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Ottobre 2014 I – Caso… e paternità

18 Ott 14

A cura di Luca Ribolini

ALLA RICONQUISTA DELL’EREDITÀ PERDUTA. INCONTRO CON LO PSICOANALISTA MASSIMO RECALCATI 
di Daniele Giustolisi, siciliatoday.net, 1 ottobre 2014

Il rapporto tra padri e figli che cambia. La necessità di un nuovo patto simbolico tra le generazioni che spinga al movimento, al grande ritrovo, come per Ulisse e Telemaco.  Con una lezione magistrale su“Il modello paterno”, lo psicoanalista Massimo Recalcati è intervenuto al Festival della filosofia di Modena che quest’anno ha avuto come grande tema la Gloria.
Dottore, in Sicilia u cuntu è l’arte del racconto. Ciò che si narra esiste solo in quanto affidato alla verità della parola. Ecco, possiamo parlare della psicoanalisi come pratica della parola, in cui la parola diventa corpo e si fa portatrice di verità.
Una delle più celebri pazienti di Freud definiva la psicoanalisi come una talking cure, cioè una cura parlata. La scoperta di Freud è che la parola non esce dal corpo ma che la parola ha un corpo, che la parola agisce su un corpo, produce effetti nel corpo. In fondo il mistero dell’isteria da cui è nata la psicoanalisi è che nelle isteriche il corpo diventa una sorta di teatro della parola. Questa è la grande scoperta della psicoanalisi, cioè che i sintomi somatici del corpo sono leggibili come un discorso. Il potere della parola trasforma il soggetto, trasforma il corpo. La psicoanalisi dimostra come la parola non sia un semplice strumento della comunicazione. La parola non serve solo a comunicare. C’è una dimensione mitopoietica della parola, cioè la parola trasforma il soggetto.
Il nostro tempo come considera la psicoanalisi?
Il nostro tempo che è dominato dallo scientismo, da un ritorno al positivismo più radicale, considera la psicoanalisi come una sorta di monumento che appartiene al museo delle scienze dell’ottocento. Preferisce pensare l’inconscio strutturato come un insieme di rapporti di forze neuronali, piuttosto di pensare l’inconscio a partire dall’ esperienza del linguaggio. Il nostro tempo è un tempo che vorrebbe misurare tutto, che vorrebbe calcolare tutto. Io penso invece che l’inconscio sia ciò che non si lascia ridurre a numero, che non si lascia calcolare. Penso poi che la psicoanalisi abbia dato delle prove cliniche importanti, ha dato prova di essere uno strumento terapeutico efficace per il trattamento delle patologie gravi. Io lavoro da anni nel campo dell’anoressia e posso testimoniare che la psicoanalisi ha una grande forza terapeutica nei confronti di queste patologie. In fondo l’idea terapeutica che sta al fondo della psicoanalisi è molto semplice: un soggetto più si ammala tanto quanto più si allontana dalla verità del suo desiderio; più è soddisfatto tanto quanto più si avvicina alla verità del suo desiderio.
Nei suoi testi ritorna spesso la figura del papa afasico di Nanni Moretti. È un papa che non sa più sostenere il peso simbolico della sua parola. Cosa ne pensa di papa Francesco?
Nella mia lettura papa Francesco è ciò che resta al tempo dell’evaporazione della gloria del padre. Moretti ci mostra che il nostro tempo è il tempo in cui il balcone di S. Pietro, rappresentante della gloria del papa come simbolo della paternità in terra, è evaporato, è vuoto. Papa Francesco non propone il recupero di quella rappresentazione gloriosa della paternità, bensì propone di abitare questa assenza, di abitare questo vuoto. Per esempio con un ritorno alla parola di Gesù, da un ritorno al gesto evangelico. Non con un ritorno alla dottrina e ai suoi dogmi, ma a partire dall’ atto, dal verbo che si fa carne.
L’evaporazione del padre passa anche attraverso la cancellazione esorcistica dei suoi simboli, come avviene in alcuni grandi temi del dibattito pubblico. Ma cosa vuol dire veramente essere oggi padri?
Io penso che avere nostalgia del padre padrone, del padre che aveva l’ultima parola sul senso della vita e della morte, del bene e del male, sia sbagliato. Questo tempo è alle nostre spalle, è un tempo che si è esaurito. Noi oggi siamo di fronte al compito di ripensare la paternità. Io dico di pensarla dai piedi. E da questo punto di vista c’è paternità, al di là della biologia al di là del sangue o della familiarità, ogni qualvolta un soggetto incontra una testimonianza credibile di come si può vivere in questo mondo tenendo insieme e non opponendo la legge e il desiderio.
http://www.siciliatoday.net/quotidiano/articolo.php?Alla-riconquista-dell-eredita-perduta.-Incontro-con-lo-psicoanalista-Massimo-Recalcati-5079

DAMASIO AL CONGRESSO DEGLI PSICOTERAPEUTI: «È ORA CHE PSICANALISI E NEUROSCIENZE COLLABORINO» 
di Nicla Panciera, La Stampa TuttoScienze 1 ottobre 2014*

