Dal momento che Mario Galzigna ha dato il via con la sua lettera aperta ai firmatari, provo a spiegare anche le mie riserve sulla proposta della filosofa e deputata Michela Marzano (con la firma di Prestigiacomo, Binetti, Vezzali, Civati e molti altri) di "introduzione dell'articolo 580-bis del codice penale, concernente il reato di istigazione a pratiche alimentari idonee a provocare l'anoressia, la bulimia o altri disturbi del comportamento alimentare". Articolo che avrebbe nel mirino i siti "pro-ana" e pro-mia" e chi li gestisce, che diventerebbe così passibile di multe fino a 50.000 euro e carcere fino a due anni.
Nelle settimane successive alla presentazione della proposta (il 19 giugno scorso) in rete il dibattito è stato piuttosto vivace e anche a me è capitato di scrivere qualcosa, in Facebook o sul mio blog, portando considerazioni suggerite dalla mia esperienza di psicologo clinico e psicoterapeuta.
Ho raccolto molti commenti che esprimono posizioni per lo più contrarie alla proposta: la critica si rivolge in sostanza all'introduzione di strumenti punitivi in un territorio che dovrebbe essere quello della cura. Quelli favorevoli, o comunque meno ostili, si dividono suppergiù in tre categorie.
La prima – rappresentata ad esempio dalla maggioranza dei commenti sulla pagina Facebook di Michela Marzano ma anche di collaboratori di Pippo Civati che ho interpellato, e da opinionisti di quotidiani e riviste – trova ragionevole e persino "coraggioso", in presenza di un problema, contrapporgli qualunque comportamento possa essere connotato come "lotta" a quel problema.
La seconda, costituita anche di colleghi ragionevoli e preparati, nutre dubbi davanti alle minacce di misure carcerarie ma apprezza che si ponga il problema della vera o presunta pericolosità dei siti pro-ana.
La terza categoria è quella di professionisti (magari "psy") che, da una posizione anti-psicoqualunquecosa, pur di sottrarre terreno alle competenze "psy" – viste come autoritarie – delegittimano gli autori delle critiche "psy" alla proposta, ancor prima di considerarne gli argomenti, preferendo qualunque soluzione – anche poliziesca, repressiva, autoritaria – si distacchi da quei saperi.
Questa posizione del tipo "quando sento parlare di psicologia metto mano alla pistola" è quella più impermeabile e, in fin dei conti, disinteressata agli argomenti: anche se pare tanto simile a quella che anima la proposta di legge. I firmatari lamentano infatti che "gli studi condotti in Italia sui disordini del comportamento alimentare sono ancora relativamente pochi, e per la maggior parte limitati a realtà regionali", scegliendo così di negare l'esistenza di una vastissima bibliografia italiana sull'argomento che ha influenzato clinici di mezzo mondo. Certo, si tratta spesso di letteratura qualitativa, che non produce numeri e che spesso lascia indifferente l'accademia perché più che percentuali produce storie personali e resoconti clinici. Poco utile a contare, molto di più a comprendere. Nel mio piccolo, qualche esiguo contributo ho provato anch'io a darlo: di uno di questi ho raccontato in questo dialogo con Pietro Barbetta.
Ecco, nella proposta di quei parlamentari trovo scarso interesse a comprendere. E questo è un problema, perché quando si parla di fenomeni umani, siamo non tanto nel campo delle "cose" ma in quello dei "significati". E nel campo dei significati la faccenda si complica, perché quando si riponde a un comportamento (per esempio, quello di chi scrive su un sito che esalta il digiuno estremo) con un altro comportamento (minacciare la galera) anche le risposte non sono "cose" oggettive, ma rivestono dei significati, da cui discendono degli effetti. E i significati non sono, per un'anoressica che scrive su un sito, necessariamente gli stessi condivisi da chi firma una legge. Se si parla di "cose" si risolve un problema contrapponendogli una forza uguale e contraria. Se si parla di "significati", no.
Ad esempio, dando pure per scontato che quei siti contribuiscano, come dire?, a "diffondere l'anoressia", se davvero rappresentano per tante ragazze un punto di coesione e di appartenenza tanto irresistibile, che significato assumerà per quel senso di appartenenza la minaccia dell'uso della forza?
Questo è l'argomento che mi è capitato più spesso di controbattere alla prima delle categorie citate più su, quella – diciamo – di "buon senso". L'anoressia non è un "oggetto" e non è una strana disfunzione che sta nella testa di qualcuno. Non è una "malattia" che si può "contrarre". L'anoressia è soprattutto una relazione. È una sfida, una competizione defatigante che coinvolge la digunatrice (qualche volta il digiunatore) e le persone che ha intorno. I "53 consigli" di questo sito pro-ana sono una dichiarazione di fede nella religione del controllo di sé e del prossimo: "fai 6 piccoli pasti al giorno. Prendi 2 mele, e dividile così da avere 6 pasti. In questo modo ingannerai il tuo corpo, il quale penserà che sta mangiando di più", oppure "preparati uno snack, ma anziché mangiarlo gettalo via. Lascia il piatto sporco dove i tuoi genitori lo possano trovare, così penseranno che tu abbia mangiato", e così via.
Se si decide di entrare in quella sfida menando le mani, si deve essere consapevoli delle conseguenze: il rischio è quello di pensare di rompere il gioco giocando lo stesso gioco.
