per sempre («se l’amore salva la vita associandola al senso, la perdita dell’amore la rigetta nella violenza primitiva del non-senso» scrive Recalcati). È possibile questa opzione?
L’operazione è lunga ci spiega l’autore, ed è un lavoro su se stessi che deve andare in profondità ma lo stesso ci avverte che: «può essere impossibile perdonare perché non si vuole venire meno alla grandezza dell’incontro che si voleva per sempre […] L’impossibilità del perdono può essere grande come il perdono».
L’analisi affronta anche il dramma della violenza sulla donna e del femminicidio. Recalcati descrive come uomini e donne «parlino» due «lingue differenti»: «La lingua straniera della donna può far innamorare o imbestialire gli uomini […] Il carattere straniero della lingua delle donne […] si rifiuta all’alfabeto fallico fondato sul dominio ottuso dell’avere e della proprietà». È quando questa incomprensione diventa intolleranza che scatta la violenza.
Egli parla di una assenza di cultura negli uomini: «Il rifiuto di apprendere la lingua straniera delle donne mostra come la violenza dei maschi verso le donne sia sempre senza cultura in questo senso profondo […] L’assenza di cultura consiste nel rifiuto pervicace di apprendere l’alfabeto dell’amore».
L’autore tocca argomenti che potremmo definire archetipici ma di una importanza straordinaria. E parlando dell’amore e del perdono non può, e non vuole, eludere il messaggio evangelico dell’amore gratuito (come sono tutti gli amori veri) di Dio incarnato attraverso il suo unico figlio verso l’uomo; fino all’esempio sommo di perdono: quello esercitato da Gesù verso l’adultera (definito in maniera molto significativa).
D’altra parte dalla potenza eterna dell’amore di Dio verso suo figlio si passa mutatis mutandis al fatto che, scrive Recalcati, l’esigenza che sia per sempre, presente in ogni vero grande amore, affermi: «in modo inattuale che il legame d’amore non è affatto destinato a dissolversi nel tempo, ma che in esso fa la sua apparizione la sospensione del tempo come figura irruente dell’eterno».
Attraverso l’amore l’eterno entra nello scorrere del tempo, quasi lo ferma, determinando cioè l’aspirazione di tutti alla continua ripetizione di quell’attimo, di quel momento così forte, così penetrante e così bello, dove il mondo non è più visto, ci ricorda l’autore, nella prospettiva dell’Uno ma in quella del Due. Da ciò tutto proviene e ogni cosa si muove sia a livello personale che comunitario (può l’amore, in forza di tale diade, essere considerata una categoria politica?). Fatto sta che, parafrasando Dante, da ciò si mettono in movimento il sole e l’altre stelle… e non se ne può fare a meno.
http://www.europaquotidiano.it/2014/07/20/recalcati-elogio-del-perdono-e-dellamore/
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CUORE E DENARI: “SENZA SEGRETI?”
da radio24.ilsole24ore.com, 16 luglio 2014
Stando alle indiscrezioni Kate, la contessa di Cambridge, aspetterebbe un bambino. Un dolce segreto che potrebbe essere svelato tra qualche settimana, che ci dà lo spunto per dedicare proprio ai segreti questa puntata di Cuore e Denari. Il segreto intriga. Ci attira e ci incuriosisce perché l’uomo è un animale curioso e naturalmente orientato a conoscere. Proveremo a declinare la parola segreto in diversi ambiti: amore, relazioni, amicizia, ma anche salute e lavoro. Qual è il limite della nostra privacy sul posto di lavoro? Cosa siamo tenuti a dire e cosa invece è meglio non dire sulla nostra salute e sulla nostra vita personale? Fino a che punto un datore di lavoro può controllarci? Ne parliamo con i nostri esperti.
Quello del segreto è un fenomeno delicato e complesso che ha tante declinazioni. Succede una cosa strana siamo gelosi dei nostri segreti e della nostra privacy, ma difficilmente resistiamo alla tentazione di scoprire quegli degli altri e facciamo molta fatica a tenere un segreto che ci è stato confidato. Ne parliamo con il dr. Luigi Ballerini medico, scrittore e psicoanalista freudiano e autore di Click! (Editore EL).
Qual è il limite della nostra privacy sul posto di lavoro? Cosa siamo tenuti a dire e cosa invece è meglio non dire sulla nostra salute e sulla nostra vita personale? Fino a che punto un datore di lavoro può controllarci? Ne parliamo con l’avvocato Giampiero Falasca – giuslavorista, socio dello studio legale Dla Piper ed esperto per Il Sole 24 Ore.
Clicca su riascolta la puntata:
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/cuoridenari/2014-07-16/senza-segreti-105908.php?idpuntata=gSLA12dNj&date=2014-07-16
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
Stando alle indiscrezioni Kate, la contessa di Cambridge, aspetterebbe un bambino. Un dolce segreto che potrebbe essere svelato tra qualche settimana, che ci dà lo spunto per dedicare proprio ai segreti questa puntata di Cuore e Denari. Il segreto intriga. Ci attira e ci incuriosisce perché l’uomo è un animale curioso e naturalmente orientato a conoscere. Proveremo a declinare la parola segreto in diversi ambiti: amore, relazioni, amicizia, ma anche salute e lavoro. Qual è il limite della nostra privacy sul posto di lavoro? Cosa siamo tenuti a dire e cosa invece è meglio non dire sulla nostra salute e sulla nostra vita personale? Fino a che punto un datore di lavoro può controllarci? Ne parliamo con i nostri esperti.
Quello del segreto è un fenomeno delicato e complesso che ha tante declinazioni. Succede una cosa strana siamo gelosi dei nostri segreti e della nostra privacy, ma difficilmente resistiamo alla tentazione di scoprire quegli degli altri e facciamo molta fatica a tenere un segreto che ci è stato confidato. Ne parliamo con il dr. Luigi Ballerini medico, scrittore e psicoanalista freudiano e autore di Click! (Editore EL).
Qual è il limite della nostra privacy sul posto di lavoro? Cosa siamo tenuti a dire e cosa invece è meglio non dire sulla nostra salute e sulla nostra vita personale? Fino a che punto un datore di lavoro può controllarci? Ne parliamo con l’avvocato Giampiero Falasca – giuslavorista, socio dello studio legale Dla Piper ed esperto per Il Sole 24 Ore.
Clicca su riascolta la puntata:
http://www.radio24.ilsole24ore.com/programma/cuoridenari/2014-07-16/senza-segreti-105908.php?idpuntata=gSLA12dNj&date=2014-07-16
(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)
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