Indagando ogni aspetto della vita dell’uomo e dialogando con molte discipline diverse, le neuroscienze non potevano risparmiare la psicanalisi, che fornisce una spiegazione del comportamento umano, ma che con la ricerca delle sue basi biologiche condivide ben poco. Ora le prove di confronto tra i due approcci si sono intensificate, anche in seguito ai risultati di alcuni studi secondo i quali la psicoterapia provocherebbe significativi miglioramenti clinici e cambiamenti nella funzionalità del cervello. Un successo empirico che però non ne sancisce lo status di scienza. Tra i neuroscienziati che si sono occupati e hanno provato a definire il Sé – concetto cardine in psicoterapia – c’è Antonio Damasio, celebre anche presso il grande pubblico per l’impegno come scrittore. E lo scienziato portoghese, alla guida del «Brain and Creativity Institute» della University of Southern California, è uno dei personaggi che interverranno domani a Riva del Garda, invitati proprio dalla Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia riunita in congresso dal 3 al 5 ottobre. La psicoterapia, infatti, non può ignorare gli avanzamenti delle neuroscienze. Corpo, empatia, plasticità cerebrale, linguaggio: sono molti i punti di contatto e di disaccordo tra scienza e psicanalisi. Eppure «non vedo scontro, ma cooperazione. La maggior parte degli sviluppi della scienza della mente e del cervello influenzeranno il modo in cui gli interventi terapeutici verranno concepiti e messi in pratica», spiega Damasio a «Tuttoscienze». «Gli aspetti psicosomatici della mente dovrebbero essere parte di un resoconto scientifico globale del complesso mente-cervello». Che i tempi siano maturi per una svolta nel rapporto tra neuroscienze e psicanalisi?

* Segnalato da iniziativalaica.it
http://www.iniziativalaica.it/?p=21773
 

O MIO BABBINO CARO 
di Giuliano Milani, Internazionale, 2 ottobre 2014*

Simona Argentieri, Il padre materno
Einaudi, 138 pagine, 12 euro
Uno dei cambiamenti più significativi che ultimamente hanno riguardato la vita delle famiglie italiane (e non solo) è l’aumento del coinvolgimento dei padri nell’accudimento e nella cura dei figli. Che un uomo cambi un pannolino o che si svegli di notte per consolare un neonato non desta più alcuno stupore. Si tratta di una rivoluzione profonda, diffusa in molti strati sociali diversi, che è stata in generale accolta con grande soddisfazione, ma di cui tuttavia non sono ancora state misurate le conseguenze. Prova a farlo in questo libro la psicoanalista Simona Argentieri (con la collaborazione di Adolfo Pazzagli) alla luce delle sue esperienze professionali.
Si chiede che rapporto ha il diffuso esercizio di funzioni materne da parte dei padri con i disagi che gli riferiscono i pazienti in quanto genitori e in quanto figli. Emergono così alcuni lati meno rassicuranti della transizione: la volontà dei padri di risolvere la competizione con le madri spodestandole dal loro ruolo o la ricerca di strategie per eludere l’esercizio delle funzioni paterne. Queste tendenze possono minare il rapporto di coppia o avere conseguenze negative anche sui figli. Si tratta di elementi da considerare per affrontare una trasformazione comunque epocale che offre a uomini e donne “possibilità nuove di costruirsi un’identità ricca e completa, libera dalle mutilazioni e dalle scissioni del passato”.
* Il pezzo è stato pubblicato su carta il 26 settembre 2014
http://www.internazionale.it/opinioni/giuliano-milani/2014/10/02/o-mio-babbino-caro/ 

AIME-PIETROPOLLI CHARMET, ‘LA FATICA DI DIVENTARE GRANDI’. La svalutazione dei riti di passaggio costituisce il tratto saliente della mutazione antropologica in atto nella società contemporanea: il malessere di crescere, oggi 
di Michele Lauro, panorama.it, 3 ottobre 2014
 

Quali risvolti sociali, psicologici, pedagogici, culturali, antropologici e perfino economici si accompagnano alla scomparsa dei riti di passaggio nella nostra società? Come l’allentarsi delle tradizionali coordinate di riferimento ha modificato i rapporti intergenerazionali, rendendo fragili e disorientate le nuove generazioni di figli e genitori? Quali compiti dovrebbero proporsi gli educatori per non lasciare ai giovani un percorso di crescita in balia delle corporation dei consumi? Sono alcuni degli interrogativi a cui cercano di rispondere Marco Aime e Gustavo Pietropolli Charmet, in un saggio significativamente intitolato La fatica di diventare grandi. È un lavoro a quattro mani di straordinaria chiarezza divulgativa, malgrado la complessità e lo spessore delle questioni in campo. Nel presente rarefatto di conflitti tra le generazioni a bassissima intensità, l’alleanza silenziosa fra giovani e adulti ingloba la crescita in uncontinuum dai confini opachi e incerti. Ma è venuto il momento, dicono chiaro e tondo gli autori, che il compito di educare torni nelle mani consapevoli degli educatori.
Per continuare:
http://www.panorama.it/cultura/libri/aime-pietropolli-charmet-fatica-diventare-grandi/
Aime-Pietropolli Charmet, La fatica di diventare grandi, Einaudi, pp. 172, 12 euro
 

UNA SCUOLA DI PSICOANALISI TRA AFFRESCHI E MURI ANTICHI. Luigi Bianchi ha comprato un palazzo quattrocentesco di vicolo Poggio. Oggi una giornata di studi con Pieralisi inaugura la nuova sede dell’Associazione 
di Maria Antonietta Filippini, gazzettadimantova.gelocal.it, 4 ottobre 2014

