Wikipedia: “La fisiognomica o fisiognomonica o fisiognomia o fisiognomonia è una disciplina pseudoscientifica che pretende di dedurre i caratteri psicologici e morali di una persona dal suo aspetto fisico, soprattutto dai lineamenti e dalle espressioni del volto. Il termine deriva dalle parole greche physis (natura) e gnosis (conoscenza). Fin dal XVI secolo questa disciplina godette di una certa considerazione tanto da essere insegnata nelle università. La parola fisionomia è collegata a questi concetti ma in seguito venne usata fra gli studiosi la parola fisiognomica per distinguerla dall'idea di fisionomia.”
Fare lo psichiatra vuol dire essenzialmente entrare in contatto scoprire, interagire in prima istanza con volti a cui seguono con lassi di tempo a volte significativi le parole ed il reciproco vale per chi entra in contatto con noi in un luogo in un’area diversa dal “normale” incontro tra le persone, per altro nel quale, pure lì, pesa il linguaggio volontario o involontario dei volti che si incrociano.
Mi hanno sempre colpito i volti: quelli dei bambini che a volte disegnano con incredibile precisione la loro “evoluzione” nel tempo giovanissimi vecchi, quelli degli anziani a volte intatti nello splendore di antichi tratti che arrivano da un passato scritto nel lampo di uno sguardo senza tempo, a volte segnati come i cerchi temporali degli alberi dove ogni ruga sembra il marchio di ricordi, passioni, vittorie e sconfitte, la vita insomma…
Immaginare storie osservando le persone…. Ascoltare storie leggendo nei visi le emozioni concomitanti trascendenti sintoniche o asincrone.
Reggere uno sguardo: capire nell’altro specchiandoci in lui cosa trasmettiamo negli spazi bianchi tra le parole col nostro viso… sperare desiderare di essere capiti senza la necessità di usare fiumi di parole, mai superflue ma spesso tautologiche.
I visi dei pazienti: il primo incontro specchiarsi nel loro sguardo per scoprire da subito la potenziale alleanza… non la richiesta di aiuto o di comprensione o di connivenza sempre possibile… l’ultimo incontro cercare nei tratti il cambiamento solido la speranza la paura il sollievo il dolore
Il mio viso… cosa dirà di me veramente?
Recupero antichi album di fotografie mi specchio in immagini di me che ambivalentemente mi appartengono e mi appaiono al tempo stesso lontane… in una scatola ci sono le fotografie del Liceo cartoncino grigio di supporto a un’epoca senza selfies eternamente ilari e senza social networks che scandiscano la quotidianità saturandola: il passato ha tempi insaturi, frantumati, da riempire di ricordi di raccordo tra le immagini.
Vi ricordate di me?
Sono quello in basso a destra nella foto rituale di fine anno, fatta, come sempre, attorno al pozzo di marmo sul piazzale del Liceo davanti al Museo Navale, alle spalle dei giardini, un tempo regno di Pertica, il vigile nemico del calcio su suolo pubblico non attrezzato, con uno scatto da centometrista nel catturare il pallone e sequestrarcelo per poi restituircelo dopo lunghe trattative e solenni promesse da marinai.
Forse avremmo dovuto essere capaci di parlarci di più allora, di parlare in maniera diversa, soprattutto, ma il tempo è strano, il tempo non è galantuomo, ti fa capire le cose, sempre e solo, troppo tardi.
Vi ricordate di me?
Sono quello con gli occhiali sul viso paffuto e glabro, la pidocchiera blu un po’ troppo stretta e i jeans di velluto chiaro a costine , davanti a Rudy, il compagno di banco alto, alto che portava sempre Playboy in classe, accanto a Enrico, con gli occhi stralunati di sempre, vicino a Mauro inginocchiato, col ciuffo sottile impomatato sulla fronte, la giacca a quadri d’ordinanza e la lavagnetta con l’anno scolastico e il nome della classe.
Does every picture tell a story?
Vi ricordate di me?
Sono quello col posto fisso al penultimo banco, un misto di finta spavalderia e vera timidezza, forse come tutti allora, pensando di essere invece l’unico a soffrirne; sono quello che parlò per un’ora e mezza di filato all’ultima assemblea dell’ultimo anno dopo tre anni di mute partecipazioni; sono quello silenziosamente innamorato per anni della stessa compagna di classe, forse come tutti allora, pensando di essere invece l’unico a non essere ricambiato; sono quello che non riusciva mai a fare la pertica e restava rosso di vergogna, appeso a venti centimetri da terra, ad attendere l’ordine di tornare al proprio posto; sono quello che metteva in piazza la sua sensazione di diversità, convinto di riuscire a nasconderla a tutti, compreso sé stesso.
Vi ricordate di me? Ho voglia di ricordarmi di voi? Sono passati più di quarant’anni da allora. Una vita.
Se mi vedeste, forse, non mi riconoscereste più: sono cambiato tanto fuori, son cambiato così poco dentro.
Chissà quali strade ha preso la vostra vita? Siete felici? Tenete ancora acceso l’interruttore del cuore? Avete dissotterrato l’ascia per realizzare i vostri sogni segreti? Siete dei reduci o delle eterne reclute?
Abbiamo attraversato insieme l’adolescenza, pieni di menzogne troppo brevi per essere belle, apprendisti stregoni costantemente alle prese con troppe scope, in una coabitazione forzosa o voluta, amici o compagni, cognomi spesso senza un nome di battesimo accanto, sconosciuti e inconoscibili gli uni agli altri, generazione bastarda troppo giovane per fare il sessantotto, troppo vecchia o troppo distratta per partecipare al Movimento, nata con Rin-Tin-Tin, cresciuta con“ Fragole e Sangue ”, narcotizzata, se mai ce ne fosse stato bisogno, da“ Twin Peaks ” e dal colore chiaro e dal gusto pulito di Glen Grant.
E’ così difficile crescere.
Enrico, che non è mai stato negli alpini ma ha nel sangue il gusto per le adunate, tiene in ufficio un’agendina con segnate le date dei compleanni e puntualmente telefona, anche a me che regolarmente confondo il giorno del suo genetliaco, sempre incerto tra il 3 e 11 di marzo.
Questo luglio ha organizzato una cena commemorativa della maturità della gloriosa terza D.
E’ un tipo meticoloso, si è dato un sacco da fare per rintracciare studenti invecchiati e professori rimasti, per trovare la data giusta per tutti e il posto, possibilmente evocativo; mi ha, ovviamente, chiesto di partecipare: avrei potuto facilmente liberarmi, gli ho detto di no.
E’ splendido, Francesco. Mi
E’ splendido, Francesco. Mi ci rispecchio (magari non fisiognomicamente 😉 )
grazie
grazie