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Individuo ed istituzione

19 Set 14

A cura di Gian Maria Formenti

La psichiatria è una delle scienze umane dove quotidianamente viene vissuta la contraddizione tra l'individuo e l'istituzione, quel luogo dove viene messo in atto un sistema di azioni stabilite tra cittadini e società, finalizzate a garantire la conservazione e l'attuazione di norme sottratte all'arbitrio individuale.


 
L'istituzione si concretizza così in un dato reale, costituito da strutture visibili e contenuti condivisi in nome della norma, cioè della maggioranza dei membri di una società,  per mediare tra l’autoreferenzialità  individuale e le necessità della convivenza civile.
 
La polis, intesa come luogo in cui i cittadini soggiaciono alle stesse norme di diritto, è il momento di elezione collettivo di ogni comune mortale, a cui si sente di appartenere quando inserito organicamente nella comunità.
 
La Polis si avvale di “sotto istituzioni”, ognuna delle quali si incardina nella Istituzione principale per conseguire il benessere dei cittadini: nel rispetto delle regole che la Polis decide di darsi.
 
E' in questo contesto che si applica quel processo di inserimento di persone in stato di bisogno in percorsi a loro dedicati per la cura e la riabilitazione che spesso passa attraverso una istituzionalizzazione: una costruzione di senso solida, generalmente accettata, che  peraltro trascendendo il bisogno individuale è sempre a rischio di perdere il carattere di dinamicità acquisendo una forma stabile. 
 
Ma la storia ci racconta che a volte capita che queste istituzioni nell’Istituzione finiscano a chiudersi in se stesse dimenticandosi di far parte della Polis, e da strumenti al servizio del cittadino si trasformano in entità autonome, con proprie regole, proprie leggi: costringendo gli individui, i cives che convivono al loro interno a dover far proprie dinamiche aliene.
 
Certo, per necessità dettate da svariati motivi, ed oggi quello che viene portato come principale fa parte della sfera economica: ma che qualunque sia la ragione sovvertono i fondamenti del bisogno dell’individuo.
 
L’umanità ha da sempre abitato il mondo dando prima di tutto una forma alle due coordinate fondamentali dell’esperienza: il tempo e lo spazio.
Annullare spazio e tempo significa eliminare le due categorie fondamentali dell'esistenza, la cui interpretazione si trova alla base della stessa indagine fenomenologica e psicopatologica. 
Queste due categorie si legano a concetti come quelli di appartenenza e di progettazione, e dell’alienazione dove viene a mancare il senso della territorialità e della tensione verso il progettare, verso il divenire e il futuribile. Tendere verso qualcosa vuol dire espletare l'essenza più autentica dell'esistere: un esistere individuale innanzitutto e capace di entrare in comunicazione con i suoi simili in un determinato spazio. 
Lo spazio parte sempre dall'individuo, è centrato, per dirigersi in luoghi portatori di caratteri distintivi, casa, chiesa, ufficio, bar: grazie al luogo possono essere localizzati desideri e ricordi dell'individuo, e lo spazio interno finisce ad esprimere l'intimo della personalità.
 
La vita è, innanzi tutto, movimento, e come tale si realizza in percorsi che a volte conducono ad una meta significativa, dove il movimento si arresta e il tempo diventa permanenza affettivamente significativa: e l'ambiente conquistato attraverso luoghi e percorsi si struttura in dominio, dove avviene la presa di possesso dell'ambiente.
 
Il carcere è una di quelle sotto comunità della polis dove drammaticamente si vive la perdita dello spazio e del tempo civile.
 
La sensazione di non riuscire a disporre di sé e la mancanza concreta di possibilità di scelta, l'assenza di alternative e la sensazione di intrappolamento e di oppressione nella condizione detentiva creano un clima emotivo che diventa poi drammatico se in carcere si presenta anche una situazione di disagio psichico.
 
Ecco allora che la psichiatria all'interno del carcere, può finire in parte per svolgere un ruolo di controllo sociale se non si è in grado di elaborare con maggiore consapevolezza le cause ambientali di tali disagi.
Gli spazi interni del carcere sono dei «nonluoghi» all’interno dei quali non si creano né identità singola, né relazione, ma solitudine e similitudine ; essi non operano alcuna sintesi, non integrano nulla, autorizzano solo la coesistenza di individualità distinte simili e indifferenti le une alle altre. 
Nel «nonluogo» carcerario la dinamica di controllo si estrinseca simbolicamente ed in maniera macroscopica nella organizzazione di una struttura rigida e strategicamente pianificata all’interno della quale i singoli individui sono obbligati a muoversi meccanicamente e senza senso seguendo percorsi predefiniti e pilotati.
La percorribilità del luogo carcerario viene a volte ridefinita e riterritorializzata in atteggiamenti collettivi di protesta, segnali emblematici del bisogno di rimappare seppur momentaneamente lo spazio, di deterritorializzare questi non luoghi per tentare di immaginare una vivibilità diversa del proprio corpo attraverso la temporanea definizione di aree di autonomia e di creatività che si sottraggano alla oggettivazione dell’individuo : permettendo degli spostamenti e delle interazioni tra gli individui che, almeno nella cosciente transitorietà dell’evento, prima cioè della «repressione », possono esprimere comportamenti non codificati, ma spontanei e liberatori.
E così il carcere è luogo del non-tempo, dove la giornata coatta occupa interamente il tempo biologico del prigioniero e il non-tempo oggettivo distrugge il tempo soggettivo, e dove il prigioniero è uomo senza-tempo, privato del tempo, ma anche il “non luogo” di spazi anonimi, di corridoi tra loro comunicanti uniformati da un chiaroscuro senza vivacità, dove nel lungo canale di corridoi che portano i detenuti ai colloqui, ai diversi uffici interni predomina il grigiore comune.
 
E utopistico immaginare allora una osmosi, uno scambio continuo tra polis e “sottostrutture” comunitarie, pensare ad un allineamento tra queste strutture e la dinamicità della polis che permetta a chi per necessità si trovi inserito in tali contesti di non perdere il ruolo di attore sociale venendo cristallizzato in luoghi, tempi, dinamiche completamente avulsi da quelli che invece sarebbe opportuno poter riacquisire nel percorso di recupero?
 
E qui mi fermo, perché non ho risposte preconfezionate: se non che la presunzione che anche questi luoghi, per poter essere un ponte verso la polis, sappiano fare propria la necessità vitale per l’individuo di potersi trasformare in luoghi soggettivamente significati dagli stessi corpi che li abitano: così come la psichiatria, tra successi e sconfitte, cerca di fare con i propri liberandoli dalla cultura ospedaliera: e chiedendo agli utenti che si facciano partner nelle istituzioni partecipando in prima persona alla trasformazione, Cives nella Polis, e non oggetti in contenitori.
 

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