Una scuola di psicoanalisi in una delle più belle case storiche di Mantova, in vicolo Poggio, zona piazza Virgiliana. E’ l’ultima “pazza idea” di Luigi Bianchi che l’ha comprata dalla famiglia Ghirardini e resa adatta – con la benedizione della sovrintendenza – ad ospitare una scuola che a giorni riceverà l’autorizzazione ministeriale per rilasciare il diploma universitario di abilitazione alla psicoterapia come sede periferica di Ravenna. Un “di più” per Mantova. Oggi, un convegno dalle 10 alle 18, inaugurerà di fatto la splendida sede. Gianni Pieralisi, responsabile della Scuola di Ravenna sarà il relatore (Il terapeuta come sonda dal controtransfert alle relazioni di ruolo) e sono attesi una cinquantina di medici e psicologi dal Nord Italia, fino ad Ancona. Pieralisi sarà anche direttore della Scuola di Mantova.
A Milano, con Milton Monteverde, fondò nel 1969 il Centro Studi di via Ariosto 68, dove si sono formati 5 mantovani che nel 2003 hanno creato l’Associazione Centro Studi di psicoterapia psicoanalitica, per fare terapia, e che dal 2007 anche formazione. Da via Nievo, l’associazione si sposta ora in questa sede tanto prestigiosa. Loro, gli allievi di Pieralisi, sono: Daniele Pollini (presidente), Lucia Faglia, Paolo Fiasconaro e Andrea Salvatori. Quest’ultimo è anche marito di Elisa Bianchi, l’architetto a capo dell’Immobiliare. Genia Lubiam, insomma. Ovvio che a Bianchi sia piaciuta l’idea di combinare gli affetti, l’affitto e la passione dell’imprenditore che “valorizza”.
Se si pensa al triste degrado di certe meravigliose dimore, Palazzo Ghirardini è finito nelle mani giuste. Salvatori, di suo, è specializzato nella psicoanalisi rivolta ai bambini, che stupisce i non addetti ai lavori, che la pensano cosa da adulti ma – ci spiega Pollini – è un filone importante che deriva dalla scuola di Londra di Anna Freud, la figlia del padre della psicanalisi. E uno dei fini che si pone l’associazione è proprio quello di fare prevenzione ai disturbi mentali lavorando con i genitori. Ma veniamo alla casa. Le prime tracce risalgono al 1400, quando – sotto i Gonzaga – l’attuale piazza era invasa dalle acque del Lago di Mezzo e ospitava il porto dell’ancona di Sant’Agnese.
La casa, dotata di un bel cortile, al piano nobile presenta affreschi ben conservati. C’è un camino datato 1401, aggiunto però dai Ghirardini. La casa fu ristrutturata nel Cinquecento, ci sono stemmi dei duchi Gonzaga, ma il rogo dell’archivio della chiesa di San Leonardo (con i lanzichenecchi nel 1630) ha cancellato la storia. Si è però certi che fino al 1670 fu della nobile famiglia Tedoldi. A caratterizzare la dimora, oltre ai tre alti camini della facciata, è il pregevole poggiolo in ferro battuto del 1500, che dà il nome alla via.
http://gazzettadimantova.gelocal.it/mantova/cronaca/2014/10/04/news/una-scuola-di-psicoanalisi-tra-affreschi-e-muri-antichi-1.10050920

CRITICA DELLA RAGION EMPATICA. Dopo il lungo successo dell’intelligenza emotiva e gli appelli di Obama, psicologi e filosofi ora scoprono che immedesimarsi negli altri non è la base della democrazia. Anzi, il più nobile dei sentimenti individuali sarebbe un ostacolo per il benessere collettivo 
di Massimo Recalcati, la Repubblica, 5 ottobre 2014*