Un libro di tanti anni fa, forse datato per molti aspetti e certamente da contestualizzare nel suo peculiare periodo storico, ma che conserva una decisiva e profonda consapevolezza di quanto i comportamenti umani apparentemente più folli siano messaggi dentro rapporti interpersonali, manifestazioni emergenti nelle relazioni, parlava della hybris, della "tensione simmetrica esasperata al punto da non arrendersi di fronte all'evidenza e alla stessa imminenza di morte […]". Descriveva come l'anoressia emergesse da una storia di tentativi di controllo nella definizione della relazione, e di come i partecipanti a quel tentativo di controllo sostenessero il costo emotivo di una esasperante lotta simmetrica, e di come il problema si nutrisse di quella lotta. Il libro era "Paradosso e controparadosso", di Mara Selvini Palazzoli, Luigi Boscolo, Gianfranco Cecchin e Giuliana Prata.
Oggi siamo certamente meno disponibili a vedere la vita (e la cura!) come un eterno braccio di ferro, ma l'insegnamento che resta è che tutto è relazione, e che nessuno dovrebbe entrare in un problema, anche con le migliori intenzioni, senza prima domandarsi seriamente se quello che sta per fare sia parte della soluzione o del problema stesso.
D'altra parte, sia che questo post riesca a raggiungere i firmatari della legge, sia che resti fra noi, vorrei prendere sul serio anche la posizione secondo la quale la proposta di legge pone anche una domanda importante: è vero o non è vero che quei siti che propagandano l'eroismo del dimagrimento radicale sono un reale incoraggiamento per quei comportamenti? In che misura costituiscono un rinforzo per le ragazze che digiunano, e in che misura un incentivo per chi non abbia ancora cominciato?
Nessuno di noi conosce una risposta certa e definitiva, e questo dovrebbe quantomeno sconsigliare di agitare manette e minacce di multe milionarie. Dovrebbe piuttosto consigliarci di provare a conoscere meglio. Ma di quella porzione di rete, che ci ripugna e che ci immaginiamo come una discarica di incubi di autodistruzione, sappiamo davvero poco: tanto che la stessa proposta di legge cita numeri palesemente assurdi (trecentomila solo in Italia!).
Della ricerca di cui parlo nel video linkato più su con Pietro Barbetta, che ne fu il coordinatore e che mi coinvolse nel lavoro, faceva parte un lavoro che è raccontato e approfondito nel suo libro "Anoressia e isteria". Alcune colleghe chiesero l'iscrizione a una mailing list di ragazze anoressiche. Quando non c'erano i siti pro-ana, c'erano questi gruppi di discussione on line, di cui Barbetta, Benini e Naclerio scrivevano:
"In un certo senso un fatto individuale si 'collettivizza' secondo un principio di mutuo aiuto. La lista crea presumibilmente le condizioni per 'aprire il palcoscenico' della dimensione strettamente personale e agire il proprio vissuto in una dimensione allargata che, a sua volta, si configura come una nuova interfaccia per il sociale."
Le colleghe che chiesero di poter seguire le conversazioni delle iscritte alla lista chiarirono i loro intenti e furono accolte con disponibilità e gratitudine. Per le ragazze che lì condividevano le loro esperienze fu una dimostrazione di interesse, da parte di una categoria che non intendeva continuare a parlare di loro senza interpellarle. Credo che sperimentarono un'attenzione da parte del mondo degli adulti che non fosse simmetrica e contrapposta come la maggior parte delle comunicazioni che ricevevano da loro.
Da quel ramo della ricerca emersero riflessioni sui modi in cui le comunità virtuali rispondevano alle esigenze delle ragazze iscritte e al loro bisogno di un contesto dove vedere accolta la propria esperienza.
Che io ricordi, non ci furono riviste che spendessero per questa esperienza aggettivi come "coraggioso", che si riservano più volentieri a chi fa la faccia dura che a chi prova ad ascoltare e conoscere interrogando la sofferenza.
Se alcuni dei firmatari di quella proposta dovessero leggere questo contributo, spero di aver suggerito loro almeno qualche buona ragione per fermarsi un po': aspettate, contate fino a dieci, magari interpellate chi in mezzo a queste cose ci vive e ci lavora. Molti saranno felici di mettere a disposizione la propria esperienza e la propria competenza.
Io della proposta di questi politici voglio conservare una preoccupazione, che mi pare sensata e che è anche mia da sempre: e cioè quella di cercare il senso di certi rapporti conflittuali col cibo non solo guardando ai cerchi concentrici prossimali della vita delle persone (psiche, relazioni familiari, ambiente vicino) ma occupandosi di quella fitta e complessissima rete di influenze che passa anche per i media e la cultura. Solo per fare un esempio, quanto sarebbe utile occuparsi di come attraverso la comunicazione di massa si costruisce un'idea di alimentazione, corpo e piacere, in un momento in cui i reality show di punta ruotano intorno al cibo e alla sua preparazione: ma anziché associarlo al godimento e alla convivialità se ne fa un oggetto di competizione, dove una omelette fa di te un vincente o un fallito.
Parliamone, allora, cerchiamo di saperne di più, ricominciamo a discutere seriamente sui modelli – dopo che per anni abbiamo pensato di ridurre la questione al rogo per le modelle degli stilisti – restituiamo ai media le responsabilità che competono loro. Ma per favore, lasciamo da parte sfoggi di muscoli che non risolvono nulla, salvo dare a una parte dell'opinione pubblica l'impressione che qualcuno sa ancora fare la voce grossa.
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