Lo psicologo di Yale Paul Bloom ha recentemente gettato un secchio di acqua fredda sugli entusiasmi di Barack Obama relativi alle virtù dell’empatia. L’espressione «deficit di empatia» è circolata frequentemente nella retorica efficace del presidente degli Stati Uniti. Una carenza di empatia renderebbe leggibili fenomeni sociali complessi e spiegherebbe le difficoltà a vivere positivamente le relazioni intersoggettive. L’empatia è la capacità di una persona di comprendere e di far risuonare dentro di sé i pensieri e i processi psichici di un’altra persona. Più radicalmente comporta l’unione o la fusione emotiva tra esseri umani. Davvero, si chiede criticamente Bloom, può essere considerata come una delle forme più evolute del legame sociale? Sentire quello che il mio simile sente, condividere i suoi stati emotivi, sentirsi all’unisono è davvero la forma più positiva che può assumere la relazione con l’altro? Una giusta dose di empatia è necessaria in qualunque legame umano. Tuttavia è assai difficile immaginare che un chirurgo possa operare una persona a lui molto cara: la freddezza necessaria al proprio mestiere sarebbe ostacolata dall’intensità del legame affettivo con il paziente. Un eccesso di empatia sopprimerebbe quella quota necessaria di distanza affettiva che si impone nella pratica chirurgica. Questa freddezza non deve essere letta però come una semplice indifferenza nei confronti delle sorti del malato, quanto piuttosto come un modo per fare esistere una differenza necessaria. È quello che viene meno, per restare all’esempio della chirurgia, nella vicenda atroce della morte del padre di Gustave Flaubert nella ricostruzione proposta ne L’idiota della famiglia da Jean-Paul Sartre. Celebre e blasonato chirurgo, intellettuale carismatico, Achille Flaubert avrebbe incaricato il figlio primogenito — al quale aveva attribuito il suo stesso nome proprio come se fosse una brutta fotocopia — il compito di eseguire una semplice operazione sul suo corpo. Risultato: durante l’intervento il padre muore ucciso dal figlio. La trasmissione dell’eredità drammaticamente fallisce per un eccesso di immedesimazione empatica? Trasfusione dei poteri, clonazione dell’uno nell’altro, assenza di distanza, parricidio truccato da imperizia; l’esigenza della differenza collassa e lascia il posto ad una successione per identificazione integrale, ad una empatia assoluta.
Nel nostro tempo l’empatia come dose necessaria a rendere affettivamente calda una relazione tra persone si è trasformata in un’ideologia che vorrebbe rendere l’altro trasparente, simile a noi, omogeneo (vedi il recente Empathy di Roman Krznaric, citato da Bloom). Si tratta di una missione impossibile: una linea insuperabile ci separa sempre dall’altro. Pensare di costruire un legame o una comunità sull’empatia è illudersi di superare quella linea. Piuttosto un legame o una comunità degna di questo nome dovrebbe tener conto di quella linea e rinunciare ai sogni (totalitari) di assimilazione delle differenze. La democrazia è, in questo senso, anti-empatica per definizione: le differenze non sono abolite ma valorizzate, messe in relazione senza pretendere di dissolverle in una falsa omogeneità. In gradazioni diverse l’esigenza di preservare la differenza da un’empatia eccessiva ispira tutti i legami autenticamente generativi. Non si tratta evidentemente della freddezza necessaria del chirurgo — che sarebbe altamente patologica nella vita comune — ma di quella quota necessaria di solitudine che accompagna inevitabilmente ogni gesto di responsabilità. Per questa ragione Heidegger diceva che si muore sempre da soli, il che non significa affatto che si debba morire abbandonati dall’altro o senza partecipazione emotiva.
Pensiamo alla relazione tra genitori e figli. Sappiamo bene come un eccesso di prossimità rischi di assorbire quel margine di libertà da cui scaturisce la dimensione singolare della vita. È quello che ci insegnano le bugie dei bambini. La loro importanza nello sviluppo psichico non va sottovalutata. Mentire è una prima prova necessaria di libertà: il bambino deve poter custodire i propri segreti senza che nessun altro possa spiarli, deve poter verificare che nessuno possa leggere i suoi pensieri. Un eccesso di empatia nella relazione tra genitori e figli può alimentare invece l’illusione dannosa dell’indifferenziazione come segnala in modo drammatico la morte del padre di Flaubert. Per questo è sempre bene non capire sino in fondo i propri figli, non venire mai a capo del mistero della loro esistenza. I bambini hanno bisogno di non essere mai capiti del tutto, di essere almeno un po’ incompresi. Non sono forse i genitori che presumono di conoscere i propri figli sino all’ultimo capello i più sorpresi di fronte a certe loro scelte o gesti estremi?
Questa esigenza di oscurità, come si sarebbe espresso Nietzsche, non è al fondo di ogni rispetto autenticamente altruistico? L’elogio sperticato dell’empatia come capacità di immedesimazione all’altro, vorrebbe invece attenuare la solitudine della nostra singolarità rendendoci tutti più simili. La psicoanalisi insegna sempre a sospettare della spinta a renderci uguali, a cancellare le differenze soggettive. Non a caso Lacan ha fatto della critica all’empatia un motivo costante del suo insegnamento. Abbiamo non a caso conosciuto l’attitudine empatica di tutti i grandi leader totalitari e populisti nel sentirsi all’unisono con la pancia del loro popolo. Anche il genitore che pensa di sapere tutto di suo figlio perché è come lui, perché risuona in lui empaticamente, non sa lasciare spazio alla differenza. L’empatia rischia di trasformare la relazione tra due soggetti differenti in una relazione speculare tra simili. Ma è proprio con chi riteniamo più simile a noi e non con l’altro diverso che diamo il peggio di noi stessi. È il caso dell’invidia che già Aristotele faceva notare essere un sentimento che non proviamo per chi appartiene ad un mondo troppo diverso dal nostro, ma solo verso chi ci è più prossimo. Anche l’ostilità verso l’accoglienza dei disperati che sbarcano sulle nostre coste scaturisce da un processo di identificazione proiettiva: sono poveri, affamati come ciascuno di noi è o teme di diventare.
Possiamo chiederci: quali sono i legami che sanno durare creativamente nel tempo? Quelli che sanno preservare la differenza come dato inassimilabile, quelli nei quali l’altro resta l’altro, ad una distanza sufficiente per impedire quella “intimità alienata” che Adorno vedeva riflettersi impietosamente nella canottiera bianca del padre-marito sdraiato sul divano. Saper stare generativamente in un legame significa anche saperne stare sempre parzialmente fuori, permanere oscuro a se stesso. Lo sappiamo: i legami più fecondi e duraturi sono quelli che si fondano sulla capacità di stare da soli. È questa l’essenza non-empatica dell’altruismo. Altrimenti la comunità stessa rischia di scivolare verso l’identificazione totalitaria alla massa. La violenza può essere letta come il sintomo estremo dell’illusione empatica: se capisco tutto dell’altro, se mi identifico a lui, se condivido tutto con lui, se nessuno dei suoi processi psichici mi è oscuro, cade quella differenza e quel rispetto per la sua lingua straniera che solo rende possibile un legame nutrito di rispetto. Sapere tutto dell’altro, dissolvere il suo mistero in una trasparenza senza resti, finisce per cancellare la bellezza del mistero dell’alterità. Un incontro non avviene mai allo specchio. Ogni volta che accade davvero noi facciamo esperienza di ciò che ci sfugge, di ciò che non arriviamo mai del tutto a comprendere.
Segnalato iniziativaica.it e da boulzan.com
http://www.iniziativalaica.it/?p=21827
http://boulzan.com/2014/10/05/recalcati-critica-della-ragion-empatica/
 

GIOCO D’AZZARDO PATOLOGICO 
di Pietro Barbetta, doppiozero.com, 6 ottobre 2014

Il canto delle sirene costringe Ulisse a farsi legare, lo ascolta senza esserne inghiottito. Gli antichi conoscevano i pericoli dell’Aion, l’istante eterno. Finché si tratta di un fanciullo che gioca questa temporalità è necessaria e benevola, avviene dentro il legame, è un tempo circoscritto dai codici della flessibilità materna. Fuori dalla relazione, resistere alla potenza dell’Aion necessita ben altri legami, perciò l’uomo dalle personalità multiple – polytropos – si fa legare al palo con robuste corde. Vuole ascoltare senza perdere il principium individuationis. Nelle sale da gioco non ci sono orologi.
Personalità multipla è diagnosi caduta in disuso. Diffusa negli anni Novanta indicava la presenza di un disturbo mnesico importante: “A tratti, non ricordo più chi sono, sono altro”. Una donna rientra a casa con la borsa piena di pezzi di parmigiano e borsellini altrui, a volte è fermata dalla polizia che l’accusa di furto. Poi il ricovero psichiatrico. Quando la incontro mi rendo conto che fissarle il prossimo appuntamento sarà un problema. Il dionisiaco – perdita della memoria identitaria – ha bisogno dell’apollineo – il racconto; il fanciullo che gioca desidera ascoltare la voce materna che lo richiama e lo accoglie, esperienza fatica.
Il gioco d’azzardo è l’evento contemporaneo delle sirene, chi ode quei suoni è perduto, affoga prigioniero delle acque di un acquario; luci artificiali, vetri bruniti, senza richiamo alla realtà. Si dice che il problema è individuale, che si tratta di guarire la patologia individuale. Probabile che tra le ragioni del declino della personalità multipla nel nostro tempo ci sia una diffusione così capillare del fenomeno da renderlo normale: giochi finanziari, d’azzardo, giochi cibernetici, gente che non dorme la notte perché deve vendere le vacche nella fattoria virtuale, che non lavora più perché deve chattare, che si fa curare con un ansiolitico che ti fa temporaneamente scordare le vacche da vendere. Avere personalità multiple è diventato normale. È normale perdersi dietro le sirene, dimenticare il mondo. In questo clima culturale ènormale perseguire il fine di mangiarsi fuori tutto, riscattare la miseria dell’anonimato per avere in cambio l’illusione di emergere dalla folla solitaria. Il mondo è in fase di dissociazione.
Quando ero in prima elementare, il primo giorno di scuola, davanti al ritratto di Gronchi, ci regalarono un salvadanaio a forma di libro, iniziativa della banca locale, forse anche questo era gioco d’azzardo. Ci spiegarono come la virtù principale del popolo italiano fosse il risparmio; scuola elementare di provincia, come vivere in un film di Pupi Avati. Quel tipo di cultura, crescendo, ci apparve meschina, egoista, familista. Contestavamo la normalità. Quel che non sapevamo era che quella condizione era del tutto eccezionale, si era nel bel mezzo di una pace perpetua che sarebbe finita precocemente. Negli stessi anni la dissipazione si stava manifestando dove lo spirito puritano del capitalismo si dissolveva.
Secondo i dati forniti dai burocrati, i giocatori d’azzardo patologici sarebbero uguali al numero dei pazienti in cura per gioco d’azzardo patologico. Il presupposto di questi dati è che il gioco d’azzardo sia attività normale, come leggere libri, andare al cinema, bere il caffè, fare una passeggiata in montagna. Per ognuna di queste attività ci si può ammalare, se si leggono troppi libri si diventa miopi e si consulta l’oculista, se si va troppo al cine può venire il mal di schiena e si va dall’ortopedico, ecc. Invero la curafunzionale del gioco d’azzardo èfunzionale alla ripetizione del gioco d’azzardo, funziona in questo senso. Senza starci su troppo a pensare, l’esperto di gioco d’azzardo patologico è chi cura, senza cultura, il gioco d’azzardo patologico. Serie di tautologie burocratiche.
Ancor più interessante è il fenomeno educativo. La playstation è entrata nelle scuole sotto le spoglie di tablet distribuiti a piene mani con i soldi trattenuti, da anni, agli insegnanti. Secondo questa prospettiva, gli insegnanti sono diventati obsoleti. La società futura, che è già qui, può farne a meno. Può fare a meno dell’altro, della famiglia, della scuola, della comunità, della società, della vita. Si impara da soli, con un tablet in mano, si produce da soli, con il tablet, si gioca nello stesso modo. S’ingurgita cibo ordinato con il tablet al supermarket, si fa sesso chattando, ci si può sottoporre persino a una visita medica o a una seduta psicoterapeutica col tablet, le uniche azioni irriducibili al tablet sono rimaste i bisogni corporali. Forse il momento della liberazione verrà quando useremo il tablet come latrina.
L’analisi del gioco d’azzardo è una delle chiavi maestre per comprendere le derive di questa vita offesa, senza minima moralia. Il tema va affrontato in modo interdisciplinare – termine,interdisciplinare, che indica una vecchia pratica di riflessione desueta. Da qualche tempo la disciplina si è sostituita al confronto. La disciplina di curare i giocatori d’azzardo patologici, di guarirli con tecniche behavioriste, sposta la sintomatologia verso altre patologie, oppure produce miglioramenti temporanei seguiti da ricadute maggiori, è del tutto funzionale all’industria del gioco d’azzardo, si tratta di sportelli rotanti, dentro-fuori. Si possono inventare nuovi farmaci per la cura del gioco d’azzardo, le compagnie farmaceutiche investirebbero nell’acquisto di sale da gioco.
Che il gioco d’azzardo stia diventando un fenomeno devastante lo testimoniano numerose iniziative: Venerdì 26 settembre mattina, in Piazza San Fedele, a Milano, ad Aggiornamenti Sociali, si è svolto un convegno sul gioco d’azzardo. Sono intervenuti Marco Dotti, Paolo Foglizzo, Luca Sossella (l’editore che sta pubblicando Natasha SchüllAddiction by Deisgn. Machine Gambling in Las Vegas) e tanti altri studiosi e critici. Il colloquio si è sviluppato intorno a diversi temi, dall’analisi critica dei dati pubblici, con Marcello Esposito, alle devastanti implicazioni finanziarie, con Luigino Bruni, fino al degrado culturale implicato dalla diffusione di macchine slot nei bar, nelle tabaccherie, dalla diffusione di sale gioco, dalla comicità delle norme sulla distanza dai punti sensibili, fino a quanto scritto sopra intorno all’idea che non esista gioco d’azzardo patologico, ma solo giocatori patologici. È stato pure annunciato che l’Università di Bergamo aprirà, l’anno prossimo, un corso sulle patologie del gioco d’azzardo e non un corso per guarire i giocatori d’azzardo patologici, per chi vuole approfondire l’argomento. Per queste attività accademiche non si guadagnano punti sulle riviste indicizzate, altra forma del gioco d’azzardo legalizzato.
http://www.doppiozero.com/rubriche/336/201410/gioco-dazzardo-patologico
 

LE PARTICELLE ELEMENTARI DELL’ESISTENZA
di Paolo Gervasi, doppiozero.com, 6 ottobre 2014
Le esperienze artistiche piú significative del Novecento hanno scavato in profondità nella psiche umana, hanno attraversato le stratificazioni della coscienza fino a rappresentare ciò che Eric Kandel chiama “elementi primitivi emozionali”. L’intuizione già freudiana circa l’importanza delle emozioni per la strutturazione della coscienza e per l’attività psichica razionale, è stata confermata dalle ricerche di Hanna e Antonio Damasio, che hanno individuato tutti i livelli di interconnessione tra emozione e cognizione: attraverso i “marcatori somatici” il corpo traduce in informazione le reazioni fisiologiche al contesto, producendo cosí le particelle emozionali sulle quali la mente costruisce la concettualizzazione delle esperienze e la pianificazione delle azioni. I processi mentali sono regolati da un’interazione tra funzioni bottom-up ed elaborazioni top-down: un controllo cognitivo complesso regola e modula le emozioni primarie e costruisce il pensiero cosciente, inclusa la formalizzazione delle idee e l’espressione della creatività.
L’arte del Novecento rappresenta con precisione i nuclei emotivi fondamentali, il funzionamento delle emozioni come meccanismi biologici primari sui quali si basano la vita cosciente e gli aspetti nodali della comunicazione sociale. L’arte ha scoperto il doppio binario sul quale viaggiano la risposta fisiologica inconscia a una situazione ambientale, e la sua integrazione cognitiva e concettuale da parte della mente. Ha intuito quello che la neurobiologia conferma per via sperimentale: tutti gli eventi, sensoriali, emotivi, memoriali, che emergono alla coscienza cominciano in una zona inconscia, hanno un’incubazione precosciente e prerazionale.
E mentre l’attenzione cosciente riesce a concentrarsi soltanto su un numero limitato di informazioni, i processi mentali inconsci possono gestire contemporaneamente elementi diversi e distanti, in quanto fanno riferimento a una vasta rete di funzioni cerebrali specializzate e autonome. In questo senso, il pensiero inconscio si rivela piú adatto e piú efficace nell’elaborazione di situazioni complesse, che richiedono l’interazione tra molti dati e il confronto di alternative simultanee. La funzione del pensiero inconscio quindi è decisiva per i processi di elaborazione e connessione delle idee e delle immagini artistiche, anche perché spesso l’arte è il frutto di una regressione volontaria e controllata nella zona dei desideri e delle pulsioni. Con la sua capacità di gestione sincronica e collegamento di elementi e stimoli differenti, e con la sua via d’accesso privilegiata alla dinamica dei conflitti psichici, l’inconscio cognitivo (descritto tra gli altri dagli studi di Seymour Epstein) si costituisce come il luogo di incubazione della creatività.
La “nuclearità” dell’arte novecentesca ha indicato alla critica la necessità di spostare la frontiera dell’interpretabile, di scendere in profondità, di andare oltre le superfici, di comprendere il funzionamento integrato dei circuiti emozionali, l’interazione di emozioni consce e inconsce. La critica ha abbandonato la rappresentazione “molare” dei testi e dei fenomeni artistici, per approfondire l’analisi e inoltrarsi nella dimensione in cui prendono forma le particelle elementari della cognizione, i nuclei conoscitivi fondamentali descritti dall’azione congiunta di psicologia cognitiva e neuroscienze. L’inconscio cognitivo non è piú come nella visione freudiana la terra selvaggia, distruttiva, incontrollata, primordiale dell’Es: al contrario, è un luogo che comunica con la coscienza, continuamente aggiornato dall’esperienza, è la dimensione nella quale avviene la gestazione delle idee, l’osmosi e la trasfusione tra le strutture delbios e le formalizzazioni del logos.
Nella pagine di Virginia Woolf, ha scritto Eric Auerbach, “sembra che non parlino piú esseri umani, bensí ‘spirti fra cielo e terra’, spiriti senza nome che riescono a penetrare nelle profondità dell’animo umano.” Le lunghe digressioni che in To the lighthouse aprono voragini di tempo-coscienza tra un gesto e l’altro della signora Ramsay sono come “un’occhiata che da questa stanza qualcuno (chi?) avesse gettato nell’abisso del tempo”. Tutto ciò che viene detto, ascoltato, visto, percepito “è il riflesso nella coscienza dei personaggi.” Non solo non esiste “fuori dal romanzo stesso nessun punto dal quale vengono rappresentati gli uomini e gli avvenimenti”, ma non esiste nemmeno “una realtà obiettiva diversa da quella soggettiva della coscienza dei personaggi”. La soggettività del punto di vista non è però soltanto una modalità di visione superficiale, ma è uno sguardo che sprofonda, che penetra nell’abisso del tempo, che partendo da un fatto esteriore si muove verso l’interno, producendo “un aprirsi del quadro sulla profondità della coscienza.”
La scrittura scopre una dimensione altra rispetto alle coordinate spazio-temporali cartesiane, una dimensione pre-soggettiva, dove le percezioni e le cognizioni emergono lentamente, non gestite da un soggetto, ma prodotte nel buio di un ventre cognitivo, di un laboratorio biologico che precede la coscienza e l’intenzionalità, nel quale prendono forma i nuclei basilari della coscienza, separati dal loro “contenitore” antropomorfo, sganciati da qualunque “io” umano che le organizza. Paolo Godani, proprio a partire dalla scrittura di Proust e di Musil, ha chiamato “tratti” questi elementi singolari senza soggetto, indipendenti dagli individui che qualificano, e dotati della “immortalità fantasmatica di qualcosa che pulsa nell’infinita immobilità del tempo, apparendo e scomparendo senza ragione, ma restando ciò che è, aleggiante nell’eterna evanescenza dell’essere.”
È questa la dimensione nella quale si forma e cade la lacrima della signora Ramsey, il fulcro del brano scelto da Auerbach per la sua analisi: “Never did anybody look so sad. Bitter and black, half-way down, in the darkness, in the shaft which ran from the sunlight to the depths, perhaps a tear formed; e tear fell; the waters swayed this way and that, received it, and were at rest. Never did anybody look so sad.” Su queste acque primordiali si increspa una cognizione del dolore che precede ogni consapevolezza razionale, ogni mediazione intellettuale, ogni rappresentazione antropomorfa della sofferenza.
Il modo in cui questa consapevolezza abissale affiora sul volto della signora Ramsey, il modo in cui il lettore è introdotto alla conoscenza di quel volto, è obliquo, frammentato e indiretto. La modalità di visione scorciata in Woolf somiglia a quella adottata da Vermeer per mostrare, riflesso nello specchio, il volto della suonatrice nelle sueLezioni di musica. Signora al virginale e gentiluomo (1662-1665): nell’immagine triangolata dallo specchio Kandel ha riconosciuto un modo di enfatizzare “la tensione fra la realtà percepita e gli eventi reali che si svolgevano nella mente della donna.” Semir Zeki ha utilizzato questo stesso dipinto per mostrare il radicamento neurologico dell’ambiguità, interpretata non, tradizionalmente, come incertezza e vaghezza, ma come “certezza di molte condizioni diverse ed essenziali, tutte equivalenti e tutte espresse in un solo, intenso quadro; intenso perché traduce in immagini, con assoluta fedeltà, un gran numero di situazioni.”
Questo dipinto, e i tanti affini ugualmente citati da Zeki (la Donna in blu; la Donna che tiene una bilanciaLa letteraPadrona e cameriera) spiega anche perché Vermeer sia cosí diffusamente presente nelle pagine di Proust: rappresenta per Swann, e ancora di piú per il narratore, un correlativo visivo della diffrazione delle prospettive, dell’inconciliabilità dei punti di vista, dell’indefinibilità dei volti, della rete di ambiguità che attraversa il romanzo. Anche in Proust la coscienza del ricordo che dà forma al romanzo è un luogo geologico, situato in profondità, e costituito da una stratificazione degli stati psichici che la scrittura risale, per ricollocarli in una dimensione di compresenza, generata da una continuità e da una simultaneità delle condizioni psicofisiche connesse al ricordo: lo stato psichico che attiva la memoria è scritto nel corpo, nelle sue cavità biologiche, ed è lí che la scrittura va a leggerlo per restituirlo alla dinamica delle percezioni.
La frammentazione, la nuclearizzazione della trama e delle vicende dei personaggi nel romanzo moderno implica l’intuizione della struttura nucleare della realtà. E una nuclearità originaria rappresenta, secondo Antonio Damasio, l’unità biologica fondamentale dell’esistenza. Il livello primario della coscienza è unacore consciousness che rende l’individuo consapevole esclusivamente del suo qui e ora, della sua esistenza puntuale e momentanea: è un affiorare istanteneo, discontinuo, la cui durata non è garantita, dal mare dell’indistinto. Un balenare di coscienza che costruisce un sé altrettanto instabile e momentaneo, il core self, un’ombra che affianca la percezione, un alone di consapevolezza che si dispone intorno ai pattern neurali che processano l’interazione con l’ambiente e la modificazione della mente che ne consegue. Una sorta di meta-percezione, che non si distacca però dalla relazione incorporata oggetto-mente, o mente-ambiente, attraverso un’astrazione concettuale: è il fantasma di questa relazione, e si fonda sulla rappresentazione inconscia che il cervello fa dello stato dell’organismo.
Su questa provvisorietà nucleare è costruita la coscienza estesa, che introduce la dimensione temporale e identitaria della consapevolezza, e fonda il sé autobiografico, dotato di una memoria capace di collegare i punti di emergenza della coscienza nucleare e di disporli dentro un ordine narrativo, una coerenza che si dispiega nel tempo. La memoria stessa funziona come un meccanismo di riattivazione della situazione psichica e delle reazioni biologiche prodotte da un determinato evento, la cui esperienza è stata registrata nel cervello al livello della proto-coscienza. La memoria recupera la modificazione delle configurazioni mentali che era stata innescata dall’interazione con l’ambiente: alla base della memoria sta prima di tutto un ricordo sensoriale, una registrazione percettiva pre-cosciente. Anche la memoria quindi è strettamente correlata alla formazione della coscienza nucleare: la coincidenza tra la ricerca neuroscientifica e la rappresentazione letteraria dei processi psichici concepita da Proust qui diventa vertiginosa.
La consapevolezza linguistica e memoriale, che elabora le informazioni a un alto livello di formalizzazione, non è il momento primario, originario e fondativo della cognizione: le forme nucleari della coscienza precedono le inferenze e le interpretazioni, e soprattutto precedono la verbalizzazione, l’espressione grammaticalizzata nel linguaggio. Il primum della coscienza è non-verbale, la coscienza non comincia con il linguaggio: è piú sottilmente persistente, piú stabile, ma anche piú profonda, piú impalpabile e piú inudibile della sua traduzione verbale. Le modalità stesse della cognizione inducono a supporre che esista una coscienza biologica preverbale, una rappresentazione della condizione di esistere che precede il linguaggio e ne fonda le condizioni di possibilità.
La preverbalità della coscienza è un’ipotesi suggestiva, che potrebbe aiutare a comprendere la tensione diffusa nel corso del Novecento, tra gli artisti figurativi come tra gli scrittori, di risalire verso le zone liminari del pensiero, di sondare le possibilità estreme del linguaggio, la sua tenuta di fronte al limite, la sua capacità di sostenere il grandesilenzio della materia. Molta arte novecentesca resta letteralmente incomprensibile se non si assume nell’analisi questa tensione a includere nel dicibile un’esistenza puramente biologica che precede la formazione della coscienza individuale, e che vede nell’autocoscienza un incresparsi riflessivo della materia, un sussulto biologico di gran lunga precedente a ogni alfabeto, una particolare configurazione delbios ancora completamente ignara del logos.
Nell’arte del Novecento ricorre il tentativo di sondare la zona in cui avviene questo incresparsi che Damasio chiama proto-self, e il suo primo organizzarsi e “rappresentarsi”. L’arte tenta di dire ciò che avviene vicinissimo ai processi organici e biologici, interroga il momento di trapasso dal buio delle percezioni alla luce dell’autoriflessione, cerca il punto di contatto tra il bios e il logos, dove quest’ultimo non è ancora però cognitivamente strutturato. Mostra con il minimo di mediazione possibile the feeling of what happens, la sensazione prelogica (wordless), non verbalizzabile, che il mondo accade intorno all’organismo, e che l’organismo viene coinvolto e modificato da questo accadere, e che questo accadere è percepito da “qualcosa” che non è ancora un individuo, ma è un’aggregazione minima di coscienza, a sua volta resa possibile dalla semplice rappresentazione neurale dei processi, dalla registrazione dell’equilibrio biologico del corpo che avviene nel cervello.
La parola greca che definisce la mente, psyche, era utilizzata, ricorda Damasio, anche per definire il respiro e il flusso del sangue. In questa permeabilità semantica si cela forse un’intuizione originaria del fondamento biologico della cognizione, del radicamento corporeo dei processi mentali. La coscienza del sé comincia con il controllo cerebrale dei flussi sanguigni e del ritmo del respiro, e a partire da quel controllo si delineano i confini di un corpo, e la storia delle sue relazioni con l’ambiente.
Il soggetto si forma narrativamente organizzando le percezioni nucleari, come Auerbach aveva capito osservando la svolta novecentesca delle tecniche di rappresentazione della realtà: “in noi si compie ininterrottamente un processo di formazione e di interpretazione il cui soggetto siamo noi stessi. Noi cerchiamo continuamente di dare ordine, interpretandola, alla nostra vita col passato, presente e avvenire”. Ma la costruzione del nucleo soggettivo non avviene soltanto sull’asse temporale, avviene anche in relazione al contesto nel quale è immerso, che agisce sulle configurazioni cognitive: la mente/corpo si interpreta dando senso al proprio rapporto con “l’ambiente, col mondo in cui viviamo, sicché essa assume per noi un aspetto complessivo che cambia di continuo”.
Nella letteratura contemporanea Auerbach vede “una tecnica per dissolvere la realtà che passando per il prisma della coscienza si frange in aspetti e significati molteplici.” Ma non si tratta soltanto di una dissoluzione conseguente alle spinte centrifughe e disgregatrici esercitate sulla realtà dall’accelerazione semiotica ed esperienziale novecentesca. Si tratta anche di una “scomposizione” della realtà nelle sue componenti nucleari, di una ricostruzione del suo codice genetico. Nella lacrima della signora Ramsey, come nelle reminescenze proustiane e nelle epifanie joyciane, c’è il DNA dell’uomo: si tratta di oggetti nei quali è miniaturizzata l’essenza dell’esistenza umana, dai quali emana non solo “la pienezza e profondità vitale d’ogni attimo”, ma anche il nucleo di quanto “negli uomini in genere vi è di elementare e universale”, “i tratti elementari della nostra vita.”

Testi citati
Eric Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino, 1956.
Antonio Damasio, L’errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi, Milano 1995.
Antonio Damasio, Emozione e coscienza, Adelphi, Milano, 2000.
Antonio Damasio, Il sé viene alla mente. La costruzione del cervello cosciente, Adelphi, Milano, 2012.
Seymour Epstein, Integration of the cognitive and the psychodynamic unconscious, “American Psychologist”, 49 (1994): 709-724.
Paolo Godani, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma, 2014.
Eric R. Kandel, L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni, Cortina, Milano, 2012.
Semir Zeki, La visione dall’interno: arte e cervello, Bollati Boringhieri, Torino, 2003.
http://www.doppiozero.com/materiali/bioslogos/le-particelle-elementari-dell-esistenza
 
 
VIDEO 
Massimo Recalcati a "Pane quotidiano" 

da rai.tv, 1 ottobre 2014 Massimo Recalcati, ospite della trasmissione, presenta il suo libro “L’ora di lezione”. Vai al link: http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-22f071a7-261a-4423-a947-46331fcb68b5.html  

(Fonte: http://rassegnaflp.wordpress.com)

 

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